Corriere La Lettura 4.11.18
Il futuro debole
Così siamo diventati prigionieri di un presente senza prospettive
di Remo Bodei
Quando
il cammino della storia era più lento e la ruota della fortuna girava
meno velocemente, eravamo abituati a considerare il futuro quasi come un
prolungamento del presente per linee tratteggiate. Oggi il nostro
presente appare tuttavia sguarnito, perché il peso del passato, che
fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è
diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e
orientato le società moderne a partire dal Settecento sotto il segno
del progresso, è diventato debole.
A causa dell’incertezza
diffusamente avvertita (per la mancanza di lavoro, le crisi finanziarie,
il riscaldamento globale o il terrorismo), diventa sempre più difficile
proiettarsi verso il futuro e pensare alle prossime generazioni.
Acquistano un senso più pregnante le parole di John Maynard Keynes
(«l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre»). Anche per
l’intensificarsi dei processi di modernizzazione e d’innovazione di cui
non si riesce ancora a valutare la portata e che seminano, insieme,
paure e speranze, diminuisce drasticamente la capacità di pensare a un
futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative
private.
Limitandoci ai problemi posti dall’ingresso delle nuove
tecnologie, si moltiplicano le domande prive di sicure risposte. Ne
elenco alcune, che toccano, direttamente o indirettamente, la vita di
ognuno: come coordinare la crescente rapidità di calcolo e di esecuzione
di programmi da parte di macchine e dispositivi, dotati di Intelligenza
Artificiale e capaci di apprendere, con la maggiore lentezza degli
umani? L’accelerazione del tempo umano nel tentativo di imitare la
velocità delle macchine è perduta in partenza. Sono necessarie altre
strategie, sia per gettare un ponte tra le operazioni quasi istantanee
delle learning machines e i tempi necessari dello srotolarsi dei
pensieri, delle decisioni e degli stati d’animo umani, sia per
consentire la sopravvivenza di una democrazia in grado di deliberare in
base alla discussione ragionata di progetti piuttosto che affidarsi a
piattaforme di votazione rapida.
Come dovrà cambiare l’educazione
quando si assiste alla crescita sempre più rapida del tasso di
razionalità oggettivata nelle macchine grazie ad algoritmi
incomprensibili ai più? Quando essa invade sfere sempre più numerose
della vita e assorbe inesorabilmente, oltre che l’intelligenza, anche la
volontà, delegata a guidare non solo macchine senza pilota,
relativamente innocue, ma ominosi sistemi missilistici automatici o
complessi strumenti che decidono in microsecondi le scelte degli
investitori in Borsa? Continuando a ignorare l’urgenza di comprendere e
reagire ai mutamenti in corso, si andrà incontro a una nuova ignoranza
di massa. Malgrado la maggiore diffusione dell’alfabetizzazione e il
maggiore peso del bagaglio di nozioni generali, si moltiplica, infatti,
anche il numero degli idioti (nel senso greco del termine, ossia di
persone private incapaci di partecipare con una sufficiente
consapevolezza alla vita politica e culturale, perché chiusi nella
particolarità del proprio lavoro e nei limiti dei loro immediati
interessi).
Data la veloce obsolescenza delle nostre informazioni e
delle stesse macchine, occorre introdurre urgentemente il sistema della
continuing education, inventando dei modelli educativi che, scherzando
ma non troppo, potrebbero seguire il modello dell’esercito svizzero
(ossia prevedere, dopo la «ferma» delle scuole regolarmente frequentate,
il periodico richiamo dei cittadini all’aggiornamento delle loro
conoscenze e della cultura generale).
Si dovrebbe mirare, da un
lato, sia all’aggiornamento in campo professionale, sia alla capacità di
operare in processi che connettono il lavoro umano alle nuove
tecnologie, così che gli uomini non diventino appendici stupide di
macchine intelligenti; dall’altro a un genere di educazione in grado di
superare la separazione tra saperi umanistici e tecnico-scientifici.
L’estensione del modello del long life learning assumerà con gli anni un
carattere sempre meno utopico a causa del progressivo incremento del
tempo libero, reso possibile dall’applicazione delle nuove tecnologie ai
processi produttivi.
A questo punto, le domande aumentano ancora,
in parallelo alle incertezze sull’imminente futuro. Il nostro continuo
contatto con i pensieri già «formattati», e scritti da altri, rischierà
di ottundere la mente, di indebolire la volontà, di renderne sfocata
l’immaginazione, di demotivare la creatività latente in ciascuno di noi
fino a essiccare la stessa facoltà di giudizio? Attraverso le
semplificazioni il pensiero articolato subirà pesanti penalizzazioni:
sarà considerato involuto, poco chiaro? In questo modo, la
semplificazione del pensiero, ridotto a tweet o a slogan, non andrà
forse contro il compito della cultura che è quello di insegnare, semmai,
a complicare, di mostrare le differenze e le sfumature tra concetti o
azioni (il termine «concreto» deriva, del resto, dal verbo cum crescere,
«crescere insieme», tener contro della pluralità dei fattori che si
modificano insieme)?
Ancora: come cambierà, ad esempio, oltre che
sul piano della digital fluency, la costruzione della personalità umana e
l’idea stessa di educazione o di formazione (Bildung), quando gli
individui, a causa della necessità di cambiare lavoro e di tenere il
passo con cambiamenti sempre più rapidi, saranno costretti a sovvertirsi
di continuo o a programmarsi esclusivamente in vista, trascurando una
formazione più completa della propria personalità?
Come sarà
possibile evitare che il sapere che dà potere si concentri nel vertice
della gerarchia sociale, che si formi una élite di persone in grado di
accedere ad algoritmi e banche dati lasciando il resto dell’umanità in
condizioni di ignoranza e di povertà, che la conoscenza tecnica sia
patrimonio di una oligarchia che lascia i più in balia di opinioni?
Che
fare? Siamo tutti emigranti nel tempo: ci spostiamo dal presente noto
verso un comune futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme,
da cesura rispetto al successivo. Abbiamo bisogno della memoria del
passato come esperienza e dell’attenzione del presente teso a
«defuturizzare» l’avvenire. Ma anche, e indissolubilmente, dell’apertura
a pensare il nuovo e il possibile, del futuro cui si accede a partire
dalla discontinuità rispetto a quel che eravamo e pensavamo.