Corriere La Lettura 4.11.18
L’inversione della colpa
Heidegger dopo Hitler
Esce il volume dei «Quaderni neri» scritto dal 1942 al 1948, nella eccellente traduzione di Alessandra Iadicicco.
Il
grande pensatore, dopo la sconfitta del nazismo nel 1945, continua a
difendere i tedeschi e bolla come una vergogna mondiale la politica
avviata dagli Alleati per rieducare il suo popolo ai valori democratici
di Donatella Di Cesare
Fra
qualche giorno sarà finalmente disponibile anche nelle librerie
italiane il volume Note I-V dei Quaderni neri, edito da Bompiani. Si
tratta delle pagine più discusse e controverse di Martin Heidegger, che
vanno dall’estate del 1942, quando sul fronte orientale comincia a
profilarsi la sconfitta della Germania, ai difficili anni del
dopoguerra, fino al 1948.
La pubblicazione di questo volume, che è
il numero 97 delle opere complete nell’edizione tedesca, si deve alla
competenza e alla tenacia di Alessandra Iadicicco, eccellente
traduttrice di letteratura tedesca, ma anche profonda conoscitrice della
filosofia, capace di rendere con fedeltà estrema anche le parole e i
composti più complicati, senza per questo deturpare l’italiano — come
purtroppo fanno alcuni. Il risultato è un testo elegante,
leggibilissimo, che ha al contempo il pregio di essere per così dire
trasparente, rinviando di volta in volta il lettore all’originale
tedesco, ai suoi echi semantici, alle suggestioni concettuali, che
altrimenti andrebbero perduti.
Tanto più sorprendenti appaiono le
polemiche sorte intorno alla traduzione di alcune parole tedesche,
polemiche che, oltre a ritardare l’uscita di questo volume dei Quaderni
neri, stavano per metterne a repentaglio la pubblicazione. L’esempio più
eclatante è Judentum, «ebraismo». Come altrimenti si dovrebbe rendere?
Christentum si traduce «cristianesimo». E dunque? L’accusa mossa a
Iadicicco è quella di essersi prestata ad una sorta di «falsificazione».
Meglio sarebbe stato — evidentemente al fine di edulcorare il testo —
scegliere per Judentum la parafrasi «carattere ebraico», o addirittura
(ma non è molto più grave?) «spirito giudaico». Casi analoghi sono
Judenschaft, reso giustamente con «ebraicità», Verwüstung,
«desertificazione» (Wüste in tedesco vuol dire «deserto»), Reinigung,
«purificazione», e infine il composto oramai famoso Selbstvernichtung,
quella nuova figura politica introdotta da Heidegger proprio nel volume
97 per definire la Shoah (ma non solo). Dato che selbst è il pronome che
indica «sé», «da sé», «stesso» e Vernichten significa «annientare»,
come si dovrebbe tradurre Selbstvernichtung se non «autoannientamento»?
Si
tratta di polemiche pretestuose, riprese da una stampa che talvolta
esprime giudizi grossolani, senza mai entrare nel merito delle
questioni. A che pro studiare i Quaderni neri? E perché poi darsi pena
di considerare Essere e tempo? Basta farsi paladini di un Martin
Heidegger fantasmatico e inesistente, ridotto a mero alibi, appiglio per
colpire quegli «intellettuali» che continuano ad esercitare la cultura
nel segno della critica e della riflessione. La filosofia non è affatto
una partita di calcio. E il gioco del pro e del contro serve soltanto a
non pensare.
Coloro che avranno la pazienza e l’umiltà di leggere
le pagine dei nuovi Quaderni neri saranno proiettati negli anni più bui
della storia tedesca. Lo spaccato è tanto più coinvolgente, in quanto a
narrarlo e a descriverlo è il grande filosofo del Novecento. Quasi
rivolgendosi alle generazioni future Heidegger raccoglie sentimenti,
pensieri, ansie di un popolo sconfitto di cui, a suo modo, interpreta il
risentimento, articola i timori e le aspirazioni. Numerosissimi sono i
temi che si succedono con ritmo incalzante.
Nelle Note I, che
comprendono l’ultimo tragico periodo bellico, e quindi la sconfitta,
prevalgono le valutazioni politiche, rese più ardue dallo «smarrimento»
che assale anche Heidegger. Tra le righe si leggono gli effetti di
Stalingrado. La storia sembra aver preso un corso imprevisto e forse
irreversibile. Che ne sarà della Germania? «Vegliare e proteggere»: sono
i verbi che Heidegger suggerisce nel periodo del lutto. Ma di questo è
certo: «Il tempo dei tedeschi non è ancora trascorso», sebbene non sia
chiaro quale sarà il loro futuro. Il pericolo più grande, sottolineato
con forza, è il «tradimento» dell’essenza tedesca. Quel popolo
ferreamente coeso, che fino all’ultimo ha combattuto senza mai
capitolare, rischia di autodistruggersi per via di una forma subdola e
ignobile di infedeltà a sé stesso indotta dalla rieducazione a cui gli
Alleati vorrebbero costringerlo. Così i tedeschi potrebbero finire per
credere di essere dalla parte della colpa. Heidegger fa corpo con il suo
popolo, senza nessuna distanza. Il naufragio della Germania è il suo
naufragio.
L’atteggiamento è opposto a quello assunto da Karl
Jaspers, l’amico di un tempo, che già nel 1946 con il suo pamphlet La
questione della colpa denuncia la responsabilità criminale, politica,
morale, metafisica della Germania. Nelle Note I e II Heidegger mette
addirittura sotto accusa Jaspers. «Come può un uomo, fosse pure un
affermato erudito di filosofia — presumere di ragionare sulla “colpa”»?
Jaspers tradisce e induce al tradimento. Alla Schuldfrage, la «questione
della colpa», Heidegger replica con la Weltschande, la «vergogna
mondiale», che minaccia il popolo tedesco, additato a vera «vittima» in
una strategia difensiva che mira a invertire i ruoli.
D’altronde
Jaspers appare ai suoi occhi doppiamente colpevole. È stato lui a
scrivere nel dicembre del 1945 una lettera che, anziché aiutarlo, ha
contribuito in modo decisivo a impedire la sua riabilitazione e a
sancire anzi, il 19 gennaio 1946, l’allontanamento dall’università.
Heidegger ricostruisce l’intera vicenda con toni spesso esasperati. Si
indovina il suo disappunto. Si sente finito e con rabbia parla di
«estromissione» organizzata. Il crollo è inevitabile. Nel marzo 1946
viene ricoverato in una clinica psichiatrica a Badenweiler, vicino a
Friburgo, dove è curato da Victor von Gebsattel, uno psichiatra
appartenente alla scuola di Ludwig Binswanger, a sua volta ispirato
dalla lettura di Essere e tempo.
I quaderni che vanno dal 1946 al
1948 — corrispondenti alle Note III-V — sono di grande interesse perché
testimoniano un incessante lavoro autocritico grazie a cui Heidegger
riesce ad andare oltre quella cesura, che avrebbe potuto essere
definitiva. Sente infatti di essere giunto a un punto di non ritorno. Il
ripensamento della sua opera è indubbiamente anche una sorta di
autodifesa. Si rivolge espressamente agli intellettuali francesi che —
da Alain Resnais a Frédéric de Towarnicki — già dall’autunno del 1945
vanno a trovarlo nel suo rifugio di Todtnauberg, nella Foresta Nera. Ma
l’interlocutore a cui mira è Jean-Paul Sartre, più volte citato. Non ne
ha molta stima; lo giudica un filosofo non originale, che si è
indebitamente appropriato di molte sue idee. Strategicamente, però,
intuisce che proprio la cultura francese degli occupanti può salvare la
sua opera dall’oblio al quale in patria sembra condannata. E sarà in
effetti così. Tradotto in francese, Heidegger è destinato a una nuova
ricezione, questa volta mondiale.
Si premunisce dai
fraintendimenti scrivendo la celebre Lettera sull’«umanismo», pubblicata
nel 1947. Nei quaderni osserva che, dopo quella lettera, nessuno
dovrebbe più chiedergli la seconda parte di Essere e tempo. Proprio
quest’opera è al centro del volume 97. I rimandi sono numerosissimi. Si
tratta di pagine e pagine in cui Heidegger ritorna sul suo capolavoro,
divenuto nel frattempo un classico, per ripercorrere il proprio cammino.
Rivendica quel che ha scritto. «Il solo pensiero della mia vita, che mi
resta fedele, è “essere e tempo”». Con ciò non intende solo il libro,
bensì quel complesso di temi su cui non ha mai smesso di meditare. Non
senza una certa irritazione biasima la letteratura critica che
frettolosamente attribuisce a Essere e tempo l’etichetta
«esistenzialismo», senza scorgere la radicalità della sua «distruzione».
Certo,
quell’opera è rimasta incompiuta. Da accorto escursionista Heidegger ha
cercato di scalare un monte, lungo le cui pareti nessuno si era mai
avventurato. Pur precipitando qui e là, è andato avanti, fra burroni e
tornanti; d’improvviso si è accorto, però, di essersi smarrito, non
perché non ci fossero sentieri, ma perché era lui a non riuscire più a
scorgerli. Il pensiero è «naufragato “in cammino”»; ma un pensiero che
naufraga non è un pensiero sul naufragio.
Alla luce della
continuità che lo stesso Heidegger rivendica nel dopoguerra, sempre più
grotteschi si rivelano i tentativi di quanti oggi vorrebbero da un canto
conservare Essere e tempo, dall’altro sbarazzarsi dei Quaderni neri. La
sfida per il futuro consisterà piuttosto nel trovare i collegamenti tra
quelle pagine, seguendo le indicazioni che Heidegger fornisce
esplicitamente. La ricostruzione del confronto con Essere e tempo nel
volume 97 sarà dunque il compito di una seria ricerca.
Proprio
sulla base di queste Note ultime si ripropone la questione dei nessi e
dei fili che si dipanano da Essere e tempo e che potrebbero motivare
filosoficamente le scelte politiche successive. La novità dei Quaderni
neri è che Heidegger scrive a chiare lettere che il suo «errore non è
stato solo “politico”». Se non ha riconosciuto il «nazismo» reale è per
via di un’errata valutazione filosofica che lo ha spinto a precorrere i
tempi, a immaginare finita un’età, quella della tecnica, che ancora era
lontana dal tramontare.
Sono molti i temi che in Essere e tempo
preludono al cammino percorso negli anni Trenta: una certa analisi
dell’esistenza, gettata nel mondo e inchiodata, quasi per destino, al
suo qui ed ora, lo spettro dell’inautenticità, la decisione, a tratti
monacale o soldatesca, che anticipa la morte, la tonalità apocalittica
che incombe. Non c’è dubbio che l’impegno politico scaturisca dalla sua
filosofia. Era un’epoca in cui era necessario essere radicali. Heidegger
lo era.
Mentre ci sono argomentazioni e analisi in Essere e tempo
sulle quali resterà un’ombra, per molte altre è insensato cercare a
tutti i costi implicazioni. Talvolta, perfino in una stessa frase,
mentre delinea una nuova idea, nello stesso tempo Heidegger la inficia,
la scredita, la compromette, con una modulazione azzardata, una cadenza
rovinosa. Perciò è indispensabile una lettura critica, che sappia
discernere e distinguere.