Il Fatto 10.11.18
A Trieste cacciamo i profughi: le prove
Dall’Italia
alla Serbia. Pachistani e afghani avrebbero diritto all’asilo, vengono
però riconsegnati al confine dalla nostra polizia a quella slovena. Da
qui ripercorrono a ritroso la rotta balcanica. Obiettivo: respingerli
dall’Ue. Ma è illegale
Non-persone. Gli abusi e le violazioni dei
diritti fondamentali dei migranti all’interno delle frontiere europee
sono stati più volte denunciati dalle ong. Questo reportage fotografico
racconta uno dei tanti “campi profughi spontanei” nati in Serbia in
edifici abbandonati – Ansa
di Gianni Barbacetto
La
prova dei comportamenti fuori legge della polizia italiana al confine
di Trieste è un documento un po’ stropicciato che Nveed K. tira fuori
dalla tasca dei jeans. È nato 21 anni fa a Jalalabad, in Afghanistan. Il
28 ottobre scorso è stato fermato a Trieste. In quanto afghano,
dovrebbe avere diritto all’asilo in un Paese europeo. Certamente ha il
diritto di farne richiesta, aspettando la risposta in Italia. Invece è
stato preso, portato nella caserma di Fernetti, al confine con la
Slovenia, identificato e poi consegnato ai poliziotti sloveni.
È
stato riportato in Serbia, la nuova Libia delle rotte di terra. Faceva
parte di un gruppetto di quindici afghani, arrivati insieme quel giorno a
Trieste, tutti espulsi in modo irregolare dall’Italia e ora finiti nel
ghetto serbo di Šid, una minuscola nuova “Giungla di Calais”, abitata
dai migranti cacciati segretamente dall’Italia e in attesa di ritentare
la fortuna, riprendendo il viaggio della speranza verso Trieste.
A
raccontare la storia è un compagno d’avventura di Nveed. Si chiama
Mosum K. È un ragazzo di 19 anni con i capelli ricci. Parla solo
pashtun, non capisce né l’italiano, né l’inglese. Lo traduce, collegato a
Internet, un connazionale che ce l’ha fatta a stabilirsi in Italia.
“Eravamo felici, dopo un viaggio di mesi
siamo finalmente arrivati in Italia”
“Siamo
arrivati a Trieste il 28 ottobre. Eravamo felici. Avevamo fatto un
viaggio durato sei giorni, dalla Serbia all’Italia. Eravamo un gruppo di
quindici afghani. Io ho pagato 2 mila euro a un capo, per il viaggio
attraverso la Croazia e la Slovenia. Ci portavano in macchina, di
giorno. Le persone che ci portavano cambiavano ogni volta. Di notte ci
fermavamo nei boschi e dormivamo in qualche riparo, in qualche casa
abbandonata. L’ultimo pezzo, nei boschi, l’abbiamo fatto a piedi. Ci
hanno fatto passare il confine invisibile tra Slovenia e Italia non
tutti insieme, ma cinque alla volta, finché siamo arrivati tutti in
territorio italiano e abbiamo raggiunto la fermata di un autobus che ci
ha portato a Trieste. Eravamo proprio felici. Ce l’avevamo fatta”.
Continua Mosum: “Era mattina. Stavamo camminando per la città, quando è
arrivata la polizia. Non ci hanno chiesto niente, ci hanno solo presi e
portati in caserma. Siamo stati fotografati, ci hanno preso le impronte
digitali, ci hanno fatto firmare delle carte. Mi hanno dato un pezzo di
carta con stampate delle parole e delle firme e un timbro. No, non ce
l’ho più, l’ho buttato via. Io non capivo niente. Volevo chiedere asilo e
restare in Italia. Mi sembrava stesse andando tutto bene. A un certo
punto ci hanno portato via. Io credevo ci portassero in un campo
d’accoglienza, avevo capito così, invece ci hanno portato di nuovo alla
frontiera e consegnati alla polizia slovena. È ricominciato il nostro
viaggio all’incontrario”.
“Riportati in Slovenia, poi in Croazia bastonati e cacciati in Serbia”
“Il
ritorno è stato molto più breve”, prosegue Mosum. “In un giorno e mezzo
siamo arrivati in Serbia, portati nei furgoni dei poliziotti sloveni,
che poi ci hanno consegnato a quelli croati. Fino al confine con la
Serbia, dove ci hanno lasciato i croati, che ci hanno salutato
prendendoci a bastonate. Adesso sto qui, di giorno vado in giro, la
notte mi riparo nel campo di Šid. È una struttura abbandonata e ci sono
varie tende. Per fortuna ci sono dei volontari che vengono ad aiutarci.
Ho riprovato a tornare verso l’Italia una decina di volte. Non ce l’ho
mai fatta. Non ci lasciano più uscire dalla Serbia. Sono disperato, non
so più cosa fare. Ho perso la speranza”.
“In Afghanistan”,
racconta Mosum, “studiavo scienza informatica. In famiglia siamo in
otto, mio padre, mia madre, due sorelle e quattro fratelli. Per arrivare
in Serbia ci avevo messo più di un mese, attraverso l’Iran e la
Turchia. Viaggiavo con mezzi privati e i confini li passavo a piedi. In
tutto, il viaggio dall’Afghanistan all’Italia mi è costato più di 6 mila
euro”, conclude Mosum, “ma adesso non so più davvero che cosa fare”.
Il campo di Šid, la “Giungla di Calais” in Serbia “Qui ho perso tutte le speranze”
Šid
è una cittadina serba a 5 chilometri dal confine con la Croazia. Da
anni è zona di passaggio dei migranti che cercano di entrare in Europa
percorrendo la rotta balcanica. Attorno a Šid ci sono alcuni campi
profughi ufficiali, gestiti dal governo serbo, in cui vivono migliaia di
persone. Uno di questi, quello di Principovac, ne ospita circa 350.
“Molti ragazzi preferiscono però non stare nei campi ufficiali”,
racconta Alessia, una volontaria appena tornata da Šid, “e vivono in un
campo informale fuori città. È un edificio abbandonato, senza più né
porte né finestre, dove di notte ci sono, in questo periodo, circa 150
persone. Accanto alle strutture in muratura ci sono anche alcune tende.
Negli ultimi mesi sono aumentati i minori non accompagnati, ragazzini
dagli undici, dodici anni, fino ai diciassette. Tutti sono in attesa di
ripartire, di tentare l’ingresso in Italia. Di giorno vivono in giro,
cercano di non farsi vedere troppo in città perché sanno di non essere
graditi, la sera tornano a dormire nel campo. Per mangiare si
arrangiano. Ora è presente una organizzazione spagnola, ‘No name
kitchen’, che fornisce a tutti un pasto al giorno e qualche vestito”.
Si
chiamano, con un eufemismo che nasconde nel nome la brutalità della
cosa, “riammissioni”. Sono respingimenti di migranti che la polizia
italiana ferma appena hanno passato il confine e riconsegna alla polizia
slovena. “Sono regolari, compiute in forza di un accordo bilaterale tra
Italia e Slovenia”, spiegano alla questura di Trieste.
Il
questore, Isabella Fusiello, lo aveva già messo nero su bianco dopo le
polemiche suscitate da un’inchiesta del quotidiano La Stampa, che il 2
novembre aveva scritto di migranti consegnati agli sloveni e rimandati
in Bosnia. “I migranti che vengono riammessi sono quelli che hanno
espresso al personale della polizia di Stato la volontà di non
richiedere asilo politico”, aveva scritto Fusiello. “L’intera procedura
viene documentata con provvedimento formale anche alla presenza di
interpreti esterni all’organizzazione della polizia di Stato e impiegati
come mediatori culturali”.
La catena informale internazionale che caccia i migranti fuori dall’area Schengen
Scuote
la testa Gianfranco Schiavone, presidente di Ics, l’organizzazione che a
Trieste si occupa d’accoglienza insieme alla Caritas diocesana. “Le
riammissioni sono illegali. Abbiamo molte testimonianze di persone che
sono state ricacciate in Slovenia e poi portate in Serbia o in Bosnia,
quindi buttate fuori dall’area di Schengen, ma che invece avevano
diritto di chiedere asilo in Italia e quindi di attendere qui la
risposta sull’accoglimento o meno della loro richiesta. La verità è che
la polizia non ha interpreti che si facciano davvero capire, quei
poveretti che arrivano non sanno una parola né di italiano, né di
inglese. Noi abbiamo offerto più volte l’intervento dei nostri mediatori
culturali: ci hanno sempre respinto”.
L’ipotesi di Schiavone è
che negli ultimi mesi si sia affermata una pratica che punta a espellere
più persone possibile, riconsegnate agli sloveni, che a loro volta le
consegnano ai croati, i quali li buttano fuori dall’area Schengen in
Serbia o in Bosnia, con metodi spicci e non senza violenza. Si è creata
una catena internazionale informale Italia-Slovenia-Croazia-Serbia che
serve ad alleggerire gli ingressi in Italia e a sgonfiare le
statistiche. “Per i migranti è una lotteria”, dice Schiavone, “alcuni
sono accolti regolarmente, altri riconsegnati agli sloveni. Alcuni ce la
fanno a chiedere asilo al secondo o terzo tentativo. È la prova delle
riammissioni illegittime: è sempre la stessa persona, se alla seconda o
terza volta riesce a fare domanda d’asilo, vuol dire che poteva farla
anche la prima”.
Il questore di Trieste: “Se cambiano idea, non è colpa nostra”
“Tutto
quello che facciamo, lo facciamo secondo le regole”, assicura il
questore di Trieste Isabella Fusiello. “A chi è fermato in prossimità
della frontiera viene presentato un modulo plurilingue in cui è
chiaramente chiesto se vuole chiedere asilo oppure no. Solo chi dice no
viene ‘riammesso’ in Slovenia. Oltre al modulo, c’è anche l’interprete,
che oltretutto non è della questura, ma ci viene ‘prestato’ dalle
organizzazioni che gestiscono i migranti. Ripeto, chi è stato riportato
in Slovenia è perché ha fatto capire di non voler chiedere asilo. Se poi
cambia idea, e a voi viene a dire un’altra cosa, non ci posso fare
niente. Loro possono dire quello che vogliono, noi abbiamo gli atti che
provano la correttezza del nostro operato”.
Comunque sia, il
fronte orientale dell’immigrazione è diventato ben più “caldo” di quello
occidentale, che pure nei mesi scorsi ha visto l’accendersi di una
piccola guerra fredda tra Italia e Francia, per alcuni episodi di
sconfinamento della Gendarmerie a Bardonecchia, dove i gendarmi francesi
hanno fermato un cittadino nigeriano alla stazione, e a Claviere, dove
sono stati riportati migranti, scaricati dai francesi in un bosco in
territorio italiano. Sui fatti sta indagando, non senza difficoltà, la
Procura di Torino. Ma Italia e Francia sono due Paesi dell’Unione
europea che si rimpallano tra loro migranti. Sul fronte orientale
starebbe invece avvenendo qualcosa che infrange le norme del regolamento
di Dublino 3: l’espulsione in Paesi fuori area Schengen (Serbia e
Bosnia) di persone a cui non viene permesso di fare domanda di asilo in
Italia, con poliziotti italiani che le consegnano, al confine, alla
polizia slovena. Da chi hanno avuto l’ordine?