Corriere La Lettura 25.11.18
Lo scisma degli ortodossi
Il
Concilio annuniato n Ucraina rischia di determinare una rottura
traumatica fra il patriarca di Costantinopoli, che ha un primato d’onore
in quella confessione, e il patriarca di Mosca che vanta il maggior
numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogoverno
«autocefalia» della autorità ecclesiastiche schierate con Kiev
di Marco Ventura
È
annunciato per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che
cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre
maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcato di Mosca, circa
il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo
ucraino presiedute rispettivamente dal patriarca di Kiev Filarete e dal
metropolita Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che
l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, primo
tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e
Macario alla comunione con le altre Chiese.
Tecnicamente non è il
«riconoscimento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa
internazionale. Costantinopoli ha invece preannunciato in un comunicato
del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si
riconoscerà il diritto all’autogoverno, l’«autocefalia» ortodossa,
della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il
Patriarcato di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica
Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversata la linea rossa», ha
dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di
«catastrofe» e di rischio che si interrompa la comunione eucaristica tra
Mosca e Costantinopoli.
Il conflitto ucraino ha gli ingredienti
delle grandi storie di religione e potere. I protagonisti si sfidano in
ambizione e avidità: ricattano e comprano, sussurrano e gridano,
trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano
tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio
di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma
peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisce
proprietà e finanze, popolazione e cariche, ricchezza economica e
politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolarmente cruciale.
Dalla
sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantinopoli ha un primato
di onore e non di giurisdizione. Le Chiese sono autocefale, hanno
ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è
concepito come diviso in fette controllate dall’una o dall’altra Chiesa.
Il territorio canonico è un sofisticato congegno teologico e giuridico
il cui funzionamento implica una feroce lotta contro ogni rivale interno
al mondo ortodosso ed esterno ad esso, specie cattolici e musulmani. La
coesistenza nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di
un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo
principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio.
Le condizioni in
cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso
contraddetto il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e
serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto
governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è
stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si
disfaceva e si ricomponeva, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in
riferimento a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazione
digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico
ed ecclesiastico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita
quanto più lontana dalla realtà.
Dopo il crollo del comunismo, gli
ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutto contro i nemici atei e
musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva
sotto le bombe degli occidentali secolarizzati e dava battaglia in
Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanistan, dal Kashmir e
dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani
ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitico
degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non
accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto
costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei
russi che, dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei
musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della
popolazione russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza
sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria.
Il grande
scontro con l’islam di cui sono stati protagonisti gli ortodossi ha
lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia
tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il
1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e
Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una
guerra tra cristiani. Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno
in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa
confessione, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero
ortodossi. La pace intervenuta successivamente, negli stessi mesi degli
accordi che misero fine al conflitto nordirlandese tra cattolici e
protestanti, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili. Se
c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come
«violenze tra cristiani», il loro tempo era finito.
A vent’anni di
distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale,
ha nuovamente sfidato la convinzione che la violenza religiosa
contemporanea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia
negli anni Novanta, e con una magnitudine enormemente maggiore,
cristiani hanno ucciso cristiani; addirittura, cristiani ortodossi hanno
ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo.
Il conflitto
tra patriarchi e Chiese ortodosse in Ucraina mette allora davanti a un
bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere
politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservatori. Si
inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopio
sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco
irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a
Costantinopoli, i serbi tradizionalmente amici di Mosca. Ecco i governi
mettere mano al portafoglio: a Kiev per strappare qualche vescovo al
Patriarcato di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo
del Consiglio interreligioso; a Mosca per boicottare l’imminente
Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse
naturali e la diplomazia internazionale, l’Unione Europea, la Nato.
Solletica,
questo modo di leggere la crisi ecclesiastica ucraina, ma resta in
superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa
internazionale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un
inesistente «riconoscimento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca
di Costantinopoli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio.
Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande
questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi
10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi
delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i
cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di
responsabilità, impotenti; in balia della politica e dell’economia,
locali e globali.
Ecco il punto. Il processo che condurrà al
Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e
altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbaglierebbe, in
proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle
decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in
pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in
Africa, cercano il proprio posto nel futuro.