domenica 4 novembre 2018

Corriere La Lettura 4.11.18
Il matematico partigiano
Il combattente antifascista più decorato d’Italia
di Andrea Angiolino


Mario Fiorentini compie cent’anni il 7 novembre. Sostiene, a buon diritto, di aver vissuto tre vite: una da intellettuale, una da partigiano, una da matematico. A quest’ultima vita appartiene il volume che proprio mercoledì esce per Iacobelli. Si intitola Zero uno infinito e Fiorentini lo ha scritto con Ennio Peres. Raccoglie curiosità matematiche di vario genere e giochi di «matemagica», per rendere accattivante una materia ritenuta troppo spesso arida. Agli aspetti più ludici provvede soprattutto Ennio Peres, già insegnante non ortodosso e poi giocologo, enigmista, autore di libri divulgativi. «La Lettura» è andata a trovare Fiorentini nella sua casa romana dietro via Rasella.
A 14 anni Mario lavorava in negozio e alla sera studiava da ragioniere. Ma il padre gli aveva trasmesso l’amore per la letteratura e per la musica. Presto lasciò gli studi e prese a frequentare gli ambienti culturali romani: le serate cinematografiche a Palazzo Braschi e gli spettacoli teatrali, i salotti intellettuali e gli artisti di via Margutta e Villa Strohl Fern. Conobbe Giorgio Caproni, Renato Guttuso, Sandro Penna e tanti altri. «Con Carlo Lizzani ci chiamavano il prezzemolo perché ci infilavamo in tutte le iniziative. C’era un convegno a Treviso? E noi schizzavamo lì per sapere che cosa succedeva. Eravamo curiosi, molto, e molto determinati».
Di madre cattolica e padre ebreo, aveva ricevuto un’educazione laica. Ma nel 1938, per solidarietà contro le leggi razziali, chiese al rabbino capo Gustavo Sacerdoti di convertirlo all’ebraismo. Sacerdoti, sbalordito, gli rispose che non era circonciso. Quando Fiorentini tornò da lui disposto anche a farsi circoncidere, per dissuaderlo e preservarlo dalle persecuzioni, Sacerdoti dovette dirgli che il suo gesto poteva essere travisato come un vile tentativo di sottrarsi alla leva militare, da cui gli ebrei erano stati esclusi.
Si innamorò del cinema leggendo il regista russo Vsevolod Pudovkin. «Con Luchino Visconti ed Ennio De Concini lavoravo a un film. Avevamo un’idea diversa da Visconti: puntavamo a fare cinema con attori non professionisti, lui puntava sul grande attore. Poi mi hanno preso e mi hanno mandato in guerra». Al ritorno dal fronte Fiorentini si diede al teatro. «Con Plinio De Martiis costituimmo una compagnia per portare il teatro a un pubblico che solitamente non ci va, quello dei cinema di periferia. Avevamo alle nostre dipendenze Vittorio Gassman, Adolfo Celi, Luigi Squarzina: il fiore del giovane teatro italiano». Con lui Gassman esordì ne L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello. Un giorno, Fiorentini in testa, marciarono contro il sindacato fascista degli artisti. «Aveva un teatrino in via Sicilia e lo abbiamo occupato manu militari. La direzione cosa poteva fare? Chiamare la polizia? Non lo fece. Cercai di mettere Gassman su un tavolo a cantare l’Internazionale». Più prudentemente, decisero poi di fargli recitare Cechov.
All’armistizio del settembre 1943, Fiorentini combatté a Porta San Paolo contro i tedeschi che entravano a Roma. Con la compagna di una vita, Lucia Ottobrini (scomparsa nel 2015), videro sfilare i carri armati per via del Tritone e decisero di non arrendersi. Aderirono ai Gap, le formazioni comuniste impegnate nella guerriglia urbana: lei, alsaziana, sarà una tenace partigiana, preziosa anche perché di madrelingua tedesca.
Il 16 ottobre 1943 Fiorentini sfuggì al rastrellamento degli ebrei uscendo dal retro di casa e saltando sui tetti. Trovando solo gli anziani genitori, i tedeschi non perquisirono l’appartamento: avrebbero scoperto una cassa di bombe sotto un letto. Davanti ai treni per i campi di sterminio, la madre si salvò perché cattolica: si impuntò, gridò, alla fine riuscì a portare con sé il marito. «È un episodio che mi ha colpito e dato la forza di attaccare i tedeschi», ricorda Fiorentini.
Arruolò artisti come Vasco Pratolini e pittori come Guttuso e Vedova. Sfruttò quest’ultimo, eccezionalmente alto, per dipingere nottetempo scritte di propaganda sui muri. Diresse il Gap centrale «Antonio Gramsci», pianificò ed eseguì molte azioni assieme alla Ottobrini, a Carla Capponi e a Rosario Bentivegna — in pochissimi contro un esercito.
Anche su richiesta degli Alleati, colpirono i nazisti in una Roma mai davvero città aperta. Tra i casi più eclatanti, l’attacco del 26 dicembre 1943: Fiorentini, in bicicletta, lanciò una bomba contro i tedeschi che si davano il cambio davanti a Regina Coeli, poi fuggì pedalando sotto i proiettili. Propose e pianificò l’attentato di via Rasella contro un battaglione tedesco che vedeva sfilare sotto casa nelle stesse uniformi verde marcio di chi aveva rastrellato i suoi genitori. Usando bombe da mortaio modificate per il lancio a mano ingannò il capo delle SS Herbert Kappler, che cercò invano da dove avessero sparato le armi pesanti in realtà mai possedute dai partigiani. La risposta nazista a via Rasella fu la strage delle Fosse Ardeatine: 335 persone trucidate. Fiorentini lasciò Roma. Rientrò in città il 5 giugno 1944 con la divisione americana Texas.
Entrò nei servizi segreti militari americani del maggior generale William J. Donovan. Da comunista Fiorentini operò tra i precursori della Cia. Paracadutato in Val Trebbia, eseguì varie missioni. «A me e Lucia ci chiamavano la coppia di volpi argentate»: allude alle otto medaglie — italiane, inglesi, statunitensi. «Io, che sono il partigiano più decorato d’Italia, ho rischiato la vita per far sì che Benito Mussolini venisse consegnato vivo agli americani. Purtroppo non ci sono riuscito». Vanta quattro nomi di battaglia e molte identità riportate su documenti falsi. È stato in quattro carceri: «Sono un avanzo di galera», scherza.
Dopo la guerra, con gran forza di volontà Fiorentini riuscì a diplomarsi e laurearsi: aveva 43 anni. Insegnante di scuola media, lesse di un concorso per professori: scrisse 140 pagine di getto e vinse. Con pubblicazioni prestigiose ottenne una cattedra di Matematica. «Se mi chiedono quali sono stati gli anni più belli della mia vita, dico i 25 che ho trascorso all’Università di Ferrara come professore», dice. Senza trascurare la didattica puntò sulla ricerca: chiamò giovani talenti che spediva nel mondo ad aggiornarsi e invitava matematici dall’estero creando un punto di riferimento internazionale.
A settant’anni il governo polacco gli offrì il titolo di professore a vita per chiara fama in un’università a scelta: ma Ferrara gli chiese di restare e lo congedò poi nel 1997 con un convegno a lui dedicato. Gli atti, con 28 contributi saggistici e un ponderoso volume di 900 pagine con articoli suoi e dei collaboratori, testimoniano il suo impegno nella matematica. Ma la vita del pensionato non fa per lui: è già al lavoro per preparare altri libri.