domenica 4 novembre 2018

Corriere La Lettura 4.11.18
L’inversione della colpa
Heidegger dopo Hitler
Esce il volume dei «Quaderni neri» scritto dal 1942 al 1948, nella eccellente traduzione di Alessandra Iadicicco.
Il grande pensatore, dopo la sconfitta del nazismo nel 1945, continua a difendere i tedeschi e bolla come una vergogna mondiale la politica avviata dagli Alleati per rieducare il suo popolo ai valori democratici
di Donatella Di Cesare


Fra qualche giorno sarà finalmente disponibile anche nelle librerie italiane il volume Note I-V dei Quaderni neri, edito da Bompiani. Si tratta delle pagine più discusse e controverse di Martin Heidegger, che vanno dall’estate del 1942, quando sul fronte orientale comincia a profilarsi la sconfitta della Germania, ai difficili anni del dopoguerra, fino al 1948.
La pubblicazione di questo volume, che è il numero 97 delle opere complete nell’edizione tedesca, si deve alla competenza e alla tenacia di Alessandra Iadicicco, eccellente traduttrice di letteratura tedesca, ma anche profonda conoscitrice della filosofia, capace di rendere con fedeltà estrema anche le parole e i composti più complicati, senza per questo deturpare l’italiano — come purtroppo fanno alcuni. Il risultato è un testo elegante, leggibilissimo, che ha al contempo il pregio di essere per così dire trasparente, rinviando di volta in volta il lettore all’originale tedesco, ai suoi echi semantici, alle suggestioni concettuali, che altrimenti andrebbero perduti.
Tanto più sorprendenti appaiono le polemiche sorte intorno alla traduzione di alcune parole tedesche, polemiche che, oltre a ritardare l’uscita di questo volume dei Quaderni neri, stavano per metterne a repentaglio la pubblicazione. L’esempio più eclatante è Judentum, «ebraismo». Come altrimenti si dovrebbe rendere? Christentum si traduce «cristianesimo». E dunque? L’accusa mossa a Iadicicco è quella di essersi prestata ad una sorta di «falsificazione». Meglio sarebbe stato — evidentemente al fine di edulcorare il testo — scegliere per Judentum la parafrasi «carattere ebraico», o addirittura (ma non è molto più grave?) «spirito giudaico». Casi analoghi sono Judenschaft, reso giustamente con «ebraicità», Verwüstung, «desertificazione» (Wüste in tedesco vuol dire «deserto»), Reinigung, «purificazione», e infine il composto oramai famoso Selbstvernichtung, quella nuova figura politica introdotta da Heidegger proprio nel volume 97 per definire la Shoah (ma non solo). Dato che selbst è il pronome che indica «sé», «da sé», «stesso» e Vernichten significa «annientare», come si dovrebbe tradurre Selbstvernichtung se non «autoannientamento»?
Si tratta di polemiche pretestuose, riprese da una stampa che talvolta esprime giudizi grossolani, senza mai entrare nel merito delle questioni. A che pro studiare i Quaderni neri? E perché poi darsi pena di considerare Essere e tempo? Basta farsi paladini di un Martin Heidegger fantasmatico e inesistente, ridotto a mero alibi, appiglio per colpire quegli «intellettuali» che continuano ad esercitare la cultura nel segno della critica e della riflessione. La filosofia non è affatto una partita di calcio. E il gioco del pro e del contro serve soltanto a non pensare.
Coloro che avranno la pazienza e l’umiltà di leggere le pagine dei nuovi Quaderni neri saranno proiettati negli anni più bui della storia tedesca. Lo spaccato è tanto più coinvolgente, in quanto a narrarlo e a descriverlo è il grande filosofo del Novecento. Quasi rivolgendosi alle generazioni future Heidegger raccoglie sentimenti, pensieri, ansie di un popolo sconfitto di cui, a suo modo, interpreta il risentimento, articola i timori e le aspirazioni. Numerosissimi sono i temi che si succedono con ritmo incalzante.
Nelle Note I, che comprendono l’ultimo tragico periodo bellico, e quindi la sconfitta, prevalgono le valutazioni politiche, rese più ardue dallo «smarrimento» che assale anche Heidegger. Tra le righe si leggono gli effetti di Stalingrado. La storia sembra aver preso un corso imprevisto e forse irreversibile. Che ne sarà della Germania? «Vegliare e proteggere»: sono i verbi che Heidegger suggerisce nel periodo del lutto. Ma di questo è certo: «Il tempo dei tedeschi non è ancora trascorso», sebbene non sia chiaro quale sarà il loro futuro. Il pericolo più grande, sottolineato con forza, è il «tradimento» dell’essenza tedesca. Quel popolo ferreamente coeso, che fino all’ultimo ha combattuto senza mai capitolare, rischia di autodistruggersi per via di una forma subdola e ignobile di infedeltà a sé stesso indotta dalla rieducazione a cui gli Alleati vorrebbero costringerlo. Così i tedeschi potrebbero finire per credere di essere dalla parte della colpa. Heidegger fa corpo con il suo popolo, senza nessuna distanza. Il naufragio della Germania è il suo naufragio.
L’atteggiamento è opposto a quello assunto da Karl Jaspers, l’amico di un tempo, che già nel 1946 con il suo pamphlet La questione della colpa denuncia la responsabilità criminale, politica, morale, metafisica della Germania. Nelle Note I e II Heidegger mette addirittura sotto accusa Jaspers. «Come può un uomo, fosse pure un affermato erudito di filosofia — presumere di ragionare sulla “colpa”»? Jaspers tradisce e induce al tradimento. Alla Schuldfrage, la «questione della colpa», Heidegger replica con la Weltschande, la «vergogna mondiale», che minaccia il popolo tedesco, additato a vera «vittima» in una strategia difensiva che mira a invertire i ruoli.
D’altronde Jaspers appare ai suoi occhi doppiamente colpevole. È stato lui a scrivere nel dicembre del 1945 una lettera che, anziché aiutarlo, ha contribuito in modo decisivo a impedire la sua riabilitazione e a sancire anzi, il 19 gennaio 1946, l’allontanamento dall’università. Heidegger ricostruisce l’intera vicenda con toni spesso esasperati. Si indovina il suo disappunto. Si sente finito e con rabbia parla di «estromissione» organizzata. Il crollo è inevitabile. Nel marzo 1946 viene ricoverato in una clinica psichiatrica a Badenweiler, vicino a Friburgo, dove è curato da Victor von Gebsattel, uno psichiatra appartenente alla scuola di Ludwig Binswanger, a sua volta ispirato dalla lettura di Essere e tempo.
I quaderni che vanno dal 1946 al 1948 — corrispondenti alle Note III-V — sono di grande interesse perché testimoniano un incessante lavoro autocritico grazie a cui Heidegger riesce ad andare oltre quella cesura, che avrebbe potuto essere definitiva. Sente infatti di essere giunto a un punto di non ritorno. Il ripensamento della sua opera è indubbiamente anche una sorta di autodifesa. Si rivolge espressamente agli intellettuali francesi che — da Alain Resnais a Frédéric de Towarnicki — già dall’autunno del 1945 vanno a trovarlo nel suo rifugio di Todtnauberg, nella Foresta Nera. Ma l’interlocutore a cui mira è Jean-Paul Sartre, più volte citato. Non ne ha molta stima; lo giudica un filosofo non originale, che si è indebitamente appropriato di molte sue idee. Strategicamente, però, intuisce che proprio la cultura francese degli occupanti può salvare la sua opera dall’oblio al quale in patria sembra condannata. E sarà in effetti così. Tradotto in francese, Heidegger è destinato a una nuova ricezione, questa volta mondiale.
Si premunisce dai fraintendimenti scrivendo la celebre Lettera sull’«umanismo», pubblicata nel 1947. Nei quaderni osserva che, dopo quella lettera, nessuno dovrebbe più chiedergli la seconda parte di Essere e tempo. Proprio quest’opera è al centro del volume 97. I rimandi sono numerosissimi. Si tratta di pagine e pagine in cui Heidegger ritorna sul suo capolavoro, divenuto nel frattempo un classico, per ripercorrere il proprio cammino. Rivendica quel che ha scritto. «Il solo pensiero della mia vita, che mi resta fedele, è “essere e tempo”». Con ciò non intende solo il libro, bensì quel complesso di temi su cui non ha mai smesso di meditare. Non senza una certa irritazione biasima la letteratura critica che frettolosamente attribuisce a Essere e tempo l’etichetta «esistenzialismo», senza scorgere la radicalità della sua «distruzione».
Certo, quell’opera è rimasta incompiuta. Da accorto escursionista Heidegger ha cercato di scalare un monte, lungo le cui pareti nessuno si era mai avventurato. Pur precipitando qui e là, è andato avanti, fra burroni e tornanti; d’improvviso si è accorto, però, di essersi smarrito, non perché non ci fossero sentieri, ma perché era lui a non riuscire più a scorgerli. Il pensiero è «naufragato “in cammino”»; ma un pensiero che naufraga non è un pensiero sul naufragio.
Alla luce della continuità che lo stesso Heidegger rivendica nel dopoguerra, sempre più grotteschi si rivelano i tentativi di quanti oggi vorrebbero da un canto conservare Essere e tempo, dall’altro sbarazzarsi dei Quaderni neri. La sfida per il futuro consisterà piuttosto nel trovare i collegamenti tra quelle pagine, seguendo le indicazioni che Heidegger fornisce esplicitamente. La ricostruzione del confronto con Essere e tempo nel volume 97 sarà dunque il compito di una seria ricerca.
Proprio sulla base di queste Note ultime si ripropone la questione dei nessi e dei fili che si dipanano da Essere e tempo e che potrebbero motivare filosoficamente le scelte politiche successive. La novità dei Quaderni neri è che Heidegger scrive a chiare lettere che il suo «errore non è stato solo “politico”». Se non ha riconosciuto il «nazismo» reale è per via di un’errata valutazione filosofica che lo ha spinto a precorrere i tempi, a immaginare finita un’età, quella della tecnica, che ancora era lontana dal tramontare.
Sono molti i temi che in Essere e tempo preludono al cammino percorso negli anni Trenta: una certa analisi dell’esistenza, gettata nel mondo e inchiodata, quasi per destino, al suo qui ed ora, lo spettro dell’inautenticità, la decisione, a tratti monacale o soldatesca, che anticipa la morte, la tonalità apocalittica che incombe. Non c’è dubbio che l’impegno politico scaturisca dalla sua filosofia. Era un’epoca in cui era necessario essere radicali. Heidegger lo era.
Mentre ci sono argomentazioni e analisi in Essere e tempo sulle quali resterà un’ombra, per molte altre è insensato cercare a tutti i costi implicazioni. Talvolta, perfino in una stessa frase, mentre delinea una nuova idea, nello stesso tempo Heidegger la inficia, la scredita, la compromette, con una modulazione azzardata, una cadenza rovinosa. Perciò è indispensabile una lettura critica, che sappia discernere e distinguere.

Il Sole Domenica 4.11.18
La via italiana al marxismo
Itinerari filosofici. Marcello Mustè ricostruisce la storia della complessa vicenda del movimento operaio europeo che nel nostro Paese ha avuto un’assoluta unicità e identità
di Giuseppe Vacca

Marcello Mustè, Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Viella, Roma

Il bicentenario della nascita di Karl Marx ha riacceso l’interesse per la diffusione del suo pensiero in Italia. Fra le ricerche dedicate a questo tema spicca il libro di Marcello Mustè Marxismo e filosofia della praxis: Da Labriola a Gramsci, appena pubblicato da Viella. Il tema della «via italiana al marxismo» fu posto nel dopoguerra in chiave di politica culturale. All’inizio degli anni Ottanta, in piena crisi del marxismo, fu riformulato da Biagio de Giovanni in un celebre saggio intitolato Le vie di Marx filosofo in Italia che sottolineava l’incidenza della filosofia della prassi del giovane Marx sulla nascita del neoidealismo ravvisando in essa la ragione principale della sua vitalità.
Quarant’anni dopo il tema ha assunto un carattere squisitamente storiografico e viene affrontato da Musté nel modo finora più esauriente e persuasivo al fine di spiegare perché il marxismo italiano, nel quarantennio 1895-1935, abbia avuto una «storia a sé nella complessa vicenda del movimento operaio europeo».
La formula «filosofia della praxis» fu coniata da Antonio Labriola che, di fronte alla crisi del marxismo di fine Ottocento, avvertì l’esigenza di ripensarne il fondamento filosofico. Dai suoi saggi sulla concezione materialistica della storia (1895-1898) ebbe origine un nuovo modo di intendere il pensiero di Marx.
Labriola collegava la crisi teorica del marxismo alla crisi dell’assetto politico europeo e ne coglieva i riverberi nella situazione italiana. Scrutandola con le lenti di Marx filosofo della prassi, egli inaugurava una nuova metodologia storiografica collocando la vicenda nazionale italiana nella «storia mondiale». Prendeva corpo così una visione della contemporaneità scandita dall’interdipendenza e dalle altalenanti asimmetrie fra storia mondiali e storie nazionali.
Riallacciandosi alla lezione di Bertrando Spaventa, Labriola faceva con Marx quello che il suo maestro aveva fatto con Hegel: ne innestava il pensiero nella storia e nella cultura italiane. Per lui la praxis era il lavoro e quindi il soggetto a cui si rivolgeva era il movimento operaio da poco costituitosi in partito socialista. Nello stesso tempo, riattivando il paradigma della circolazione europea della filosofia italiana, elevava il marxismo ai livelli della cultura europea più avanzata facendo sì che la nuova filosofia che germinava dalla dissoluzione dell’egemonia positivistica dovesse fare i conti con Marx. Come abbiamo accennato, è il tema più volte esplorato della cosiddetta rinascita dell’idealismo e specificatamente delle origini della filosofia dello spirito di Benedetto Croce e dell’attualismo di Giovanni Gentile. Grazie alle dense pagine in cui illustra gli elementi del pensiero di Marx che fertilizzarono la filosofia di Croce e di Gentile, Mustè elimina numerosi fraintendimenti. In entrambi i filosofi la contaminazione con il marxismo mirava a negare autonomia filosofica e legittimità egemonica al socialismo: per Croce non c’era il problema storico di un nuovo soggetto poiché rimaneva ben salda la figura del riformismo liberale come unico soggetto egemonico e per Gentile il nuovo soggetto era il nazionalismo.
Ma prima dell’ampio capitolo dedicato a Gramsci merita almeno un cenno quello su Rodolfo Mondolfo in cui Mustè analizza l’interpretazione di Feuerbach grazie alla quale Mondolfo aveva confutato la lettura gentiliana delle Tesi su Feuerbach del giovane Marx, ravvivando l’interesse per la sua filosofia dopo la critica distruttiva di Croce. Inoltre dimostra che quando Gramsci tradusse le Tesi su Feuerbach si giovò della correzione mondolfiana della tesi sul “rovesciamento della praxis” che Gentile aveva tradotto erroneamente, eliminando molti equivoci sulla derivazione della filosofia della prassi di Gramsci dalla Filosofia di Marx di Gentile.
Nei Quaderni del carcere, la sostituzione del lemma materialismo storico con filosofia della prassi scaturisce dalla convinzione, raggiunta da Gramsci nel 1931, che la revisione del marxismo ne delineava una nuova figura. Quindi si propose di rimettere in circolazione il pensiero di Labriola attualizzandone la nomenclatura. Gramsci fu spinto a concepire il disegno di rifondare la filosofia del marxismo, come trent’anni prima era accaduto a Labriola, da un passaggio epocale della storia del mondo che spegneva le possibilità egemoniche del marxismo tanto della vulgata socialdemocratica quanto di quella sovietica. E Musté, mettendo ordine nella copiosa letteratura sviluppatasi nell’ultimo trentennio sul legame fra la revisione gramsciana del marxismo e la crisi degli anni Trenta , ne offre una convincente illustrazione.
Si può dire sinteticamente che negli anni Trenta il problema del soggetto si presentava in modo nuovo, assumendo aspetti spiccatamente filosofici. La guerra aveva intensificato la crisi dello stato nazione e, fra i pensatori che affrontarono il problema, Gramsci si distingue per aver cercato di esplorare le vie della sovranità sovranazionale. Egli pensava che la crisi degli anni Trenta ponesse il compito “di collaborare a ricostruire il mondo in modo unitario” e a questo fine non v’erano soggetti già dati, ma da costruire. Quindi il marxismo doveva essere liberato tanto dal determinismo economico quanto dal riduzionismo sociologico.
Di questo programma scientifico Mustè ricostruisce con acume l’itinerario filosofico, approfondendone alcuni concetti fondamentali: la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici grazie alla quale Marx aveva individuato i differenziali della formazione capitalistica europea, inaugurando un nuovo capitolo delle vie nazionali della politica, dell’economia e della filosofia. Quel concetto consentiva a Gramsci di sostituire la metafora architettonica struttura-sovrastruttura con l’analisi dei rapporti di forza espungendo dal marxismo ogni residuo deterministico. Ma come procedere nell’unificazione del molteplice, compito quanto mai arduo per una politica votata all’unificazione del genere umano? Il concetto filosofico elaborato da Gramsci al riguardo è quello di catarsi (Mustè lo approfondisce in un bellissimo capitolo dedicato alle note sul canto X dell’Inferno) che rende possibile discernere il particolare dal generale, traducendo l’economico-corporativo in potenza etica ed energia politica universali.
Queste categorie sottendono una nuova definizione della soggettività politica che Gramsci denomina volontà collettiva nazionale popolare, generata dall’interazione fra intellettuali e masse nelle società complesse. Il partito politico è «l’organismo»creato dalla modernità europea per promuoverla, rappresentandone già una prima e stabile cellula. Mustè conclude quindi la sua ricerca riformulando il tema del «moderno principe», di cui individua la missione nella capacità di mettere a tema le contraddizioni fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, minaccia incombente sulla modernità capitalistica, e nella organizzazione della democrazia a scala nazionale e sovranazionale.

Il Sole Domenica 4.11.18
Psicologia. L’ultimo libro di Vittorio Lingiardi sull’alleanza medico-paziente
Quando la diagnosi è parte della cura
Un discorso che non si chiude con l’attribuzione di un nome a uno stato morboso
di Nicola Gardini

Vittorio Lingiardi,Diagnosi e destino, Einaudi, Milano, pagg. 152, € 12

Il nuovo libro di Vittorio Lingiardi propone moltissimo già nel titolo: Diagnosi e destino. Un’endiadi allitterante, dove la congiunzione «e» non è banalmente coordinativa, ma ha la potenza di un «atque» latino. La diagnosi, infatti, è da intendersi in funzione del destino, e questo in funzione di quella. La diagnosi è incontro, come sottolinea in apertura l’autore. Il destino, invece, lo sappiamo, è solitudine. Il rapporto tra medico e paziente deve trasformare quella solitudine in una forma di rapporto. Non solo deve: può. Occorre che il medico sappia parlare e sappia ascoltare. La diagnosi, riassume Lingiardi, è “conoscenza e ascolto nell’incontro”. Se non fosse noto che l’autore è psichiatra, psicanalista e professore universitario potremmo credere che questa formula servisse a definire l’amore.
Ma che cos’è la diagnosi? In breve, è quel procedimento preliminare che identifica la malattia. Senza una diagnosi non si arriva a stabilire la cura. Lingiardi propone un’interessante estensione semantica: la diagnosi è parte della cura, anzi «è un momento fondamentale della cura». Né, secondo Lingiardi, la diagnosi esaurisce il quadro clinico: ne offre piuttosto una rappresentazione sintetica. Implicito, dunque, è che il medico continui a «diagnosticare», a “conoscere ininterrottamente”, secondo il valore etimologico della radice greca gno-.
Da queste premesse sprigiona un’idea aperta e umanistica di malattia: malattia come discorso che non si chiude con l’attribuzione di un nome allo stato morboso. La malattia non è condizione generica, astratta, identificabile con una voce d’enciclopedia. La malattia è il malato, quello stesso malato che dialoga con il suo medico in un continuo scambio. «Dia-gnosi» contiene proprio la preposizione che fa da prefisso a «dia-logo», «tra» in greco. E il «tra» indica attraversamento, avvicinamento, confluenza di visioni, colloquio.
Lingiardi non dimentica l’unicità del paziente. Una diagnosi, certo, serve a ritagliare un quadro clinico generale. Il paziente, però, resta un essere a sé, dotato di una sua vicenda personale. Nel rispetto del malato e nel credito gnoseologico che gli riconosce questo saggio si dimostra capace di una lucidità e di un’intelligenza profondamente rinnovatrici, direi perfino liberatorie: «un sistema diagnostico […] deve cogliere anche le risorse del paziente e non solo gli aspetti di cattivo funzionamento».
La diagnosi perenne ridà non solo dignità, ma riconosce le forze del malato, ritrovando nel suo specifico qualcosa di profondamente significativo. La malattia, in genere, è una condizione che altri stabiliscono per noi, i medici ma ancora prima protocolli e convenzioni, anche per una diffusa tendenza delle persone ad affidarsi a «chi ne sa di più». Il malato, allora, rinuncia a credersi sapiente. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di un’irresponsabile rinuncia all’autoconoscenza e all’autoauscultazione, colpe che già Plutarco rimproverava in un trattatello sul benessere fisico. Lingiardi ci aiuta a rivendicare la soggettività della malattia, la coscienza della malattia, e con queste la capacità di stabilire quanto e come io mi senta malato. Al tempo stesso ci insegna che le capacità del medico sono potenzialmente assai più estese che la pratica comune non dimostri. Il medico deve credere nel suo paziente, perché, come scrive lo psicanalista Wilfred Bion, citato già nella prima pagina dell’introduzione, «il paziente è il miglior collega che abbiamo».
Lo spirito di “colleganza” informa l’intero libro, sia il suo sistema argomentativo sia la sua memoria. Lingiardi, scavalcando gerghi e tecnicismi settoriali, cerca la precisione attraverso le fonti più varie, specie letterarie. Nel suo curriculum non manca, a proposito, il mestiere di poeta. Né mancano nel testo alcuni suoi versi. Il poeta si lascia cogliere anche nel calibrato utilizzo della frase, sempre limpida, musicale, anche quando necessariamente informativa.
Un’altra questione fondamentale – in fondo, anche questa «poetica» – la metafora. Malattia e metafora si relazionano reciprocamente o per opposizione o per sintonia, nelle commistioni più varie. Il medico che osserva la malattia punta a una lingua anti-metaforica, alla «terminologia«, ovvero a un codice che non permetta ambiguità e vaghezze. Anche una scrittrice come Susan Sontag, è risaputo, si è fieramente pronunciata contro la metaforizzazione della malattia. Aveva le sue ragioni, da malata e da americana. Trattare il cancro o l’Aids come pericoli bellici, dunque tirare nel linguaggio della medicina invasioni, attacchi, difese etc. crea propaganda o demonizzazioni indebite. Lingiardi, condivisibilmente, assume un atteggiamento più articolato nei confronti della metafora. Lo dice: «Sontag non riesce a convincermi». E spiega: «proprio perché conosco le impressionanti metafore collettive, non voglio rinunciare a quelle private, intime, familiari». Parole importanti. Il malato è chi, perduta la sanità, racconta a sé e agli altri una storia che gli conservi o restituisca la salute, ovvero, la felicità pur difficile di aver ancora in mano la sua vita. Le metafore gli servono a questo. E gli permettono, quando il medico sa intenderle, di non venire esautorato dalla koiné tecnica; di restare auctor.
Troppo spesso il malato, nelle società di oggi, è materia per il racconto di altri. Gli stessi medici rischiano di raccontare la malattia con parole non loro, che non abbiano tratto alcuna verità dal confronto diretto con il malato. Ma, come ho già suggerito, esiste davvero la malattia? Non è questa la fabula, il plot buono un po’ per tutte le storie, la struttura universale per qualunque romanzo? Io sono un personaggio unico, dotato di una sua sensibilità, di un suo passato: da me soltanto, se il mio medico collabora, può nascere un racconto autentico.
Malattia e autenticità… È il problema della vita: rimanere sé stessi, essere all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi, non soccombere alle manipolazioni e ai tradimenti del mondo, non smarrire fra le chiacchiere il senso di sé e del proprio posto. Il malato il problema dell’autenticità lo avverte con un’urgenza estrema, esemplare. Il medico lingiardiano, anziché contrastarla, favorirà l’autenticità. Il medico lingiardiano aiuterà il malato a costruire il suo romanzo; a guadagnarsi il premio dell’autenticità, iscrivendo la sua sofferenza nella trama più adatta al personaggio con una continua opera diagnostica.
Auguro a questo libro ampia diffusione. I medici ne trarranno stimoli a un esercizio più vitale e creativo della loro professione, i malati conforto e credito. Tutti gli altri, molto probabilmente ancora ignari di diagnosi e faccende connesse, riceveranno lumi sulla necessità della comprensione reciproca e sulla complessa natura della cosa chiamata «salute».

La Stampa 4.11.18
Minacce social a Ilaria Cucchi
“Provengono da carabinieri”
di Edoardo Izzo


Insulti e minacce di morte indirizzati a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, la cui unica colpa è quella di aver lottato per 9 lunghi anni alla ricerca della verità. Messaggi intimidatori inviati da account apparentemente riconducibili a «poliziotti e carabinieri». A denunciarlo ieri la stessa Cucchi in un post su Facebook, nel quale ha raccontato di «essere costretta a presentare denuncia al commissariato Porta Maggiore» a causa dell’ennesima offesa subita. Le azioni, secondo la Cucchi, sono coordinate tra loro e mirano a «destabilizzare la mia vita quotidiana e quella dei miei cari». «I miei figli dormono. Io e Fabio (Anselmo, legale della famiglia e compagno di Ilaria, ndr) abbiamo appena fatto colazione. Lui deve studiare un processo importante e io vorrei stare in casa con lui», ha scritto sul social network la Cucchi che ha aggiunto: «Le minacce hanno più o meno la medesima targa politica (simpatizzanti della Lega di Salvini)», e spesso appaiono provenire da appartenenti alle forze dell’ordine.
Intimidazioni anche a un militare
Queste intimidazioni sono arrivate a poche settimane dalla lettera indirizzata a Giovanni Cucchi, papà di Stefano e Ilaria, nella quale lo si invitava a «scusarsi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga». Ma la famiglia Cucchi non è l’unica a essere finita nel mirino. Per il pestaggio subito dal giovane geometra romano, il 16 ottobre del 2009, sono imputati 5 carabinieri e uno di questi, Francesco Tedesco, ha subito pesanti intimidazioni. Il militare ha raccontato di aver preso parte al violento pestaggio ai danni del ragazzo, insieme ai colleghi co-imputati Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, confermando di aver taciuto per anni. «Non ho parlato per paura», ha denunciato il militare, difeso dall’avvocato Eugenio Pini, davanti al pm di Roma, Giovanni Musarò. Da queste parole è nata la nuova inchiesta che coinvolge almeno 7 carabinieri indagati nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Un vero depistaggio messo in atto tra il 2009 e il 2015 dai vertici dell’allora comando provinciale della Capitale, con l’intenzione di «coprire» i colleghi. Un clima che oggi appare cambiato. Giovanni Nistri, comandante generale dell’Arma, ha promesso che i responsabili della morte di Cucchi «non indosseranno mai più la divisa». Ferma anche la posizione del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta che ha affermato: «In tanti dobbiamo chiedere scusa. Io devo farlo come governo se c’è stata una parte delle istituzioni che non ha visto».

Corriere 4.11.18
Ilaria Cucchi e i social: «La mia vita sconvolta da minacce continue»
Un post di insulti sarebbe della portavoce del Sap
di Ilaria Sacchettoni


Roma C’è l’insulto feroce: «Lurida infame...». E l’oltraggio macabro: il fotomontaggio di Stefano Cucchi pesto, rivestito in smoking e attorniato da conigliette sexy, con la scritta teoricamente goliardica: «Se non sei bello ma Cucchi». C’è l’allusione offensiva: «Vorrei dire a Ilaria Cucchi che, dalla terribile morte del fratello è riuscita a costruirsi un personaggio». E ci sono le accuse esplicite di aver speculato: «Hai ottenuto un rimborso di non pochi spicci e si mormora già di una candidatura molto prossima».
Risponde, lei, Ilaria Cucchi: «Oggi è sabato. I miei figli dormono. Io e Fabio abbiamo appena fatto colazione. Lui deve studiare un processo importante ed io vorrei stare in casa con lui. Ma ho altre denunce da presentare. Le minacce ed insulti hanno più o meno la medesima targa politica, appaiono provenire da profili di poliziotti o carabinieri. È diventata una vera e propria emergenza che sconvolge la mia vita quotidiana». Negli ultimi giorni Ilaria è stata ascoltata sei volte dalla polizia che cerca di far luce su protagonisti e mandanti di questo odio sui social. Poi, ci sono le lunghe chiamate silenziose al numero di casa. Al sospetto sui post si somma un attacco alla vittima, un’offensiva riconducibile a Elena Ricci, portavoce del Sap, lo stesso sindacato di polizia che durante un congresso, anni fa, tributò un applauso agli agenti coinvolti nella morte di Federico Aldrovandi, pestato da quattro agenti nel 2005.
L’ipotesi di una serrata fra i ranghi delle forze dell’ordine — mentre il processo bis nei confronti di cinque carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia per la morte di Cucchi compie un salto di qualità — è al vaglio degli investigatori. Nella denuncia della sorella di Stefano si sottolinea «l’incrementarsi del tono e del numero degli attacchi in corrispondenza dei recenti sviluppi processuali». In passato i Cucchi sono stati bersaglio di insulti sguaiati e allusioni pesanti (come quella di Carlo Giovanardi che disse: «È morto per droga»). É ragionevole pensare che i nuovi post siano il frutto della stessa atmosfera avvelenata. «Non si può trasformare un drogato e spacciatore in un eroe», si firma Silvia Cirocchi.
Il filo conduttore è la rabbia nei confronti dei Cucchi, lo stile è inizialmente dialogante salvo diventare offensivo sul finale, come se gli autori, catturata l’attenzione del destinatario, se ne servissero per vibrare il colpo peggiore.
In qualche caso il veleno raggiunge anche chi, come Alessio Cremonini, autore di «Sulla mia pelle» si è sforzato di raccontare un fatto di cronaca: «Sulla pelle dei poveri diavoli — posta tale Mauro Maistro — che hanno avuto la sfiga di incrociarti loro malgrado ci fanno i soldi sorella e parenti, avvocato e regista... la celebrazione di una persona che valeva poco da vivo e che morto è diventato un affarone». Ed è di un carabiniere lo sfogo, anche questo via social, contro i Cucchi: «Dispiace un’unica cosa, ovvero che la stessa caparbietà che (Ilaria, ndr) ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli non l’ha sfoderata quando c’era da aiutare Stefano». Ilaria Cucchi, ammette di essere turbata: «Ho paura per me e per i miei figli e per i miei genitori».

Repubblica 4.11.18
Ilaria Cucchi,Virzì a "Che tempo che fa"
Un caso che è una ferita aperta per tutto il Paese.

Dopo le ultime vicende (le intercettazioni, le minacce ricevute sui social che sembrano arrivare da membri delle forze dell’ordine, le parole del comandante generale dei carabinieri che afferma che non vedremo mai più i colpevoli in divisa) Ilaria Cucchi, accompagnata dall’avvocato di famiglia Fabio Anselmo, torna a parlare della drammatica storia di suo fratello Stefano nel programma di Fabio Fazio Che tempo che fa (Rai1, 20.35).

Corriere 4.11.18
La signora che sgrida il razzista
«Non sono riuscita a stare zitta»
Insulti a un pachistano sulla Circumvesuviana, lei interviene: il video è virale
di Roberto Russo


NAPOLI «Mo’ pigl’ ‘o ‘mbrell’ e t’o scasso ‘ncapa...». Non c’è bisogno di tradurre il monito della signora Maria Rosaria Coppola, 62 anni, sarta alla sede Rai di Napoli. Venerdì pomeriggio, a bordo di un treno della Circumvesuviana, ha reagito da sola alle intemperanze anti-immigrati di un passeggero.
Coraggio da vendere il suo. Ha zittito un giovanotto esagitato che ce l’aveva con un pachistano, pretendendo che lasciasse lo scompartimento. E il filmato, girato con lo smartphone da un altro viaggiatore e poi postato su Facebook, è diventato in poco tempo virale.
Nel video si vede il giovane vestito di nero che inveisce contro gli immigrati. È fuori di sé, schiuma rabbia, lancia accuse, quasi farnetica. Alle sue spalle è seduto un extracomunitario dall’aria abbastanza preoccupata. Gli altri passeggeri appaiono indifferenti, rinchiusi nei loro pensieri, muti. Così fa un curioso effetto sentire la voce di lei che si leva solitaria a contrastarlo: «Sei scemo, razzista e aggressivo».
Il giovane xenofobo appare per un attimo in difficoltà, poi si rivolge minaccioso verso la donna; si siede e si rialza, è sempre più furioso, sembra sul punto di voler passare alle mani. «L’Italia non è loro, è nostra!», grida. Maria Rosaria non fa una piega, indicando l’immigrato, risponde a brutto muso: «Preferisco che sia la sua, non la tua». Trova anche un’uscita fulminante: «Tu non sei razzista, sei str...». Infine, gli fa capire di sapersi difendere, se necessario, a colpi di ombrello.
L’ultimo atto vede il giovanotto che si rassegna, sia pure continuando a borbottare, e la donna che scende regolarmente dal treno alla sua fermata. Qualcuno racconta che l’abbia scortata un uomo vestito come un muratore. Certo è che in quel vagone nessuno è intervenuto a darle man forte. Perciò il popolo dei social ha in larga parte osannato l’«eroina antirazzista», stigmatizzando la presunta indifferenza degli altri passeggeri che non sono intervenuti a darle sostegno.
Ma è andata davvero così? Maria Rosaria, intervistata in serata dal Tg3 regionale, spiega: «Non sono riuscita a tacere, ho pensato che se il mio Paese sta diventando così io non voglio più viverci». Lei stessa ammette quanto sia complicato trovare il suo coraggio: «Capisco che in quella situazione sia molto difficile intervenire, perché lì non sai con chi hai a che fare. Probabilmente quello con cui discuti è armato, probabilmente è uno con cui non si può ragionare. Mi sono resa conto solo dopo che forse l’ho provocato, perché lui voleva avere l’ultima parola. Certo, mi avrebbe fatto piacere che qualcuno fosse intervenuto».
Intanto Umberto de Gregorio, presidente di Eav — l’azienda trasporti della Circumvesuviana —, ha telefonato a Maria Rosaria e l’ha invitata martedì. «Quella donna merita un grazie enorme per la sua passione civile e il suo coraggio — dice —. La aspetto qui, le consegneremo il premio “cittadina coraggiosa” e un mazzo di fiori».
In quanto al giovane xenofobo, il video è già stato trasmesso alle autorità di pubblica sicurezza «per valutare — spiega de Gregorio — se ci siano estremi di reato». Tuttavia il presidente apre a una possibilità: «Quel ragazzo venga a trovarmi, vorrei spiegargli che così non aiuta la convivenza, vorrei anche che si confrontasse con quella signora, così capirebbe che il richiamo che ha subìto è condiviso da tutte le persone aperte intellettualmente».

Il Fatto 4.11.18
Chi ha paura dell’antifascismo
di Furio Colombo


Torna o non torna il fascismo? Il leghista Ciocca che prende a scarpate le carte del commissario europeo Moscovici con l’ostentata intenzione di essere notato nel gesto esemplare, è uno squadrista o un guascone? Oppure: che cosa deve fare un pover’uomo per essere preso sul serio (cioè trattato da fascista, come vogliono i suoi elettori) mentre compie gesti di insulto e di disprezzo invece di aprire la discussione? Che cosa deve fare un impegnato ministro dell’Interno italiano? Chiude i porti italiani alle navi militari italiane che hanno salvato in mare e hanno da giorni a bordo donne stuprate e uomini torturati (più di 200 persone a bordo e due soli servizi igienici): che cosa deve fare per non essere scambiato con qualcuno dell’Italia nata dalla Resistenza?
Persone di prestigio e, certo, in base a ciò che sanno, e che non è poco, negano che questo sia fascismo, assicurano che non si vede proprio traccia delle tre ossessioni (difesa della razza, sacri confini, non passa lo straniero) da cui si riconosce il fascismo. Ma se i brasiliani sanno che il loro, adesso, è un momento diverso, molto diverso, nella loro vita pubblica, perché noi che abbiamo un governo popolato di amici in festa per i nuovi brasiliani, dovremmo far finta di niente?
Lo strano fenomeno è che qualcosa sta avvenendo in Italia con deliberata teatralità, proprio perché si sappia che c’è una nuova gestione. Eppure c’è sempre chi ci ammonisce a non essere così pignoli. E così molta stampa straniera non capisce come può accadere in Italia che la sindaca di Lodi possa affamare i bambini stranieri delle sue scuole, mentre il sindaco di Riace, che aveva trovato per i profughi accoglienza, casa, lavoro e scuola, è stato arrestato, esattamente per queste ragioni, e poi espulso dalla sua città, lasciata per forza in una situazione di sbando. Bella l’iniziativa di Sgarbi, sindaco di Sutri, di dare la cittadinanza onoraria al sindaco, ora vagabondo, di Riace. Inevitabile notare che non un solo sindaco Pd in Italia ha avuto la stessa idea.
Intanto la nuova gestione non smette di farsi notare per quello che è e che intende essere. Quella non è gente che si spaventa così facilmente per un articolo, sia pure autorevole, sul fascismo che non c’è. La nuova idea (sbandierata con un gran tricolore alla Camera) di abolire la festa del 25 aprile (o di renderla privata e irrilevante) e di sostituirla con il 4 novembre, data della vittoria della Prima guerra mondiale, provocherà per forza un po’ di discussione. E non sarà una discussione gentile, visto che alcuni dei partigiani di quell’epoca e degli scampati della Shoah sono ancora vivi (a cominciare, per fortuna, dalla senatrice a vita Liliana Segre).
Ma ricostruiamo la sequenza. Domenica 29 ottobre, Paolo Mieli, firma importante del giornalismo italiano, ha ammonito (con un fondo sul Corriere della Sera) a ricordare che non c’è nessun fascismo in giro, e che è sbagliato chiamare in causa continuamente quel vecchio regime che non c’entra nulla col presente. Giovedì 1 novembre, un grande striscione con i colori della bandiera italiana, intesa come simbolo di fede e di militanza nazionalista, è stato srotolato sulla Camera dei deputati, a cura del gruppo Fratelli d’Italia-Giorgia Meloni, insieme al messaggio: “Il 4 novembre deve essere la festa nazionale italiana, invece del 25 aprile e del 2 giugno che dividono gli italiani”. Ma il colpo di gong del nuovo regime è l’articolo di fondo di venerdì 2 novembre, de Il Messaggero a firma di Mario Ajello. Ecco: “Se il 25 aprile è sempre stato la festa dei vincitori contro i vinti, il 4 novembre invece è stato la festa in cui tutti sono vincitori”.
Eppure il 25 aprile pone fine alla Shoah e il 4 novembre apre le porte al fascismo. Ma per Ajello la scelta della festa sbagliata si deve a “un malinteso pacifismo o internazionalismo che diventa retorica anti-nazionale”. So che la frase è incomprensibile, in un giornale mainstream e a firma di un giornalista che ha sempre mostrato di essere libero dalla persecuzione di questi fantasmi. Un suo alibi è anche l’età. Non sa, come alcuni di noi, che il 4 novembre, per due decenni, è stata una festa di baionette, pugnali, uniformi, e camicie nere. Spaccava l’Italia in persecutori e perseguitati.
Il 25 aprile per forza è una festa. Ci ha liberati. Avevamo vinto contro il fascismo e il nazismo, dopo essere stati costretti ad assistere ai loro delitti. Il 25 aprile ha vinto anche per Giorgia Meloni che sta alla Camera invece che combattere nel fango di qualche fronte, e per Mario Ajello che scrive, libero, frasi assurde.

il manifesto 4.11.18
Caustico pamphlet su Atene
Classici ritradotti e commentati. Di chi è la «Costituzione degli Ateniesi»? Edizione commentata di Giuseppe Serra per la Valla. Con un saggio di Canfora
di Carlo Franco


Pensare l’Atene antica, che per i moderni è il lieu de mémoire del Partenone e della Democrazia, come un posto in cui dominava la canaglia popolare. Pensare quella democrazia come un regime perverso, in cui tutto però era organizzato in maniera efficientissima per opprimere e derubare la «gente per bene», ossia i ricchi. Pensare quella società come un luogo dove per gli schiavi era una pacchia (come si direbbe oggi), tanto che vestivano quasi come i liberi, e quando se ne voleva bastonare uno (come giusto e normale, che diamine!) si rischiava di colpire un libero. Con queste e altre considerazioni ora acute, ora acide e forse spiazzanti, un famoso testo greco discute, anzi critica radicalmente, la forma di governo degli ateniesi. Dell’opera che così seccamente distrugge il nostro mito, però, quasi nulla è certo: non la natura (saggio? dialogo? esercitazione retorica?), non la datazione (quinto secolo? prima, durante o dopo la guerra del Peloponneso? quarto secolo?), non la paternità (Senofonte, come dicono i manoscritti? oppure no? e chi allora?), non il titolo (giacché non di istituzioni si discute, ma di politica). Davvero, la Costituzione degli Ateniesi, attribuita convenzionalmente allo Pseudo Senofonte, ora edita a cura di Giuseppe Serra e accompagnata da un saggio di Luciano Canfora (Fondazione Valla/Mondadori, pp. LXXVI-224, € 35,00) è un testo molto particolare. Studiarla, leggerla, pensarci sopra, è quasi un’avventura intellettuale.
Una prosa spigolosa e poco ornata
Gli interrogativi suscitati dal testo sono ben rappresentati in questa edizione. Si vedono all’opera, in ruoli diversi, due espertissimi studiosi del tema, che sui punti controversi dialogano a distanza. L’introduzione, ampia e pacata, rende conto dei problemi critici e mostra quanto incerti siano i risultati conseguiti dalla pur lunga indagine sul testo. La traduzione conserva le spigolosità di una prosa poco ornata, apparsa a taluno «immatura» nell’argomentazione (quindi opera di un giovane?) con peculiari scelte di lessico e evidenti sbalzi d’umore. Il commento, pure dovuto a Serra, svolge un’analisi soprattutto filologica, studiando lingua e lessico e discutendo in dettaglio alcuni problemi testuali. Le note sono talora molto ampie, la discussione lascia aperte le ipotesi e manifesti i dubbi. Il saggio conclusivo, scritto da Canfora, presenta un’interpretazione generale differente, circa natura e obiettivi, paternità e cronologia del testo. Vi si riprende l’ipotesi che esso sia opera di Crizia, capo dei Trenta Tiranni, e che trasmetta la tensione politica dei circoli filospartani. La dura polemica contro la pesantezza del governo del popolo rivela la «democrazia come violenza» dei molti sui pochi e migliori. L’efficacia di questa lettura e la sua coerenza con il testo sono evidenti: la prospettiva filologica richiama comunque la non univocità degli indizi che la sorreggono.
Del resto, sembra l’autore il primo a «confondere le tracce» circa l’epoca in cui scrive, preferendo esprimere generalizzazioni e teorie invece che riferimenti concreti a fatti e persone. Che il testo sia ambientato ad Atene o no, che presupponga o invece preceda eventi reali della storia ateniese, che presenti peculiarità di lessico spiegabili «solo se» redatto in un certo momento o decennio, eccetera: ogni elemento, per questa anonima Costituzione degli Ateniesi è destinato a sfrangiarsi nella fuga dei dubbi, e nella circolarità delle prove. E non per difetto di metodo, sì perché in questioni di attribuzione e datazione, la pars destruens riesce più sicura di quella construens, ossia della proposta di nuova, pur ben argomentata ipotesi. Di fronte alle molte «scelte» che l’edizione, la traduzione e il commento richiedono, Serra non cela né impone il proprio giudizio. Il lettore è condotto a formarsi un’opinione sopra le tante incertezze che gravano sul (breve) testo, giudicando gli indizi, tutti controversi, sui quali si fondano le differenti soluzioni finora individuate.
Pervenuto tra gli scritti di Senofonte, il testo è stato ritenuto un apocrifo per ragioni stilistiche, contenutistiche e «ideologiche»: ma i risultati dell’analisi dipendono più di quanto si desidererebbe «dall’erudizione, dalla fantasia e dai preconcetti dell’interprete». Si è scritto che la maggior parte degli studiosi «non vuole» che il testo sia di Senofonte… Dall’ipotesi che l’autore sia un aristocratico, disgustato dalla lunga avversione per la democrazia ateniese è invalso l’uso di chiamarlo «Vecchio oligarca»: l’idea tuttora ha una certa fortuna, ma non una solida base. Un nome per l’autore non c’è: le proposte sono andate dal democratico «radicale» Cleone, all’oligarca Crizia, altrettanto «radicale». Gli indizi interni per la datazione interna risultano pure sfuggenti, e hanno condotto filologi e storici a proporre cronologie oscillanti di cinquant’anni o più (che per questa fase è cosa notevole, e preoccupante). E l’incertezza crescerebbe ancora se, come anche Serra suggerisce, il testo fingesse di essere ambientato negli anni della detestata democrazia, costituendo invece una meditazione «postuma», scritta nell’Atene del quarto secolo, in un contesto del tutto differente e con finalità ulteriormente ambigue.
Una lezione filologica di rigore
Molti delle riflessioni e dei materiali proposti indirizzano sottilmente a questa cronologia, portando a ripensare anche il rapporto, per molti aspetti innegabile, tra quanto sulla democrazia argomenta l’anonimo e quanto ne scrive Tucidide. Una cronologia «bassa», poi, rende «compatibile» l’attribuzione tradizionale del testo a Senofonte (se non a figura a lui prossima): ma ogni conclusione netta viene qui evitata, con una lezione di rigore e di stile. Il punto decisivo è un altro. Se il testo ha carattere «fittizio», ciò «equivale a dire che esso è letteratura», e il suo significato politico esce alquanto ridimensionato. Non tutti saranno pronti ad accettare questo passo: lo sguardo critico (o caustico) che le pagine dell’anonimo gettano sui meccanismi della democrazia ateniese risulta di fondamentale importanza.
Il volume della Fondazione Valla esce dieci anni dopo un commento inglese (J.L. Marr, P.J. Rhodes, The ’Old Oligarch’. The Constitution of the Athenians Attributed to Xenophon, Aris & Phillips, 2008), a pochi mesi dall’edizione per la Collection des universités de France (Pseudo-Xénophon. Constitution des Athéniens, a cura di D. Lenfant, Belles Lettres, 2017), in contemporanea con gli atti di un convegno sui due grandi testi relativi alla Costituzione degli Ateniesi (Athenaion Politeiai tra storia, politica e sociologia: Aristotele e Pseudo-Senofonte, Milano, Led 2018). E un altro convegno si annuncia in queste settimane a Strasburgo (Les aventures d’un pamphlet antidémocratique: transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-Xénophon). L’incessante lavoro sul testo è prova dell’interesse che esso suscita. L’edizione di Serra dialoga in modo riflettuto con una bibliografia amplissima, nella quale hanno spazio (con mirate omissioni) contributi critici, testuali o storici, di studiosi italiani. Questo libro dunque è un importante frutto della filologia classica nostrana. Chissà se il paese potrà mantenere a lungo nei classics uno standard simile. L’accelerato declino costringe ormai gli ingegni migliori a fare altro o, se vogliono occuparsi dei classici, a farlo altrove.

il manifesto 4.11.18
Prescrizione, la bomba sulla maggioranza
Giustizia. Ministri contro. Giulia Bongiorno smonta la «riforma epocale» grillina piovuta per emendamento. Dai leghisti una pioggia di proposte provocatorie per smontare la legge anticorruzione. Il Guardasigilli Bonafede insiste e rivendica, mentre i grillini attaccano gli alleati e adesso possono minacciare la legittima difesa
di Andrea Fabozzi


Ministri contro sulla prescrizione. L’avvocata Giulia Bongiorno, ministra leghista della pubblica amministrazione, demolisce l’emendamento dei 5 Stelle al disegno di legge anti corruzione, quello che interrompe definitivamente la prescrizione dopo il giudizio di primo grado. «È una bomba atomica sul processo penale», dice. L’avvocato Alfonso Bonafede, ministro grillino della giustizia, autore dell’emendamento (presentato alla camera dai relatori, anche loro grillini), risponde in modo ugualmente detonante: «Si sbaglia, la vera bomba che rischia di esplodere è la rabbia dei cittadini».
Tra leghisti e grillini non mancano tensioni sui diversi dossier del «contratto di governo», ma fin qui a scontrarsi pubblicamente erano state le seconde file. E così l’emendamento sulla prescrizione diventa un problema enorme per la maggioranza. Domani non sarà più possibile risolverlo mettendoci una pezza tecnica, quella dichiarazione di non ammissibilità che sarebbe assai fondata ma è ormai politicamente ingestibile per i 5 Stelle. A decidere saranno i presidenti della prima e seconda commissione della camera, anche loro grillini. Lunedì si dovranno pronunciare sui 305 emendamenti presentati da tutti i gruppi, ma tutta l’attenzione sarà per quell’1.100 che è l’unico firmato dai relatori.
«Questo emendamento è una novità dell’ultima ora – ha detto Bongiorno a SkyTg24 – mentre il disegno di legge anti corruzione è passato in Consiglio dei ministri. Così com’è scritto oggi non posso accettarlo, è una bomba che rischia di cancellare i gradi di giudizio successivi al primo, è una correzione che incide sull’intero sistema penale». Parole che confermano come non ci fosse alcun accordo tra alleati, quando il ministro Bonafede decise di procedere ugualmente, attaccando il vagone della prescrizione al treno dell’anticorruzione. Facendosi forza del «contratto di governo», che però sulla prescrizione contiene solo un riferimento generico: «È necessaria una efficace riforma della prescrizione… per ottenere un processo giusto e tempestivo».
Chi contesta l’emendamento spiega che sarà proprio l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado (si parla di sospensione, ma senza termine) a rendere i processi eterni. Lo hanno detto gli avvocati, qualche magistrato – come l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che ha fatto notare come, contemporaneamente, la maggioranza stia riducendo il ricorso ai riti abbreviati, ingolfando ulteriormente i tribunali – e ieri anche la ministra Bongiorno. «Oggi il calendario delle udienze – ha detto – viene fissato in base alla prescrizione. Così non ci sarebbero più appello e Cassazione, un innocente non avrebbe diritto a un secondo processo».
Bonafede, che proprio ieri mattina alla Stampa garantiva che con la Lega «lavoriamo assieme su tutto», ha reagito duramente alle parole della collega, confermando però che si tratta di una «riforma epocale della giustizia penale». Introdotta con un emendamento a un disegno di legge che tratta solo di corruzione. Quella del ministro grillino è stata solo la prima pietra, dietro di lui molti esponenti dei 5 Stelle hanno reagito attaccando il partito di Salvini. Il leitmotiv suggerito dai comunicatori è stato quello delle nostalgie berlusconiane dei leghisti. Un vecchio argomento polemico, dismesso quando con Berlusconi l’intera maggioranza ha marciato a braccetto, come sulle nomine Rai e sul decreto Genova. La frattura fra alleati si è allargata.
Anche perché l’attacco leghista all’anticorruzione è ad alzo zero. I deputati di Salvini hanno presentato più emendamenti soppressivi di interi articoli (otto) di tutte le opposizioni messe assieme (quattro, e nessuno dal Pd). E hanno aggiunto anche qualche proposta di modifica puramente provocatoria, tipo l’obbligo di far certifica le votazioni online da un notaio, o l’obbligo di statuto per presentarsi alle elezioni (alle ultime i 5 Stelle si sono limitati alla «dichiarazione di trasparenza»).
Senza i voti della Lega la riforma della prescrizione non passerebbe nelle commissioni. Ma la clamorosa rottura metterebbe in discussione il governo. Nel gioco del pendolo tra interessi contrapposti, costretti a marciare uniti, in commissione giustizia il prossimo provvedimento è tutto in quota Lega: legittima difesa. Al senato i 5 Stelle ritirarono tutti gli emendamenti.

il manifesto 4.11.18
Diecimila antifascisti in piazza contro Casapound
Trieste. Serpentone plurale con tanti italiani e sloveni. Dura polemica con il Comune di destra
di Emily Menguzzato


TRIESTE In un insolito sabato d’autunno, Trieste si è svegliata progressivamente blindata e in alcuni tratti deserta. I commercianti hanno abbassato le serrande e tra i cittadini circolava un certo malcontento. Nel primo pomeriggio la città si riempita di due anime contrapposte, mentre il Comune invitava a rimanere «in casa fino alle 20».
Da un lato, in pieno centro, Largo Riborgo ospitava il raduno nazionale di Casapound. Tra la folla, ancora limitata a qualche centinaio di persone, dominava il colore nero. Al balcone di un palazzo era appesa la scritta «Trieste Pro Patria» e, da lassù, alcuni esponenti del partito neofascista hanno salutato la folla, sventolando le loro bandiere. A breve sono arrivati alcuni bus che trasportavano altri militanti provenienti da diverse parti d’Italia: in tutto meno di 2000, alla faccia della «mobilitazione nazionale». Il corteo di Casapound era pronto a partire, accompagnato dalla musica di Wagner.
DALL’ALTRO LATO, in cima al colle di san Giacomo, anche il corteo antifascista si stava preparando. L’atmosfera era più variopinta. Singoli, famiglie e diverse istanze sociali. Più di 10.000 secondo i promotori. Riccardo Laterza, in rappresentanza della rete Trieste Antifascista e Antirazzista che aveva organizzato la manifestazione, ha aperto con un intervento. «Viste le tante presenze anche internazionali, chiederei un favore a chi ne è in grado: provate a riportare ai vostri vicini queste parole, che dopo di me saranno lette anche in sloveno, in più lingue possibili: facciamo in modo che questa sia una manifestazione di tutte e di tutti».
PRESENTI, nel lungo serpentone antifascista, il mondo culturale italiano e sloveno, il mondo sindacale, il mondo laico e cattolico, il mondo femminista e il mondo Lgbt della città.
«Prendo posizione contro questa scelta infelice sia da parte del sindaco che del prefetto – ha dichiarato lo scrittore Pino Roveredo – Sono sollevato perché ci sono molti giovani e vuol dire che c’è una presa di coscienza». Stefania Grimaldi, presidente della Cooperativa La Collina di Trieste, ha così motivato la sua presenza: «Noi rappresentiamo un pezzo della cooperazione sociale, crediamo nei valori della convivenza, dell’inclusione e dell’uguaglianza».
PRESENTE anche Antonio Parisi della comunità Lgbt di Trieste. «Sono qui per accogliere nella maniera più refrattaria possibile l’idea (e non tanto le persone) che gruppi fascisti possano prendere in mano la città», spiega. Un unico momento di tensione si è registrato quando alcuni esponenti di Potere al Popolo hanno contestano i rappresentanti del Partito democratico, presente a livello comunale, regionale e nazionale.
Dall’opposizione in Comune sono scesi in piazza alcuni consiglieri, tra cui Sabrina Morena di Sel. «Sono qui per difendere i valori della Costituzione e dell’antifascismo e trovo indecente che si commemori così la prima guerra mondiale: con un corteo fascista nel centro della città, al quale è stata data più visibilità di quello antifascista», con una critica esplicita al ruolo del Comune guidato dalla destra. Nel frattempo Casapound è sembrata rallentare ma poi ha proseguito tagliando perpendicolarmente via Carducci, luogo più vicino all’altro corteo. Non si è sentita più la musica e i passi dei manipoli neofascisti hanno continuato silenziosi e ordinatissimi, diretti verso il Giardino pubblico. Ma nessuno ha più parlato del concerto previsto per la serata a Fiume (Croazia).
NEL TARDO pomeriggio, Simone di Stefano di Casapound ha dato il via al suo provocatorio e delirante comizio. «Di certo noi oggi non siamo venuti qui per prendere voti… Siamo venuti qui semplicemente per onorare il sacrificio di 600.000 e più italiani che erano i nostri nonni e i nostri bisnonni che nella grande guerra si sono battuti come leoni scrivendo col sangue i confini di questa nostra nazione. Noi oggi siamo qui per celebrare una vittoria».
Qualche centinaio di metri più in là, risuonava una voce opposta. «Mi chiamo Lidia, nome di battaglia Bruna e ho fatto la staffetta partigiana a Novara – ha raccontato Lidia Menapace- Io credo che il successo di questa straordinaria giornata viene dal fatto che non siamo tutti in cattedra a raccontare grandi valori, giudizi ed eroismi ma siamo davvero popolo, tutti e tutte, giovani e meno giovani».

il manifesto 4.11.18
Millennials e donne, le speranze midterm per un’America post-trumpista
Trump di mezzo. Al termine della campagna paranoica della Casa bianca, si assiste a una riattivazione politica che martedì potrebbe cambiare gli Usa
Iniziativa in Wisconsin per registrara ail voto i giovani
di Luca Celada


LOS ANGELES Non poteva esserci dirittura di campagna più emblematica del furioso crescendo di retorica e violenza che ha travolto l’America negli ultimi giorni prima delle elezioni. Mai è stata più frenetica la retorica, e mai è parso più chiaro il nesso fra l’esagitata demagogia trumpista e le azioni degli «sconsiderati» attivati dall’ossessivo, paranoico complottismo, e l’odio normalizzato, sdoganato come norma politica. Tutto in conto nel cinico calcolo del presidente per giungere alle urne con paura e disgusto sufficienti contrastare una blue wave o almeno una «rimontina» democratica alle elezioni di medio termine.
TRADIZIONALMENTE le consultazioni di midterm tendono a registrare un’avanzata del partito opposto a quello del presidente in carica: è accaduto in 18 delle ultime 20 elezioni, (nelle quali l’opposizione si è ripresa in media 33 parlamentari). Sarebbe tanto più lecito quest’anno, prevedere una reazione proporzionale al livello di polemica iniettato nel paese da Trump. È comunque tassativo per i democratici – se vogliono avere una speranza di rompere l’assoluto monopolio repubblicano su presidenza, legislatura e potere giudiziario – ridare voce parziale a quella America che due anni fa ha dato tre milioni in più all’avversaria del presidente.
PER RIPRENDERE IL CONTROLLO almeno della camera i democratici hanno bisogno di guadagnare 24 seggi, una prospettiva possibile, dato che 48 gare sono considerate «aperte» e 25 deputati repubblicani si trovano a correre in distretti che alle presidenziali hanno favorito Hillary Clinton. Detto questo molte gare sono entro il margine statistico e rimangono possibili sia un plebiscito democratico che una tenuta repubblicana. Dopo la figuraccia rimediata due anni fa nessun sondaggista se la sente di sbilanciarsi oltre a rilevare la spaccatura ormai assodata: anziani, maschi e bianchi per Trump; minoranze donne e giovani all’opposizione.
PER I DEMOCRATICI la strada rimane in salita per via delle barriere istituzionali che favoriscono fisiologicamente il consolidato potere repubblicano.
Nel sistema maggioritario secco è possibile infatti gestire le circoscrizioni elettorali di modo da pilotare l’esito. Gerrymandering, è il termine che designa le acrobazie amministrative per ottenere distretti uninominali favorevoli, un’operazione controllata dalle giurisdizioni locali dei singoli stati. E il Gop, pur rappresentando meno cittadini in assoluto, controlla 34 governi statali. In 26 di essi i repubblicani detengono il monopolio di governatore ed entrambe le camere. Un’egemonia amministrativa cruciale nell’assicurare una favorevole suddivisione elettorale. Tarando il sistema è possibile neutralizzare in parte le super maggioranze democratiche nelle grandi città e vanificare i grandi numeri geograficamente concentrati.
Non a caso, un disegno politico fondamentale del Gop prevede di ripristinare limiti al suffragio per controbilanciare il trend demografico che espone il partito repubblicano e l’America bianca al pericolo di una minoranza permanente. L’obiettivo è perseguito e con l’ostruzione al voto (ufficialmente motivata con la lotta a immaginari brogli). Negli ultimi anni, specie in vari stati del sud, sono state adottate una serie di misure volte limitare l’accesso alle urne delle minoranze: il proseguimento, in sostanza, delle politiche segregazioniste rimediate dal voting rights act nel 1964. Quella legge, conquistata dal movimento di Martin Luther King è stata indebolita dalla corte suprema ed è specificamente nel mirino del ministro di giustizia Jeff Sessions.
LA NARRAZIONE MILITARIZZATA da Trump, quella del complotto democratico per annacquare il voto legittimo dei cittadini importando clandestini, attecchisce fin troppo bene, ed è sconfinata nella violenza a Charlottesville e Pittsburgh. Il disegno eugenetico trumpista per ripristinare un favorevole equilibrio razziale si completa con la proposta abrogazione dello «ius soli» scagliata come una molotov sulla campagna elettorale. I democratici sperano invece di riattivare proprio le componenti di quella che fu la Obama coalition.
MARTEDÌ SI DOVRÀ VERIFICARE se le donne bianche che nel 2016 votarono Trump al 52%, dopo due anni di The Donald, di #MeToo e dopo la contestata nomina del giudice Kavanaugh, avranno cambiato idea cambiando quella percentuale. Essenziale è poi mobilitare i millennials.
I ragazzi della «generazione Parkland» hanno già dimostrato di saper dar vita un movimento nazionale come quello contro le armi da fuoco. Organizzazioni come «Power California» vogliono ora assicurarsi che la nuova consapevolezza politica abbia un seguito nelle urne di voto.
    «Qui in California», ci spiega Luis Sanchez, «il 70% dei ragazzi sotto i 25 anni sono non bianchi. Potrebbero costituire un terzo dell’elettorato e ora, sotto Trump, hanno un’idea ben chiara delle conseguenze che la politica può avere sulle loro vite. C’è un’energia che non si sentiva dalle lotte per i diritti civili, la consapevolezza che con le prossime due elezioni si giocano il futuro».
Accomunati dalla cultura digitale e multietnica i ragazzi che sia affacceranno al voto per la prima volta vivono in un mondo in cui integrazione di razza e gender sono dati già acquisiti e sono inoltre fortemente attivati su un fronte ambientale sempre più vicino all’emergenza.
È IL VOLTO DI UNA POSSIBILE America post-trumpista, se riuscirà ad emergere. Per il momento si tratta di superare l’endemico assenteismo che tradizionalmente li caratterizza specie in anni non presidenziali (quando di solito votano molto meno della metà degli aventi diritto). Da quest’estate «Power California» ha iscritto alle liste di voto 50.000 nuovi elettori, e la maggiore affluenza favorisce i democratici. Per arrestare la marea populista occorrerà poi riuscire a comunicare nei distretti rurali e lontani dalle grandi città, fare progressi insomma nelle roccaforti trumpiste degli hinterland. E non solo negli stati dell’America più profonda. Anche nella democraticissima California ad esempio vi sono una mezza dozzina di distretti che potrebbero rivelarsi cruciali alla riconquista della camera.
SI TRATTA DI CIRCOSCRIZIONI per lo più rurali, in particolare nel paniere agricolo della Central Valley dominata da forti interessi agroindustriali. La popolazione della regione – 500 polverosi chilometri fra Bakersfield, Fresno e Sacramento – è prevalentemente ispanica ma la struttura politicamente è da sempre repubblicana (personaggi come Devin Nunes, presidente della commissione intelligence e fedelissimo di Trump, qui sono la norma).
Nella regione storica delle lotte sindacali campesine di Cesar Chavez, oggi associazioni come «99 Rootz» lavorano per mobilitare giovani latinos che potrebbero «ribaltare» almeno tre seggi trumpisti. Ed è per questo che Crissy Alavarez, 18 anni, da quattro settimane, dopo scuola, lavora ai telefoni nel piccolo ufficio nella località di Atwater, per convincere i compagni ad andare a votare. In molte città per martedì sono previsti walk-out – scioperi degli studenti delle secondarie per permettere ai maggiorenni di recarsi ai seggi – «I ragazzi sono la voce delle famiglie immigrate, in cui i genitori spesso non possono votare» dice Sanchez, veterano delle lotte chicane degli anni 90 a Los Angeles e Berkeley, «Cerchiamo di ricollegarli alla tradizione di lotte politiche».
Si tratta di un opera di ricostruzione capillare e necessaria se il partito democratico vorrà sperare di costruire una cultura politica capace di contrastare la strumentalizzazione ed il degrado trumpista.
MOLTI DEI RAGAZZI che lavorano con «99 Rootz» fanno parte degli 800mila Dreamers i giovani «illegali» amnistiati da Obama che ora in regime Trump, si trovano passibili di deportazione. Questo midterm – inoltre – può essere inquadrato come scontro fra forze suprematiste e multiculturali.
Per mantenere il potere Trump persegue ormai una pericolosa strategia della terra bruciata che mira ad alzare quotidianamente lo scontro e «militarizzare» le pulsioni più retrograde del paese dando forma simbolica alle paure bianche. Mobilitando – ad esempio – le truppe militari per uno scontro immaginario con i diseredati in marcia dal Centro America destinato ad avere luogo solo nei febbrili immaginari dei suoi seguaci.
LA PSICOSI IMMIGRAZIONE tatticamente riattivata costituisce una manovra diversiva di Trump, una distrazione da disuguaglianza, globalizzazione, clima, tecnologia – i temi della governance post moderna così catastroficamente ignorati dalla pulsione retrograda del nazionalpopulismo (nonché da una sinistra anche qui in una crisi di identità.) Per tutte queste ragioni le elezioni saranno un appuntamento cruciale che molto dirà sulle prospettive future del paese e del mondo.

Il Fatto 4.11.18
Neri per Trump, la “Blexit” sulle elezioni di Midterm
Influencer e volti noti, gli afroamericani votati alla causa di The Donald
Neri per Trump, la “Blexit” sulle elezioni di Midterm
di Giampiero Gramaglia


Sul Daily Signal, la campagna di reclutamento dei neri ‘pro Trump’ va avanti da settimane: famiglie modello, lui e lei con i bambini, uno magari in carrozzina, in prima fila al comizio del presidente; oppure il papà che va al lavoro in giacca e cravatta e accompagna a scuola i figli con l’uniforme dell’Istituto privato che costa un sacco; o la mamma che prepara le torte per i reduci. Nulla a che vedere con quei neri, magari disarmati, ma male in arnese e pure tatuati, ammazzati a pistolettate qua e là nell’Unione da poliziotti bianchi.
Daily Signal è l’organo di stampa della Heritage Foundation, un think tank conservatore votatosi alla Blexit, cioè alla campagna per convincere gli afro-americani (i black, appunto) ad abbandonare il partito democratico. Il movimento, lanciato in vista del voto di midterm, martedì 6 novembre, è guidato da Candace Owens, commentatrice ultraconservatrice, star dei ‘social’ e fan del presidente. A disegnare il logo è stato un altro transfuga della causa nera, il rapper Kanye West, noto soprattutto perché marito di Kim Kardashian, l’influencer ‘numero uno’ negli Stati Uniti: anche Kanye è passato a Trump, che lo ha ricevuto nello Studio Ovale.
Tutto avviene sotto la regia di Turning Point Usa, di cui la Owens dirige la comunicazione e che ha appena organizzato la convention dei giovani leader neri e conservatori d’America. Se l’operazione è riuscita, lo si capirà nella notte tra martedì e mercoledì, dal computo dei suffragi, specie là dove il voto dei neri è determinante. Come in Georgia, dove Barack Obama è andato di persona a sostenere Stacey Abrams, che potrebbe divenire la prima governatrice nera dello Stato.
Nell’Unione, le ultime battute della campagna elettorale sono state segnate dalla violenza di destra, razzista e anti-semita: dopo una scia di lettere bomba, fortunatamente inesplose, tra il 23 e il 25 ottobre, contro esponenti democratici e, più in generale, oppositori del presidente Trump, la strage di sabato 27 nella sinagoga di Pittsburgh; e poi l’esercito – 5200 uomini, che potrebbero salire fino a 20mila – schierato alla frontiera col Messico per intercettare e bloccare una carovana di migranti; e il progetto d’attenuare lo ius soli, che è in Costituzione.
La Blexit potrebbe risultare la provocazione di troppo: la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso d’un Paese raso colmo d’intolleranza e esacerbazione, il cui presidente è un ‘divisore in capo’ che aizza le tensioni, si proclama nazionalista e sdogana i suprematisti accomunando nella denuncia razzisti e anti-razzisti. Il voto di Midterm “è un’elezione nazionale, un referendum su Trump”, afferma Lee Miringoff, direttore del Marist Institute for Public opinion che ha fatto un sondaggio per la Npr, la radio pubblica Usa. Due terzi degli elettori ritengono che il presidente sarà il fattore che più influenzerà il loro voto alle elezioni di metà mandato.
Martedì 6 novembre, i cittadini americani rinnoveranno tutta la Camera – 435 seggi – ed un terzo del Senato – 33 seggi su 100 -. Si vota pure per decine di governatori e assemblee statali e una ridda di referendum e consultazioni locali. I risultati diranno il giudizio degli elettori su quanto fin qui fatto da Trump, in chiave 2020: entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, il magnate ha finora goduto della maggioranza sia alla Camera, dove i repubblicani hanno 235 seggi, sia al Senato, dove ne hanno 52. I sondaggi dicono che i democratici potrebbero conquistare la Camera e i repubblicani mantenere il Senato.
La campagna è stata aspra: candidati che s’insultano a New York, che si lanciano epiteti in Georgia, che spendono somme record per un seggio da governatore in Illinois. Trump è molto attivo, ma non tutti i candidati repubblicani apprezzano il suo appoggio: in Texas, a un comizio c’erano il senatore Ted Cruz, suo rivale per la nomination repubblicana, e il governatore Greg Abbott, ma il deputato John Culberson, non s’è fatto vedere. E al suo arrivo a Pittsburgh, dopo la carneficina alla sinagoga ci sono state vivaci proteste.

Il Sole 4.11.18
Elezioni di midterm. Un referendum su Trump
Martedì gli Stati Uniti rinnovano la Camera dei rappresentanti (favoriti i Democratici) e un terzo del Senato, che dovrebbe rimanere sotto controllo repubblicano. E un Congresso diviso viene visto come garanzia di stabilità
I Dem cercano la rivincita ma il risultato resta incerto
di Riccardo Barlaam


NEW YORK “Blue wave” o “Red light”, titolano i giornali. Avanzerà l’onda blu democratica o si accenderà di nuovo la luce rossa dei repubblicani al Congresso: a due giorni dalle elezioni di metà mandato i sondaggi indicano che i democratici prenderanno il controllo della Camera, e i repubblicani manterranno la maggioranza al Senato, forse addirittura aumentandola. Ma sono ancora molti i seggi, in tutti gli Stati Uniti, dove la sfida resta ancora aperta con margini ridottissimi tra i candidati dei due schieramenti.
Martedì, con diversi fusi orari di mezzo, si voterà per rinnovare i 435 seggi della Camera dei deputati, un terzo dei 100 seggi al Senato e 39 governatori in 36 Stati e tre Territori (Guam, Virgin Island e Northern Mariana Island). Le elezioni Midterm sono locali, ci si gioca la vittoria distretto per distretto, tra candidati più vicini agli elettori. I repubblicani ora hanno la maggioranza alla Camera con 235 seggi a 193 e al Senato con 51 seggi a 49. L’ultimo poll di RealClearPolitics dà il Senato ai repubblicani (50 seggi a 44) e la Camera ai democratici (203-196). Nella corsa dei governatori vince 21 a 18 il Grand old party.
Secondo gli esperti ci sono due ulteriori incognite. La prima riguarda il voto i giovani e minoranze che hanno tassi di affluenza molto bassi alle elezioni di Midterm. Affluenza che questa volta potrebbe aumentare se si materializzerà il movimento anti-Trump spinto dalla Blue wave democratica e dalla campagna elettorale al femminile nata sulla scia del movimento #MeToo. L’altro elemento di incertezza è Donald Trump. La linea ufficiale del suo partito era insistere sui successi economici di questi due anni, contro la strategia democratica che promette l’estensione dei programmi sanitari pubblici. Trump, come nelle presidenziali 2016, ha proseguito per la sua strada, a lanciare messaggi contro. Contro i democratici che «vogliono far arrivare qui i peggiori criminali, gli spacciatori, gli stupratori». Contro l’«invasione aliena dei migranti» per cui bisogna chiudere la frontiera con il Messico e inviare 15mila soldati. Contro i giornali e le tv, «i veri Nemici del Popolo». Due mesi girando in lungo e in largo in questo sterminato Paese, in una miriade di comizi nel tentativo di conquistare gli elettori indecisi o quell’America profonda che sogna di ridiventare grande. Così le elezioni si sono trasformate in un referendum pro o contro Trump. In un clima sempre più avvelenato. Paradigmatico quanto avvenuto a Pittsburgh: il presidente è voluto andare a rendere omaggio alle 11 vittime dell’attentato in sinagoga. Ma è stato accolto dalle proteste di centinaia di manifestanti che lo accusavano di aizzare gli estremisti di destra più violenti con i suoi discorsi incendiari: «Presidente odiato, lascia il nostro Stato»; «Le parole hanno un significato»; «L’odio non è benvenuto», «Dividere la gente non fa l’America grande ancora», alcuni slogan. I familiari delle vittime si sono rifiutati di incontrarlo.
Una situazione imbarazzante e senza precedenti per un presidente che in queste occasioni rappresenta e unisce la nazione. I sondaggi però potrebbero aver sottostimato l’abilità di Trump di convincere gli elettori all’ultimo. Una rilevazione del Washington Post-Schar School sostiene che nelle aree rurali il divario tra repubblicani e democratici si è ampliato a favore dei primi. I democratici hanno la maggioranza nelle due fasce costiere a Est e a Ovest e nelle metropoli. Ma nelle città fino a 250mila abitanti e nelle aree periferiche ci sono più indecisi.
Un primato queste elezioni lo hanno già conquistato. Secondo le proiezioni del Center for Responsive Politics sono stati spesi circa 5,2 miliardi di dollari: la più costosa campagna elettorale della storia americana. Con un incremento del 35% rispetto al 2014, l’aumento di spesa maggiore da due decadi. I democratici con il fundraising ActBlue, attraverso piccoli contributi che hanno coinvolto categorie professionali, insegnanti, pensionati, medici, infermieri, giovani e donne sono quelli che hanno raccolto di più: 2,5 miliardi, contro una raccolta dei repubblicani, che hanno potuto invece contare sulle maxi donazioni, limitata a circa 2,2 miliardi. Anche l’industria della finanza si è schierata. Per la prima volta in un decennio i fondi di investimento hanno speso di più per sostenere i candidati democratici che i repubblicani. Le società di private equity e di asset management hanno donato 56,8 milioni ai candidati democratici e 33,4 milioni ai repubblicani. L’industria bancaria continua a preferire i repubblicani ma ha aumentato la spesa per i democratici. La luna di miele tra Trump e Wall Street sembra finita.
E la vittoria dei democratici alla Camera viene vista come un fatto positivo da molti nel mondo della finanza: un governo indebolito da un Congresso diviso in due è l’eventualità più probabile ma anche quella con meno conseguenze per i mercati, sarà più difficile far passare leggi market mover. E i mercati dopo il voto, comunque andrà, continueranno a crescere. Lo dicono le statistiche: dal 1946 in ogni elezione Midterm l’indice S&P 500 ha guadagnato in media il 18,4%, dal 30 settembre al 30 giugno dell’anno seguente, secondo Ned Davis Research. Negli anni senza voto l’indice è salito in media solo del 4,9%.

Il Sole 4.11.18
La crisi dello spirito americano
Stati Uniti. È quella che, secondo Allen Frances, impersona Trump: inneggia alla grandezza della nazione ma agisce in modo opposto a quel che serve
di Massimo Teodori

Il crepuscolo di una nazione. L’America di Trump all’esame di uno psichiatra
Allen Frances Bollati Boringhieri, Torino

Negli Stati Uniti le elezioni di mid term servono anche per tracciare un bilancio di come ha governato il Presidente eletto due anni prima. Se è positivo, il suo partito contiene le perdite che di solito si registrano nelle elezioni di mezzo; se negativo, la seconda parte del mandato presidenziale ne esce indebolita e l’esecutivo diviene una cosiddetta “anatra zoppa”. Martedì, 6 novembre, anche Donald Trump sarà sottoposto al giudizio degli elettori chiamati alle urne per scegliere tra una miriade di candidati locali, statali e federali, repubblicani o democratici.
Quest’anno la prova elettorale si presenta come un bivio decisivo perché se si risolverà in un altro successo repubblicano, significherà che l’ascesa alla Casa Bianca di un personaggio così anomalo non è stata una semplice parentesi; se invece il partito del Presidente perderà la maggioranza in almeno una Camera, vorrà dire che, accanto alle inchieste giudiziarie, in Congresso si metterà in moto la procedura per la rimozione.
In centinaia di libri, migliaia di giornali e trasmissioni televisive è stato sollevato l’interrogativo di come mai sia stato eletto un Presidente tanto ignorante, arrogante e inadeguato; ed è stato avanzato il sospetto che Trump sia afflitto da disturbi psichici tali da rendere legittima l’interruzione della sua guida capricciosa della nazione con il ricorso al XXV emendamento della Costituzione che prevede la destituzione dall’incarico di persona inadatta a responsabilità istituzionali. Una risposta negativa a tale ipotesi viene ora fornita dal saggio Il crepuscolo di una nazione. L’America di Trump all’esame di uno psichiatra di Allen Frances secondo cui il Presidente è piuttosto il sintomo che non la causa delle malattie sociali degli Stati Uniti e del mondo intero: l’ambiente in via di distruzione; la bomba demografica; l’esaurimento delle risorse; le contraddizioni della medicina; il razzismo dell’America bianca; il Grande Fratello che ci controlla; e l’uso sconsiderato delle armi da fuoco. Con la sua ricerca condotta sul filo delle tecniche psichiatriche, l’autore individua nel narcisismo di Trump non solo la causa delle sofferenze di una parte della popolazione ma anche la fonte della sua fama, ricchezza, successo femminile e potere politico: «Trump è una minaccia per gli Stati Uniti, e per il mondo, non perché clinicamente pazzo, ma perché davvero pessimo».
Non è la prima volta che una corrente reazionaria e filo-razzista si afferma nella società americana conquistando vasti settori popolari. A metà Ottocento il movimento nativista know nothing fece leva sul ventre dei maschi bianchi protestanti scatenando una crociata contro l’immigrazione dei cattolici tedeschi e irlandesi accusati di organizzare un colpo di Stato papista. Alla fine degli anni trenta del ’900 fu lanciato lo stesso slogan America First oggi cavalcato da Trump su iniziativa del comitato presieduto dall’antisemita Charles Lindberg che si batteva affinché gli Stati Uniti abbandonassero i britannici in guerra contro Hitler.
Perfino Theodor Adorno negli anni del maccartismo diagnosticò che il successo della personalità autoritaria di Joseph McCarthy fosse dovuto al fascino da lui esercitato sugli americani analogamente a quello che aveva reso i tedeschi facili prede del nazismo.
Nella storia dell’America (e, aggiungiamo noi, d’Europa) spesso emerge un populismo che di volta in volta si presenta con caratteri contraddittori. Quello “vero”, sostiene Allen, dovrebbe essere al centro di qualsiasi buon governo che assicura i diritti e protegge i cittadini dall’avidità del potere delle élite. Il “populismo farlocco”, al contrario, fa perno sulla seduzione delle masse da parte di demagoghi che promettono qualunque cosa prima di ottenere il potere, mentre dopo non fanno altro che sfruttare la situazione, avviando spesso la democrazia alla tomba. Trump è l’esempio più evidente del “populismo farlocco” che garantisce il ritorno di un’età dell’oro mai esistita (Make America Great Again), demonizza il nemico islamico e l’immigrato ispanico contro cui vuole erigere un muro lungo tutta la frontiera con il Messico. Il suo governo fa largo uso del metodo consolatorio: niente avviene per caso, ogni cosa è collegata alle altre, e c’è sempre qualcuno cui dare la colpa. È la teoria del complotto che fornisce una semplicistica spiegazione della realtà, inventa un nemico da combattere, e chiama il popolo alle armi nella tradizione della destra radicale che con il tycoon newyorkese si è insediata alla Casa Bianca.
Al giorno d’oggi l’umanità è più che mai afflitta da fenomeni incontrollati quali il consumo dell’aria, dell’acqua e della terra causati sia dalla natura sia dall’uomo, disastri tutti che possono portare al collasso della nostra civiltà come è già accaduto in passato con altre civiltà che hanno goduto di una rapida ascesa. La psiche della prima nazione del mondo è afflitta da quella che Allen diagnostica come «la crisi dello spirito americano», impersonata dal Presidente. Mentre con dichiarazioni retoriche inneggia alla grandezza dell’America, Trump opera in senso opposto al modo in cui sarebbe necessario agire nell’attuale emergenza: nega il riscaldamento globale, incoraggia l’inquinamento, sostiene lo sfruttamento delle risorse energetiche, osteggia il controllo demografico, diffonde le armi da fuoco, incoraggia le diseguaglianze sociali, e calpesta i diritti civili. Il mondo avrebbe bisogno che gli Stati Uniti si mettessero insieme alle altre potenze, Cina e Unione Europea, per affrontare con una strategia multilaterale i mali planetari.
Siamo a un bivio: l’elezione a sorpresa di Trump potrebbe rappresentare il tramonto delle democrazie e la catastrofe ambientale su scala mondiale, oppure il segno che la febbre giunta al massimo del delirio collettivo sia sul punto di passare. Lo psichiatra conclude «È troppo presto per dire se la democrazia americana sopravvivrà all’attacco di Trump. Il presidente è uno sbruffone e un pagliaccio, ma ha dimostrato di non scherzare».

Corriere 4.11.18
Cina, i diritti negati e il peso dei soldi
di Ernesto Galli della Loggia


Da oltre un decennio non si contano le proteste e le critiche rivolte dall’opinione pubblica italiana al governo degli Stati Uniti per la prigione di Guantanamo. Cioè per la detenzione in quella base americana nell’isola di Cuba di qualche centinaio (attual-mente credo solo qualche decina) di persone di varie nazionalità gravemente sospettate di appartenere a formazioni terroristiche islamiche: detenzione tuttavia senza processo, e quindi a tutti gli effetti illegale secondo le buone regole dello Stato di diritto. Anche per questo appare davvero singolare il silenzio assoluto che invece ha accolto proprio in Italia la notizia dell’inasprimento delle misure repressive già durissime e di pari illegalità che il governo della Repubblica Popolare Cinese ha recentemente deciso nei confronti degli Uiguri. Cioè di una popolazione turcofona, musulmana sunnita, non di etnia Han, abitante nella regione di confine dello Xinjiang, dove fino a poco fa essa rappresentava la maggioranza, e la cui colpa, agli occhi di Pechino, è quella di voler mantenere la propria identità.
Il governo cinese ha intrapreso da tempo una politica di radicale snazionalizzazione della popolazione uigura vietando le pratiche religiose, l’uso della lingua e ogni forma di organizzazione autonoma, con relativo controllo poliziesco attraverso la vigilanza sull’accesso a Internet e la diffusione in tutti gli spazi pubblici di videocamere dotate di software avanzatissimo per il riconoscimento facciale.
Vige inoltre l’obbligo per le famiglie sospette di ospitare nel loro seno rappresentanti dello Stato per soggiorni più o meno lunghi, e infine una serie di discriminazioni a vantaggio degli immigrati Han il cui arrivo nella regione viene favorito in ogni modo. Non bastando tutto ciò Pechino ha deciso l’installazione nel Xianjiang di «centri chiusi di rieducazione politica», in realtà dei veri e propri campi di concentramento, del cui numero è stato per l’appunto annunciato di recente l’aumento: fino ad ospitare la cifra spaventosa di un milione di persone. Ulteriore particolare agghiacciante: la detenzione di un così alto numero di persone, producendo un alto numero di bambini senza famiglia, ha portato all’apertura di convitti dove essi vengono «educati» dallo Stato al fine di rimodellare per così dire all’origine l’identità uigura.
In tutto ciò non c’è nulla di particolarmente sorprendente. Il regime cinese, infatti, non ha mai cessato di essere un regime totalmente illiberale, nazionalista ed espansionista come pochi, intollerante di ogni autonomia, avverso a qualsiasi libertà politica, religiosa, sindacale, persecutore feroce degli oppositori politici e repressivo in ogni suo aspetto (non a caso la Cina detiene il record mondiale delle condanne a morte).
Ma dalla scomparsa di Mao in avanti la Cina è guidata da una leadership di grande intelligenza politica. La quale ha capito che i propri propositi egemonici a vastissimo raggio possono essere portati avanti nel modo migliore lasciando da parte le vecchie illusioni ideologiche legate al «comunismo» (il «comunismo» serve solo all’interno per giustificare il potere assoluto del partito unico), e puntando invece su altri mezzi. Innanzi tutto sull’influenza economica e sul denaro. Due mezzi che con l’Occidente e non solo si stanno rivelando efficacissimi. Un mercato gigantesco, un governo il quale, se vuole, mette a disposizione tutto e se vuole finge anche singole liberalità, che è pronto a gettarsi nei progetti più ciclopici e a finanziare ogni iniziativa capace di allargare il proprio raggio d’azione, che compensa più che lautamente gli ospiti e gli amici: è così che la Cina afferma la sua egemonia mondiale. Ed è così che da anni industriali, «creativi», professionisti, politici, stilisti, intellettuali, personalità d’ogni genere provenienti dai Paesi occidentali si recano speranzosi nel Celeste Impero, ne sono ospiti entusiasti, stabiliscono relazioni, vi fanno affari, lo vezzeggiano in ogni modo, vi tengono conferenze remuneratissime.
A questo punto a chi volete che importi qualcosa degli Uiguri, dei diritti umani dei cinesi, dei gulag e compagnia bella? E infatti come ho detto all’inizio non importa a nessuno. Alla prova dei fatti questo sembra essere l’attaccamento del nostro continente ai suoi valori. Viene quasi da pensare che se a suo tempo non ci fossero stati né gli Usa né Pio XII, e Stalin invece di schierare migliaia di carri armati, avesse aperto da Stettino a Trieste una catena di discount, l’Europa sarebbe stata ai suoi piedi.
Oggi, in realtà, la sua situazione non è molto diversa da questa. Solo che adesso, al posto della sola Unione Sovietica ritornata ad essere la Russia ci sono almeno altri due o tre grandi centri di potere economico e quindi politico che premono su di noi muovendosi con la massima spregiudicatezza. La Cina, appunto, e poi la Russia, il mondo arabo (con il Qatar e l’Arabia Saudita in prima fila), perfino la stessa Turchia di Erdogan, mostrano per chiari segni di volersi avvalere delle loro risorse finanziarie e di ogni altro strumento «pacifico» a loro disposizione per penetrare e condizionare in un modo o nell’altro la nostra vita politica. Quanto i russi hanno tentato di fare nel caso delle ultime elezioni presidenziali americane – sull’esito effettivo si può discutere ma sul tentativo no – è l’esempio di ciò che può accadere.
Bisogna guardare in faccia la realtà. Un intero passato è oggi svanito. Per molti decenni la tensione etica ereditata dagli anni della guerra mondiale e che caratterizzò pure il confronto con il comunismo sovietico, la solidità politica e culturale dei partiti cristiani e socialdemocratici allora egemoni, e diciamo pure la vigilanza americana, valsero nella seconda metà del Novecento a erigere una barriera invalicabile intorno alle classi dirigenti europee occidentali. Assicurando la loro impermeabilità a lusinghe, seduzioni, allettamenti del più vario tipo provenienti «dall’altra parte»; incluse le seduzioni finanziarie: quando non proprio quello dell’arricchimento personale quello ad esempio di generosi «contributi» elettorali.
Ma questo passato è oggi svanito, ripeto. Oggi specialmente l’Europa occidentale e i suoi regimi democratici appaiono sostanzialmente indifesi davanti a un mondo esterno aggressivo e senza scrupoli il quale ha grandissimo interesse a piegare le nostre democrazie ai propri voleri. Innanzi tutto — come dimostra il caso della Cina — cancellando la nostra capacità di critica nei confronti delle molte ignominie che in esso si commettono.
Indifesa appare in particolare l’Italia, con la sua porosità istituzionale, la sua classe politica perlopiù improvvisata, la sua classe dirigente priva in generale di un forte spirito nazionale e di una consistente moralità. Ormai ogni giorno esponenti a vario titolo del nostro Paese percorrono a frotte i Paesi delle tirannidi e del denaro — dalle regge del Golfo ai cremlini della Moscovia e dell’Asia centrale ed estrema — ritornandone, guarda caso, quasi sempre colmi di ammirazione. È permesso augurarsi che ci sia qualcuno in grado di dare un’occhiata discreta a quello che combinano?

Corriere La Lettura 4.11.18
L’umanità non si misura
Che cosa definisce l’uomo
Discutono Guido Tonelli, fisico di fama mondiale, Peter Hunter, teologo di Oxford e Silvano Petrosino, professore di Teorie della comunicazione alla Cattolica di Milano
di Annachiara Sacchi


L’ossessione di misurare. E misurarsi. Il conto in banca, le relazioni, i follower e i like. I chilometri percorsi (sul tapis roulant), le ore di lavoro, le cene fuori, i pollici della tv. Qual è l’unità di misura dell’umanità? E chi — o che cosa — definisce l’uomo? La ricchezza, il successo, il potere? L’appartenenza a una nazione, a una fede? Alla vigilia della Conferenza di Parigi, che rivedrà il sistema internazionale delle unità di misura, tre voci collegate via telefono — Peter Hunter da Oxford, Guido Tonelli da Pisa, Silvano Petrosino da Milano — provano a rispondere portando sul tavolo della riflessione le loro competenze: Hunter, frate domenicano del collegio di Blackfriars a Oxford, studi in Matematica, Teologia, Filosofia, è docente nell’ateneo inglese; Tonelli, fisico del Cern di Ginevra, insegna Fisica generale all’Università di Pisa, è ricercatore associato dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare e ha partecipato alla scoperta del bosone di Higgs; Petrosino è professore di Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e Media all’Università Cattolica di Milano. Il teologo, lo scienziato, il filosofo. Partono (e per certi versi finiscono) con una tesi antica, del V secolo prima di Cristo, ancora molto attuale: «L’uomo è la misura di tutte le cose».
SILVANO PETROSINO — Certo, quella di Protagora è una buona definizione. Ma qual è lo strumento con cui l’uomo misura? Questo è il problema: l’uomo misura con una misura che non controlla mai totalmente. Noi vorremmo catalogare, ordinare, collocare con precisione la realtà che ci circonda, cercando di controllare ciò che sfugge al nostro controllo. In questo senso spesso ci convinciamo che la misura dell’uomo sia, per esempio, il godimento. O il potere. Ma è un inganno: l’uomo resta irrimediabilmente abitato da una misura che non riesce a misurare.
La scienza non è la soluzione?
GUIDO TONELLI — Sarei molto scettico se saltasse fuori un criterio di valutazione delle persone. Come dico ai miei studenti all’inizio del corso, non possiamo misurare tutto. È Galileo a spiegarlo: è misurabile solo ciò che è identico, replicabile, e che non cambia. Ma le paure, l’amore, i sentimenti fanno parte della sfera umana, e in questi casi misurare, che è un’operazione standard nella scienza, diventa quasi impossibile, servono molte precauzioni. Perché se da una parte non esiste criterio scientifico per misurare l’umanità, dall’altra so che alcuni «sistemi di misurazione» sono scelti in base a ragioni politiche o sociali.
Quindi stiamo dicendo che non esiste, o che non abbiamo ancora trovato, l’unità di misura dell’umanità?
PETER HUNTER — Esattamente: non possiamo misurare gli esseri umani e nemmeno semplificarli attraverso numeri. È vero che la nostra società tende a classificare, a cercare regole — penso, in politica, ai criteri con cui distribuire il denaro pubblico. Ma gli uomini sono troppo complessi e importanti per essere ridotti a una formula. È vero, c’è un peso, un’altezza, ma questi parametri non ci dicono niente. Piuttosto, dovremmo sforzarci di capire come davvero funzionano le comunità: quelli sono indicatori importanti, in grado di parlarci — molto più di un elenco — della vita umana.
SILVANO PETROSINO — Il riferimento alla scienza è importante e ci serve per capire la differenza tra esperimento ed esperienza. L’esperimento è alla base della scienza esatta, è misurabile e riproducibile, ma l’esperienza umana è qualcosa che non si può pienamente ripetere e pienamente misurare. È la difesa di questa specificità che ci permette di comprendere il richiamo in qualche modo inevitabile alla fede e all’arte. Questi due domini, il religioso e l’estetico, sono una difesa di un’esperienza che non vuole essere ridotta a esperimento.
GUIDO TONELLI — Non esiste unità di misura dell’umanità. Esistono invece le scelte — politiche, sociali, economiche — delle società, all’interno delle quali gli uomini e le donne sono giudicati. Nella nostra i criteri di valutazione — esasperati dai media — si riferiscono al possesso di denaro, potere, successo. Ma se pensiamo a certe tribù, dove contano i narratori di storie, la gerarchia cambia completamente. Ecco, anche da noi occorrerebbe una diversa gerarchia. Il valore delle persone andrebbe misurato non con quello che posseggono ma con quello che danno, alla piccola comunità o all’umanità nel suo complesso.
La nostra tendenza a misurare si limita al mondo che vediamo? A un piccolo giardino locale? O misurare vuole dire anche aspirare a qualcosa di altro da noi, che sia Dio o una scoperta scientifica?
PETER HUNTER — Come Tonelli, penso che ogni società abbia i suoi sistemi di valutazione. Non credo, però, che tutto sia «valutabile»: esistono elementi che ci parlano della grandezza dell’uomo, di un brillante intelletto, di un grande cuore. E ci sono persone che per questo motivo ci attraggono a prescindere dalla loro provenienza, dalla loro cultura. Io vengo da un Paese, il Sudafrica, dove un uomo, Nelson Mandela, ci ha traghettato verso un nuovo futuro, anche se imperfetto. San Paolo dice che gli esseri umani si misurano dal pieno sviluppo di Cristo: credo sia vero, Gesù è l’essere umano perfetto che ci dà la misura dell’umanità. Certo, non mi aspetto che questo pensiero sia preso seriamente in una società secolarizzata come la nostra, ma ribadisco: anche da un punto di vista razionale ci sono vite che esaltano e rendono fiorente l’umanità e altre che la mortificano, la rendono misera. Ha dunque senso prendere come riferimento persone che ci conducono verso ciò che è grande e ciò che buono.
Misurarsi vuol dire confrontarsi allora?
PETER HUNTER — L’uomo condivide la sua umanità con gli altri, si riconosce nei suoi simili. Spesso il nostro modo di valutare è superficiale, ma se pensiamo a chi, nei secoli, ha migliorato le condizioni umane, è sempre riconoscibile per un grande cuore, una grande mente.
GUIDO TONELLI — Ma per fare questo serve la distanza. Del tempo. Anche chi si opponeva a Mandela oggi ne riconosce la grandezza. In questo senso dobbiamo aspettare: è il futuro a definire il passato. Anche nella scienza: l’importanza di Euclide si capisce meglio oggi, dopo 2.300 anni. È pericoloso dare giudizi di valore nei confronti di pensatori, artisti e intellettuali contemporanei. Lo facciamo, ma a nostro rischio.
Quindi è il tempo la chiave di questa riflessione? È il tempo l’unità di misura che ci definisce? Il futuro potrebbe essere un lusso che non possiamo permetterci: abbiamo il «tempo» di aspettare?
GUIDO TONELLI — L’evoluzione dell’umanità è un processo complesso. Guardandosi indietro è più facile ragionare con lucidità.
PETER HUNTER — Certo, è più facile capire in retrospettiva, ma non sono d’accordo sul fatto che serva necessariamente il tempo per riconoscere alcune grandi personalità. Come ci sono stati i Platone, gli Euclide, i Puccini, i Galileo, allo stesso modo sono esistiti ed esistono uomini e donne ordinari che si sono presi cura dei più poveri, dei più deboli, che hanno avuto cuore e cervello, magari non nello scoprire una formula, ma nel capire i bisogni del loro tempo. E che sono stati dimenticati. Noi lottiamo per essere grandi. Dovremmo lottare per lasciare alle nuove generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo trovato.
SILVANO PETROSINO — Il riferimento al tempo è essenziale perché l’uomo è finito e mortale e, a dispetto di tutto, ne prende coscienza mentre è ancora in vita: non ha bisogno di attendere di morire per sapere che è mortale. Questa consapevolezza entra inevitabilmente nella sua visione della realtà e vi entra in modo negativo spingendolo per esempio all’avidità, ma interviene anche in modo positivo aprendolo al tema della generatività. Il generativo è sempre contro l’avidità. In questo senso la misura legata al tempo e alla finitezza può essere la migliore condizione per aprire al possibile, a un’alterità oltre il proprio presente.
Ricapitolando: la misura dell’uomo deve tenere conto di spazio e tempo, locale e globale, grandezza riconosciuta e grandezza «silenziosa»?
GUIDO TONELLI — Sì, occorrerebbe distinguere fra i diversi piani spaziali e temporali e le tante comunità che costituiscono l’umanità nel suo complesso. Sono terreni diversi che richiedono scale di valutazione appropriate.
In un mondo così complesso, spesso attraversato da conflitti, esiste un terreno comune su cui posare lo sguardo?
PETER HUNTER — Penso che sia molto difficile impegnarsi «globalmente», prendersi carico dell’umanità in generale, se non per brevi periodi e per avvenimenti di forte impatto emotivo, penso a uno tsunami. Cresciamo in piccole comunità, restiamo sulla terra per pochissimo tempo, abbiamo prospettive locali: è difficile avere una visione condivisa. E se da una parte è importante (e complesso) sollevare lo sguardo oltre il nostro piccolo giardino, dall’altra bisogna sospettare di chi ha ricette semplici e per tutti: la storia ci insegna che in molti casi quelle ricette erano sbagliate, a volte dannose.
GUIDO TONELLI — Il terreno comune è capire che il valore dell’uomo non è stabilito dal suo denaro o dal successo, ma dalle sue azioni nei confronti delle comunità, siano esse locali o globali, dalle soluzioni che trova ai problemi, dalle sue scoperte e visioni.
SILVANO PETROSINO — Per quanto riguarda la ricerca di una misura comune, rispondere è molto semplice e allo stesso tempo impossibile. Per i viventi la misura è la vita, e il bene è tutto ciò che fa vivere. Questo in generale, perché poi succede che i gruppi più potenti impongono la loro misura. Un esempio? È stata introdotta la categoria della qualità della vita dimenticando che la vita stessa è la qualità. Così ha prevalso la dittatura del potente che ha introdotto categorie sue, diverse da quelle di altri uomini che tuttavia vivono «felicemente». Per chiarirci: ritengo che si debba criticare l’imposizione di un unico criterio per definire la vita o la sua qualità.
Filosofo, teologo e scienziato sono dunque d’accordo sul fatto che nel migliore mondo possibile l’uomo è valutato in base al contributo che dà ai suoi simili. Ma non viviamo nel migliore mondo possibile....
PETER HUNTER — Lo so, è difficile estendere questi ragionamenti alla società globale, così abituata a giudicare in modo veloce e superficiale.
SILVANO PETROSINO — Non abbiamo alternativa: noi dobbiamo, ma soprattutto possiamo, vivere insieme. Il filosofo, lo scienziato, l’artista, i ricchi e i meno ricchi, i sani, i meno sani. Ciò che è essenziale è che una misura non finisca per imporsi sulle altre. C’è stato un periodo in cui l’unica misura era quella religiosa e tutto quanto era al di fuori veniva considerato irrazionale, negativo. Oggi io vedo il rischio che si imponga come unica misura quella scientifica. Penso che invece sia assolutamente importante non ridurre l’ampiezza della razionalità umana alla forma della razionalità scientifica. C’è una ragione che va al di là dell’intelligenza.
Professor Tonelli, da scienziato come reagisce?
GUIDO TONELLI — Sono consapevole dei limiti della scienza. È uno strumento ottimo per aiutarci a capire il mondo, per ricavarne tecnologie e collocarci nell’universo. Ma è pur sempre uno strumento. Sappiamo bene che da sola non è in grado di risolvere i problemi dell’umanità. Anzi, proprio perché essa progredisce a ritmi sempre più rapidi c’è più che mai bisogno di filosofi, artisti, pensatori specialisti dell’umano che offrano una visione più chiara del nostro cammino. Servirebbe una nuova alleanza fra scienziati e umanisti per discutere insieme dove stiamo andando, quali sono le opzioni a nostra disposizione, i rischi e le potenzialità delle varie scelte. La decisione sulle strade da seguire non può essere lasciata agli scienziati, spetta all’intera comunità.
Sembra quasi impossibile...
PETER HUNTER — La scienza non può dare risposte a tutte le domande, è vero, ma sono convinto che abbia un ruolo fondamentale nell’aiutarci a capire il mondo che ci circonda. L’umanità è in cerca di risposte, là dove le scienze umane non sono arrivate si chiede aiuto ad altre discipline, ma non esiste soluzione. E allora come si riempie questo vuoto? No, non mi riferisco a una semplice ricetta che dia risposte a tutti. Dico che in questo momento l’umanità è alla ricerca di qualcosa che non trova, di una storia più «sostanziosa» di quella scientifica. La risposta è in mano alle nuove generazioni. Per una nuova visione del futuro conto sui più giovani.
Rischiando di doverci scontrare ancora una volta con i limiti dell’uomo?
SILVANO PETROSINO — Il limite non è un’obiezione alla realizzazione della nostra esistenza. È una condizione: dobbiamo evitare che venga percepito e soprattutto concepito come un’obiezione. Proprio a partire dall’idea di limite è possibile trasformare una dimensione che sembra esprimere una costrizione, un di meno, in un’opportunità che può aprire a un di più. Ad esempio a un confronto tra esperienza religiosa, scientifica, artistica. In conclusione, a me sembra che l’uomo sia molto più ricco e più grande di quanto lui stesso non pensi.
L’uomo è ontologicamente destinato a progredire?
GUIDO TONELLI — Per progredire, ma anche solo per definire la rotta dell’umanità, sono necessarie alcune condizioni. La prima è accettare che ogni approccio — scientifico, umanistico, artistico — ha i suoi limiti. Ma questa, come dice Petrosino, potrebbe essere anche una ricchezza. La seconda è comprendersi uno con l’altro, capirsi, parlarsi. Serve uno sforzo comune per intendersi, soprattutto tra esperti di scienze umane e scienziati. Questi ultimi lo stanno facendo, consapevoli del fatto che non tutte le risposte possono arrivare da fisica, matematica, chimica. Non vedo invece lo stesso sforzo da parte di filosofi e artisti che, pur vivendo nella scienza e usando gli strumenti che la scienza mette a disposizione, sembrano poco interessati a come la scienza sta interpretando l’universo e le sue origini. Ma se vogliamo vivere insieme bisogna saper cambiare prospettiva.
PETER HUNTER — Concordo sul fatto che l’uomo spesso è incapace di vedere la sua stessa grandezza. La nostra società sta vivendo una strana tensione tra superficialità nel giudicare e attitudine a usare misure «disumanizzanti» per risolvere i problemi — mi riferisco ad alcune soluzioni politiche per risolvere il problema della povertà. Penso però che l’umanità stia allo stesso tempo riforgiando una nuova visione comune. Avverto un clima di speranza: i giovani, i nuovi pensatori mi sembrano più consapevoli di questa grandezza.
L’uomo è ancora la misura di tutte le cose?
GUIDO TONELLI — Oh sì, inesorabilmente.
PETER HUNTER — Sì, ma l’uomo può fare anche molti danni. Metterci sempre al centro può farci dimenticare i nostri limiti.
SILVANO PETROSINO — Sì. L’uomo ha una caratteristica unica, sa aprirsi all’altro. Sa dire «ti voglio bene», voglio il tuo bene. Basta questo per sfuggire a ogni accusa di antropocentrismo.

Corriere La Lettura 4.11.18
Il futuro debole
Così siamo diventati prigionieri  di un presente senza prospettive
di Remo Bodei


Quando il cammino della storia era più lento e la ruota della fortuna girava meno velocemente, eravamo abituati a considerare il futuro quasi come un prolungamento del presente per linee tratteggiate. Oggi il nostro presente appare tuttavia sguarnito, perché il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento sotto il segno del progresso, è diventato debole.
A causa dell’incertezza diffusamente avvertita (per la mancanza di lavoro, le crisi finanziarie, il riscaldamento globale o il terrorismo), diventa sempre più difficile proiettarsi verso il futuro e pensare alle prossime generazioni. Acquistano un senso più pregnante le parole di John Maynard Keynes («l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre»). Anche per l’intensificarsi dei processi di modernizzazione e d’innovazione di cui non si riesce ancora a valutare la portata e che seminano, insieme, paure e speranze, diminuisce drasticamente la capacità di pensare a un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private.
Limitandoci ai problemi posti dall’ingresso delle nuove tecnologie, si moltiplicano le domande prive di sicure risposte. Ne elenco alcune, che toccano, direttamente o indirettamente, la vita di ognuno: come coordinare la crescente rapidità di calcolo e di esecuzione di programmi da parte di macchine e dispositivi, dotati di Intelligenza Artificiale e capaci di apprendere, con la maggiore lentezza degli umani? L’accelerazione del tempo umano nel tentativo di imitare la velocità delle macchine è perduta in partenza. Sono necessarie altre strategie, sia per gettare un ponte tra le operazioni quasi istantanee delle learning machines e i tempi necessari dello srotolarsi dei pensieri, delle decisioni e degli stati d’animo umani, sia per consentire la sopravvivenza di una democrazia in grado di deliberare in base alla discussione ragionata di progetti piuttosto che affidarsi a piattaforme di votazione rapida.
Come dovrà cambiare l’educazione quando si assiste alla crescita sempre più rapida del tasso di razionalità oggettivata nelle macchine grazie ad algoritmi incomprensibili ai più? Quando essa invade sfere sempre più numerose della vita e assorbe inesorabilmente, oltre che l’intelligenza, anche la volontà, delegata a guidare non solo macchine senza pilota, relativamente innocue, ma ominosi sistemi missilistici automatici o complessi strumenti che decidono in microsecondi le scelte degli investitori in Borsa? Continuando a ignorare l’urgenza di comprendere e reagire ai mutamenti in corso, si andrà incontro a una nuova ignoranza di massa. Malgrado la maggiore diffusione dell’alfabetizzazione e il maggiore peso del bagaglio di nozioni generali, si moltiplica, infatti, anche il numero degli idioti (nel senso greco del termine, ossia di persone private incapaci di partecipare con una sufficiente consapevolezza alla vita politica e culturale, perché chiusi nella particolarità del proprio lavoro e nei limiti dei loro immediati interessi).
Data la veloce obsolescenza delle nostre informazioni e delle stesse macchine, occorre introdurre urgentemente il sistema della continuing education, inventando dei modelli educativi che, scherzando ma non troppo, potrebbero seguire il modello dell’esercito svizzero (ossia prevedere, dopo la «ferma» delle scuole regolarmente frequentate, il periodico richiamo dei cittadini all’aggiornamento delle loro conoscenze e della cultura generale).
Si dovrebbe mirare, da un lato, sia all’aggiornamento in campo professionale, sia alla capacità di operare in processi che connettono il lavoro umano alle nuove tecnologie, così che gli uomini non diventino appendici stupide di macchine intelligenti; dall’altro a un genere di educazione in grado di superare la separazione tra saperi umanistici e tecnico-scientifici. L’estensione del modello del long life learning assumerà con gli anni un carattere sempre meno utopico a causa del progressivo incremento del tempo libero, reso possibile dall’applicazione delle nuove tecnologie ai processi produttivi.
A questo punto, le domande aumentano ancora, in parallelo alle incertezze sull’imminente futuro. Il nostro continuo contatto con i pensieri già «formattati», e scritti da altri, rischierà di ottundere la mente, di indebolire la volontà, di renderne sfocata l’immaginazione, di demotivare la creatività latente in ciascuno di noi fino a essiccare la stessa facoltà di giudizio? Attraverso le semplificazioni il pensiero articolato subirà pesanti penalizzazioni: sarà considerato involuto, poco chiaro? In questo modo, la semplificazione del pensiero, ridotto a tweet o a slogan, non andrà forse contro il compito della cultura che è quello di insegnare, semmai, a complicare, di mostrare le differenze e le sfumature tra concetti o azioni (il termine «concreto» deriva, del resto, dal verbo cum crescere, «crescere insieme», tener contro della pluralità dei fattori che si modificano insieme)?
Ancora: come cambierà, ad esempio, oltre che sul piano della digital fluency, la costruzione della personalità umana e l’idea stessa di educazione o di formazione (Bildung), quando gli individui, a causa della necessità di cambiare lavoro e di tenere il passo con cambiamenti sempre più rapidi, saranno costretti a sovvertirsi di continuo o a programmarsi esclusivamente in vista, trascurando una formazione più completa della propria personalità?
Come sarà possibile evitare che il sapere che dà potere si concentri nel vertice della gerarchia sociale, che si formi una élite di persone in grado di accedere ad algoritmi e banche dati lasciando il resto dell’umanità in condizioni di ignoranza e di povertà, che la conoscenza tecnica sia patrimonio di una oligarchia che lascia i più in balia di opinioni?
Che fare? Siamo tutti emigranti nel tempo: ci spostiamo dal presente noto verso un comune futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme, da cesura rispetto al successivo. Abbiamo bisogno della memoria del passato come esperienza e dell’attenzione del presente teso a «defuturizzare» l’avvenire. Ma anche, e indissolubilmente, dell’apertura a pensare il nuovo e il possibile, del futuro cui si accede a partire dalla discontinuità rispetto a quel che eravamo e pensavamo.

Corriere La Lettura 4.11.18
Il matematico partigiano
Il combattente antifascista più decorato d’Italia
di Andrea Angiolino


Mario Fiorentini compie cent’anni il 7 novembre. Sostiene, a buon diritto, di aver vissuto tre vite: una da intellettuale, una da partigiano, una da matematico. A quest’ultima vita appartiene il volume che proprio mercoledì esce per Iacobelli. Si intitola Zero uno infinito e Fiorentini lo ha scritto con Ennio Peres. Raccoglie curiosità matematiche di vario genere e giochi di «matemagica», per rendere accattivante una materia ritenuta troppo spesso arida. Agli aspetti più ludici provvede soprattutto Ennio Peres, già insegnante non ortodosso e poi giocologo, enigmista, autore di libri divulgativi. «La Lettura» è andata a trovare Fiorentini nella sua casa romana dietro via Rasella.
A 14 anni Mario lavorava in negozio e alla sera studiava da ragioniere. Ma il padre gli aveva trasmesso l’amore per la letteratura e per la musica. Presto lasciò gli studi e prese a frequentare gli ambienti culturali romani: le serate cinematografiche a Palazzo Braschi e gli spettacoli teatrali, i salotti intellettuali e gli artisti di via Margutta e Villa Strohl Fern. Conobbe Giorgio Caproni, Renato Guttuso, Sandro Penna e tanti altri. «Con Carlo Lizzani ci chiamavano il prezzemolo perché ci infilavamo in tutte le iniziative. C’era un convegno a Treviso? E noi schizzavamo lì per sapere che cosa succedeva. Eravamo curiosi, molto, e molto determinati».
Di madre cattolica e padre ebreo, aveva ricevuto un’educazione laica. Ma nel 1938, per solidarietà contro le leggi razziali, chiese al rabbino capo Gustavo Sacerdoti di convertirlo all’ebraismo. Sacerdoti, sbalordito, gli rispose che non era circonciso. Quando Fiorentini tornò da lui disposto anche a farsi circoncidere, per dissuaderlo e preservarlo dalle persecuzioni, Sacerdoti dovette dirgli che il suo gesto poteva essere travisato come un vile tentativo di sottrarsi alla leva militare, da cui gli ebrei erano stati esclusi.
Si innamorò del cinema leggendo il regista russo Vsevolod Pudovkin. «Con Luchino Visconti ed Ennio De Concini lavoravo a un film. Avevamo un’idea diversa da Visconti: puntavamo a fare cinema con attori non professionisti, lui puntava sul grande attore. Poi mi hanno preso e mi hanno mandato in guerra». Al ritorno dal fronte Fiorentini si diede al teatro. «Con Plinio De Martiis costituimmo una compagnia per portare il teatro a un pubblico che solitamente non ci va, quello dei cinema di periferia. Avevamo alle nostre dipendenze Vittorio Gassman, Adolfo Celi, Luigi Squarzina: il fiore del giovane teatro italiano». Con lui Gassman esordì ne L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello. Un giorno, Fiorentini in testa, marciarono contro il sindacato fascista degli artisti. «Aveva un teatrino in via Sicilia e lo abbiamo occupato manu militari. La direzione cosa poteva fare? Chiamare la polizia? Non lo fece. Cercai di mettere Gassman su un tavolo a cantare l’Internazionale». Più prudentemente, decisero poi di fargli recitare Cechov.
All’armistizio del settembre 1943, Fiorentini combatté a Porta San Paolo contro i tedeschi che entravano a Roma. Con la compagna di una vita, Lucia Ottobrini (scomparsa nel 2015), videro sfilare i carri armati per via del Tritone e decisero di non arrendersi. Aderirono ai Gap, le formazioni comuniste impegnate nella guerriglia urbana: lei, alsaziana, sarà una tenace partigiana, preziosa anche perché di madrelingua tedesca.
Il 16 ottobre 1943 Fiorentini sfuggì al rastrellamento degli ebrei uscendo dal retro di casa e saltando sui tetti. Trovando solo gli anziani genitori, i tedeschi non perquisirono l’appartamento: avrebbero scoperto una cassa di bombe sotto un letto. Davanti ai treni per i campi di sterminio, la madre si salvò perché cattolica: si impuntò, gridò, alla fine riuscì a portare con sé il marito. «È un episodio che mi ha colpito e dato la forza di attaccare i tedeschi», ricorda Fiorentini.
Arruolò artisti come Vasco Pratolini e pittori come Guttuso e Vedova. Sfruttò quest’ultimo, eccezionalmente alto, per dipingere nottetempo scritte di propaganda sui muri. Diresse il Gap centrale «Antonio Gramsci», pianificò ed eseguì molte azioni assieme alla Ottobrini, a Carla Capponi e a Rosario Bentivegna — in pochissimi contro un esercito.
Anche su richiesta degli Alleati, colpirono i nazisti in una Roma mai davvero città aperta. Tra i casi più eclatanti, l’attacco del 26 dicembre 1943: Fiorentini, in bicicletta, lanciò una bomba contro i tedeschi che si davano il cambio davanti a Regina Coeli, poi fuggì pedalando sotto i proiettili. Propose e pianificò l’attentato di via Rasella contro un battaglione tedesco che vedeva sfilare sotto casa nelle stesse uniformi verde marcio di chi aveva rastrellato i suoi genitori. Usando bombe da mortaio modificate per il lancio a mano ingannò il capo delle SS Herbert Kappler, che cercò invano da dove avessero sparato le armi pesanti in realtà mai possedute dai partigiani. La risposta nazista a via Rasella fu la strage delle Fosse Ardeatine: 335 persone trucidate. Fiorentini lasciò Roma. Rientrò in città il 5 giugno 1944 con la divisione americana Texas.
Entrò nei servizi segreti militari americani del maggior generale William J. Donovan. Da comunista Fiorentini operò tra i precursori della Cia. Paracadutato in Val Trebbia, eseguì varie missioni. «A me e Lucia ci chiamavano la coppia di volpi argentate»: allude alle otto medaglie — italiane, inglesi, statunitensi. «Io, che sono il partigiano più decorato d’Italia, ho rischiato la vita per far sì che Benito Mussolini venisse consegnato vivo agli americani. Purtroppo non ci sono riuscito». Vanta quattro nomi di battaglia e molte identità riportate su documenti falsi. È stato in quattro carceri: «Sono un avanzo di galera», scherza.
Dopo la guerra, con gran forza di volontà Fiorentini riuscì a diplomarsi e laurearsi: aveva 43 anni. Insegnante di scuola media, lesse di un concorso per professori: scrisse 140 pagine di getto e vinse. Con pubblicazioni prestigiose ottenne una cattedra di Matematica. «Se mi chiedono quali sono stati gli anni più belli della mia vita, dico i 25 che ho trascorso all’Università di Ferrara come professore», dice. Senza trascurare la didattica puntò sulla ricerca: chiamò giovani talenti che spediva nel mondo ad aggiornarsi e invitava matematici dall’estero creando un punto di riferimento internazionale.
A settant’anni il governo polacco gli offrì il titolo di professore a vita per chiara fama in un’università a scelta: ma Ferrara gli chiese di restare e lo congedò poi nel 1997 con un convegno a lui dedicato. Gli atti, con 28 contributi saggistici e un ponderoso volume di 900 pagine con articoli suoi e dei collaboratori, testimoniano il suo impegno nella matematica. Ma la vita del pensionato non fa per lui: è già al lavoro per preparare altri libri.

Il Sole Domenica 4.11.18
Anatomia dei Romanov
Una mostra allo Science Museum esamina gli ultimi anni della famiglia imperiale e il suo destino dopo la morte: si possono ammirare foto inedite e oggetti mai usciti prima dalla Russia
di Nicol Degli Innocenti

The Last Tsar: Blood and Revolution
Fino al 24 marzo 2019 Science Museum, Londra
www.sciencemuseum.org.uk

La scienza ha risolto il mistero della fine dell’ultimo Zar di Russia e della sua famiglia, ma non ha intaccato il fascino della storia o affievolito l’interesse per la tragedia.
È passato un secolo da quando Nicola II Romanov, la moglie Aleksandra, le figlie Olga, Maria, Tatiana e Anastasia e l’erede al trono Aleksej sono stati fucilati nello scantinato della casa Ipatiev di Ekaterinburg dove erano tenuti prigionieri dai bolscevichi.
Lo Science Museum di Londra commemora il centenario con la mostra The Last Tsar, che ricostruisce gli ultimi anni di vita della famiglia imperiale e il loro destino dopo la morte, concentrandosi in particolare sulla missione scientifica per identificare i resti trovati molti decenni dopo.
La Gran Bretagna ha legami storici e familiari con la famiglia imperiale russa. Lo zar era cugino primo e praticamente sosia del re Giorgio V, mentre la regina Vittoria era la nonna della zarina Aleksandra, figlia della sua secondogenita Alice. Un legame di sangue che si è dimostrato fatale. Fu Vittoria a trasmettere al bisnipote Aleksej l’emofilia di tipo B, una malattia genetica trasmessa dalle donne che colpisce soprattutto uomini.
La mostra è divisa in due parti: prima e dopo l’eccidio. La prima parte esplora gli ultimi anni di vita dei Romanov e in particolare il loro interesse, intenso fino all’ossessione, per la medicina. C’è una ragione molto umana per questo. La zarina aveva avuto quattro figlie e a ogni nascita la gioia era stata minata dalla delusione per il mancato arrivo dell’erede maschio. Il giubilo e il sollievo alla nascita di Aleksej nel 1904 erano stati immensi, ma di breve durata.
L’erede al trono era condannato. La zarina aveva riconosciuto i segni della malattia, che aveva ucciso suo fratello, suo zio e suo nipote, e tormentata dai sensi di colpa ha dedicato il resto della sua vita a cercare una cura per salvare il figlio, rivolgendosi tra l’altro al celebre Rasputin. La famiglia imperiale però non poteva dimostrarsi vulnerabile, e quindi la malattia dell’erede al trono diventò un segreto di Stato.
L’idea della mostra è nata quando una ricercatrice russa, rovistando negli archivi dello Science Museum, ha scoperto una scatola dimenticata che conteneva 22 album di fotografie di Herbert Galloway Stewart, insegnante di inglese della famiglia imperiale che ha vissuto con loro tra il 1908 e il 1918.
Le foto assolutamente inedite presentano un’immagine dei Romanov molto diversa dalla rigida formalità delle foto ufficiali della Corte. Sono immagini di vita familiare serena e rilassata, che mostrano la tenerezza con cui lo zar prende in braccio il figlio o l’evidente complicità tra sorelle.
Lo Science Museum affronta il tema con un rigore degno del suo nome, ma non trascura l’aspetto umano. «Con questa mostra vogliamo aprire la vostra mente e spezzare il vostro cuore», ha dichiarato il direttore del museo, Ian Blatchford.
Alcuni oggetti in mostra, mai usciti prima dalla Russia, spezzano il cuore. L’abito premaman di seta e pizzo di Aleksandra indossato nell’ultima gravidanza; la sedia a rotelle in vimini di Aleksej, che camminava con grande difficoltà; la croce di smeraldi della zarina, scheggiata da un proiettile la notte dell’eccidio.
Le uova di Fabergé illustrano forse più di ogni altra cosa il cambiamento nella vita della coppia imperiale. Per anni lo zar aveva regalato alla zarina un uovo-gioiello, tempestato di diamanti, rubini e smeraldi. Le ultime due uova, entrambe in mostra, non hanno nulla di frivolo o di lussuoso. L’uovo del 1915 è di smalto decorato con una croce rossa e contiene i ritratti di Olga e Tatiana nella loro uniforme di infermiere durante la guerra. L’uovo del 1916, l’ultimo regalato da Nicola ad Aleksandra, è militaresco, in umile acciaio, sostenuto da quattro proiettili, e la sorpresa al suo interno è una miniatura dello zar e del figlio in uniforme assieme ai loro ufficiali.
Dopo la rivoluzione, fu la riluttanza del Governo britannico a concedere esilio politico allo Zar –l’offerta fu revocata nell’aprile 1917 - a segnare il destino di Nicola II e della sua famiglia.
Il legame britannico è continuato in anni più recenti. L’inchiesta ufficiale sovietica negli anni Venti era giunta alla conclusione che la famiglia imperiale era stata uccisa, ma dato che i corpi non erano stati ritrovati il dubbio sul loro destino era rimasto, un mistero alimentato dalla chiusura degli archivi sovietici. Quando i resti scoperti nelle vicinanze di casa Ipatiev sono stati esumati nel 1991 è stato chiesto al medico legale inglese Peter Gill, massimo esperto di genetica forense, di esaminarli. Non era un compito facile. I bolscevichi avevano fatto di tutto per non lasciare tracce: i corpi erano stati fatti a pezzi e dissolti nell’acido.
«È stata la prima volta che il Dna è stato usato per risolvere un mistero storico», ricorda Gill, che da frammenti di osso ha individuato il profilo genetico analizzando il Dna mitocondriale trasmesso per via materna. Il confronto con il Dna di discendenti diretti, tra i quali il principe consorte Filippo, non ha lasciato dubbi. I resti erano quelli dello zar, della zarina e di tre figlie. Nel 2007 sono stati trovati altri resti e Gill è stato richiamato a esaminarli e confrontarli usando le ultime tecnologie. La sua conclusione è stata chiara: i resti erano quelli di Maria e di Aleksej – con tracce di emofilia B.
Il mito della granduchessa Anastasia miracolosamente sopravvissuta all’eccidio, alimentato da numerose pretendenti, da film e perfino da un cartone animato Disney, è appunto tale. Anastasia è morta assieme ai genitori, alle sorelle e al fratello. Le ultime tecniche di ricostruzione facciale hanno permesso di ricreare i volti dei Romanov, che fanno parte della mostra assieme ai macchinari utilizzati da Gill.
La scienza ha risolto il mistero ma la storia continua a non avere un lieto fine. Nel 1998 i resti di Nicola, Aleksandra, Tatiana, Olga e Anastasia sono stati seppelliti con grande cerimonia nella cattedrale di San Pietro e Paolo a San Pietroburgo. I resti di Aleksej e Maria, invece, non sono stati ancora seppelliti perché la Chiesa ortodossa russa mette in dubbio la loro autenticità e non accetta le conclusioni di Gill. I sette membri della famiglia imperiale, che in vita sono stati così legati fino all’ultimo istante, a un secolo dalla morte sono ancora separati.

Il Sole Domenica 4.11.18
Milano. Il Mudec (Museo delle culture) ospita una rassegna di lavori del grande maestro che evidenziano i suoi interessi per l’etnografia e per le civiltà preclassiche e anticlassiche
Le fonti «primitive» di Klee
di Ada Masoero

Paul Klee. Alle origini dell’arte. Milano, Mudec Museo delle Culture, fino al 3 marzo

Figlio di due musicisti, Paul Klee (1879-1940) era a sua volta un ottimo violinista, ma anche un poeta e un eccellente disegnatore e incisore, a lungo incerto sulla strada da prendere. Fu solo durante il viaggio in Tunisia del 1914, che fece la sua scelta. Sul diario scrisse che lì, immerso in quella luce, si sentì dominato dal colore: «Non ho bisogno di tentare d’afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Se la folgorazione del colore fu per lui inattesa, quel viaggio era invece stato programmato per conoscere da vicino una cultura visiva diversa da quella, forbita, lustra e antiquata, diffusa allora in Europa dalle Accademie. Gli artisti più radicali (quelli che avrebbero dato vita alle avanguardie del primo ’900, ma già qualche pioniere della generazione precedente) andavano in cerca di uno sguardo fresco, non inquinato dalla nostra tradizione. E se pochi di loro, come Gauguin, che arrivò sino alle Isole Marchesi (dove morì nel 1903) o Kandinskij, che si spinse a centinaia di chilometri da Mosca, fra popolazioni di cultura finnica, poterono compiere viaggi tanto rischiosi, tutti invece andavano “in pellegrinaggio” nei musei etnografici delle loro città, dal Musée du Trocadéro di Parigi, la cui sezione africana era battuta da Picasso e dagli altri cubisti, ai non meno celebri musei delle città tedesche, di cui gli espressionisti germanici erano frequentatori assidui. I reperti di arte africana, polinesiana, precolombiana, oltre ai libri su quelle culture che, in epoca coloniale, uscivano sempre più numerosi, offrivano loro codici visivi incontaminati, definiti allora “primitivi”. E il “primitivismo” divenne lo strumento per creare un’arte radicalmente nuova.
Quanto a Klee, che conosceva bene la storia dell’arte europea, concepì una sorta di “primitivismo” dilatato, esteso anche ai linguaggi preclassici, o anticlassici, dell’arte occidentale, come le miniature dei codici bizantini e medievali o le stesse incisioni di Dürer: la sua fu dunque la ricerca di un “primordio” espressivo più che di un “primitivismo” etnografico (che comunque esercitò anche su di lui un’intensa fascinazione).
Da quest’assunto si sono mossi Michele Dantini e Raffaella Resch, curatori della mostra che il Comune di Milano e 24 Ore Cultura-Gruppo 24 Ore gli dedicano al Mudec, il museo delle culture del mondo. Un compito arduo, il loro, per la polisemia e la stratificazione simbolica di cui Klee intesseva i suoi lavori, che talora rendono sfuggente (ma forse anche più stimolante) l’accostamento alle fonti.
Nell’allestimento di Cesare Mari-Panstudio (che evoca con eleganza quello di Carlo Scarpa per la prima monografica italiana di Klee, alla Biennale di Venezia del 1948), un centinaio di sue opere, alcune delle quali mai esposte in Italia, divise in quattro sezioni e accompagnate da edizioni coeve di libri sulle arti “primitive” che sicuramente egli lesse, dai disegni che acquistò in Tunisia (fonti evidenti delle sue future, volatili Città) e da preziosi pezzi delle collezioni etnografiche del Mudec, permettono di rileggere il cammino, meditato ma tutt’altro che lineare, che egli percorse nel suo personalissimo omaggio alle arti non europee e ai linguaggi occidentali eterodossi e antiaccademici, come la caricatura e il grottesco. Ed è proprio con le caricature del ciclo delle Inventionen, con le maschere deformi, con i dèmoni e le figure chimeriche realizzate in gioventù, che si apre la mostra. Di qui ci s’inoltra nel periodo dell’«illustratore cosmico», quando, all’approssimarsi della Grande guerra, Klee (come altri intellettuali monacensi) volle incarnare il ruolo di mistico e veggente, ponendosi come tramite tra il reale e la dimensione spirituale. Gli vennero allora in soccorso le miniature bizantine e medievali e le incisioni di Albrecht Dürer di cui, in un autoritratto a matita, cita la Melancholia, mentre si moltiplicano i temi prediletti dell’occhio veggente e dell’angelo annunziatore. Dalle antiche civiltà Klee trasse anche alfabeti, reali o d’invenzione, e figurette ridotte a semplici sigle, con cui compose un proprio alfabeto cifrato ed enigmatico, oggetto della terza sezione. Da ultimo, ecco il confronto con i reperti del Mudec, fra i quali un raro drappo peruviano intessuto di piume di pappagallo, del VI-VIII secolo, e preziose maschere africane, del tutto simili a quelli che Klee vide nei musei tedeschi, sui libri, o sulle pagine dell’«Almanacco del Cavaliere Azzurro», cui collaborò. Così come, su quelle stesse pagine, condivise l’adesione a un’altra fonte di arte “primaria” qual è il disegno infantile. Accompagnate da una videoinstallazione di camerAnebbia (nelle sale precedenti si aprono invece tre “finestre animate”, di Storyville), ecco allora le marionette che l’artista realizzò per il figlio Felix con i materiali più umili e disparati. Il percorso si chiude però con i lavori astratti per cui tutti lo conosciamo. E qui la mostra cala autentici assi, allineando una serie di opere non solo magnifiche ma raramente, o mai, viste in Italia.

https://spogli.blogspot.com/2018/11/corriere-la-lettura-4.html