Corriere La Lettura 25.11.18
L’intesa tra Cina e Vaticano turba Taiwan
L’isola teme di essere abbandonata dalla Santa Sede
di Marco Del Corona
Si
chiude una piaga, forse, e, forse, un’altra se ne apre. Se la Cina
cesella per anni con la Santa Sede un’intesa sulla nomina dei vescovi
(«per la prima volta dopo tanti decenni tutti i vescovi in Cina sono in
comunione con il vescovo di Roma», ha chiosato Pietro Parolin,
segretario di Stato) e se il Papa si commuove accogliendo alcuni vescovi
della Repubblica Popolare al sinodo di ottobre, Taiwan fa i conti con
nuove inquietudini, per quanto preventivate. Religione e politica si
mescolano e si sovrappongono tra Pechino e Taipei, tra il governo
comunista, nato dalla rivoluzione di Mao Zedong, e quello della
Repubblica di Cina, confinato nell’isola di Taiwan dopo la sconfitta dei
nazionalisti di Chiang Kai-shek nel 1949.
Il Vaticano, infatti,
intrattiene tuttora relazioni diplomatiche con Taiwan, non con quella
Repubblica Popolare che nel 1971 ha ottenuto il seggio all’Onu ai danni
dei rivali. E il Vaticano è l’unico Paese europeo a farlo, mentre le
altre 16 nazioni che riconoscono Taipei e non Pechino come governo della
«sola Cina» sono sparse fra America Latina, Africa e Oceania. La
dizione «Repubblica di Cina (Taiwan)» è dunque un’audace foglia di fico:
indica un’isola che è de facto indipendente senza poterlo dichiarare —
pena la reazione di Pechino che la considera l’ultima provincia ribelle —
e senza voce nelle organizzazioni multilaterali, schiacciata del
categorico veto di Pechino.
In questo contesto l’intesa fra
Vaticano e Pechino, per quanto «pastorale e religiosa», lascia intuire
un percorso che in un indistinto futuro potrebbe sfociare in relazioni
diplomatiche. Taipei resterebbe senza il più potente dei suoi alleati
diplomatici (per quanto solidi trattati la leghino agli Stati Uniti). A
Taiwan non se lo nascondono ma cercano di tenere il punto. «Abbiamo
contatti stabili con la Santa Sede, il suo accordo con la Cina comunista
ha una natura pastorale e non tocca le relazioni diplomatiche con noi»,
assicura a «la Lettura» il ministro degli Esteri, Joseph Wu Jaushieh,
in un incontro che si svolge sotto un benevolente ritratto di Sun
Yat-sen, fondatore nel 1912 della Repubblica di Cina. «Il Vaticano —
aggiunge — è molto onesto nel tenerci informato su quanto accade. E c’è
del buono: se c’è la possibilità di migliorare le condizioni dei
cattolici in Cina ne siamo felici. È un tema che ci preoccupa molto,
negli ultimi due anni la situazione era peggiorata sensibilmente, con
chiese distrutte, una più intensa persecuzione». Non tocca solo ai
cristiani: il ministro aggiunge infatti che «pensiamo anche ai musulmani
del Xinjiang» — nei confronti dei quali le autorità di Pechino stanno
attuando una politica repressiva che ha provocato la reazione di diversi
organismi internazionali e, recentemente, un’allarmata lettera di
diversi ambasciatori europei — e «ai buddhisti del Tibet».
La
prospettiva taiwanese è pragmatica. «Vogliamo lavorare con il Vaticano —
ci dice ancora Wu —per assistere chi ha bisogno, un impegno che ci
viene riconosciuto». Soprattutto, però, «vediamo che con la Santa Sede
le nostre relazioni non cambiano, restano relativamente stabili.
Desideriamo che i cattolici in Cina abbiano le stesse tutele e libertà
di cui godono qui a Taiwan. E l’accordo con Pechino è temporaneo, vale
due anni: vediamo come si sviluppano le cose e come il Vaticano
giudicherà la situazione dei cattolici».
La questione rivela con
particolare nettezza gli equilibrismi cui è condannata Taiwan, dove
adesso governa il Dpp, il partito democratico-progressista che, dal
2000, si alterna al potere con i nazionalisti del Kuomintang. La linea
della presidente Tsai Ing-wen, ribadita dal ministro Wu, è quella del
mantenimento dello status quo: resistere alle lusinghe e alle minacce di
Pechino (che persegue l’obiettivo dell’unificazione), tutelare gli
investimenti taiwanesi sulla «madrepatria», cercare di strappare qualche
forma di riconoscimento internazionale più consistente della visita di
Stato del presidente dell’arcipelago di Palau, come appena avvenuto.
«Abbiamo diritto di entrare nella Wto, abbiamo diritto di avere voce
nell’Organizzazione mondiale della sanità», ribadisce Wu. Ma, al di là
dello Stretto di Taiwan, l’intraprendenza di Pechino è sempre più
complicata da gestire. Il Dpp denuncia le interferenze («altro che la
Russia in America») nelle elezioni amministrative che si svolgono oggi,
domenica 25, mentre nel Kuomintang si fanno spazio posizioni
pro-Pechino. La partita sino-vaticana — inevitabilmente
politico-diplomatica per Taiwan — incombe. E il governo di Taipei, che
ha visto in pochi anni calare da una trentina a 17 i Paesi che lo
riconoscono (gli altri hanno preferito allinearsi a un Paese da quasi un
miliardo e 400 milioni di persone, non a uno da 23 milioni), resiste
alla tentazione di ingaggiare una gara con Pechino su chi fornisce più
aiuti: «Competizioni di questo tipo non hanno senso».