Corriere La Lettura 25.11.18
L’ex ospedale psichiatrico di
Maggiano dove il medico scrisse «Le libere donne di Magliano» hariaperto
le porte una domenica di novembre, tra le ombre di pazienti che in
queste stanze hanno vissuto. E soltanto in queste stanze
Tonia è stata qui. Anche Ettore
Gli ultimi fantasmi di Tobino
di Elisabetta Rosaspina
Tonia
è stata qui. Il suo nome è l’unica traccia rimasta del suo passaggio,
in questo luogo e in questa vita, incisa con mano malferma e ostinata in
una lastra di marmo, davanti all’ingresso della cappella. Consumata dal
tempo, ormai la sua firma è visibile soltanto a chi già ne conosce
l’esistenza e, con il polpastrello, sa dove rintracciarne il solco
sottile. Non è difficile immaginarsela, Tonia, persa in un mondo tutto
suo mentre, accovacciata a terra e avvolta nella sua palandrana, si
dedica con concentrazione all’importante compito che si è data per
lasciare a chi verrà qualcosa di sé.
Ettore se n’è andato l’anno
scorso. È morto qui. Dopo aver trascorso fino all’ultimo giorno dei suoi
68 anni nel fortilizio di Maggiano, anche dopo esserne stato, per
legge, allontanato e aver cercato di integrarsi in città. Non era matto,
raccontano quasi commosse, durante le visite all’ex manicomio, le guide
della onlus di Volterra «Inclusione, graffio e parola». Perlomeno non
lo era alla nascita «figlio dello scandalo», quale poteva essere al
tempo la relazione fra una ragazza della Garfagnana e uno dei 15 mila
Buffalo soldiers, i «soldati bisonte», com’erano soprannominati — in
ricordo dei loro antenati nella guerra di secessione — i militari
afroamericani della 92ª divisione, che era entrata per prima a Lucca nei
giorni della Liberazione. Semmai Ettore è diventato problematico dopo,
crescendo recluso nell’unico, per lui rassicurante, domicilio che ha
conosciuto, immerso nel verde e isolato da alte mura invalicabili che
dovevano escludere per sempre, lui e la sua pelle mulatta,
dall’impressionabile vista della gente perbene.
Mescolati ai
gruppi che si aggirano oggi nelle sale e nei cortili dell’ex ospedale
psichiatrico, di cui lo scrittore-medico Mario Tobino fu primario per
quarant’anni e direttore controvoglia per uno, c’è talvolta un’ex
degente, come «l’Armida», che si svela, emozionata: lavorava in
sartoria, cuciva le lenzuola, le tende, le divise per i pazienti.
Talvolta qualche infermiere, in pensione o in incognito, condivide con
una punta d’orgoglio il suo patrimonio personale di ricordi:
«Quell’abete, lì nel chiostro della divisione maschile, era
soprannominato dai malati l’albero di Natale». E sì, quella strana
scacchiera scolpita con perizia sulla balaustra di pietra che delimita
il porticato, è proprio opera dei matti: li rivede, seduti a cavalcioni
sul basso muretto, passare le ore giocando.
Gli uomini erano una
minoranza, nel vecchio «ospedale de’ pazzi» di Lucca; e, infatti, è
dedicato a Le libere donne di Magliano il più bel libro che Tobino
consacrò al luogo, cambiando discretamente una g in l, per sfumare la
realtà nelle pagine del suo racconto. D’altronde esplicito e puntuale,
come un diario: «La mia vita — scrisse all’inizio degli anni Cinquanta —
è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui
sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella
mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li
amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino
a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni
grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare».
Poco
è cambiato, in questi ultimi sessant’anni, nelle spesse mura di
Maggiano. Ma nulla è più come prima. Tobino è scomparso alla fine del
1991 e, otto anni dopo, in ossequio alla legge Basaglia del 1978 (e in
notevole ritardo sulle ingiunzioni arrivate da Roma a metà degli anni
Ottanta), gli internati cominciavano a non essere più tali, almeno
formalmente. Dovevano andarsene, volenti o (più spesso) nolenti, ed
erano immancabilmente rifiutati da genitori e fratelli, se ne avevano
ancora, incapaci di gestirne le esigenze e le intemperanze: «Molti
misero in atto le loro tendenze suicide — si rammarica Isabella Tobino,
nipote dello scrittore (suo padre, Pietro, era il fratello minore) e
presidente della Fondazione Mario Tobino — ma a Lucca funzionano bene le
adozioni etero-famigliari, per fortuna. Adesso ci sono le
case-famiglia, i centri diurni, i laboratori, le cooperative per l’arte
terapia e per il teatro». Frequentato dal 1999, dopo la chiusura,
soltanto da qualche fantasma del passato, come Ettore, l’ospedale
psichiatrico di Maggiano, sul colle di Santa Maria delle Grazie a sette
chilometri da Lucca, è stato abbandonato alle intemperie e saccheggiato
di tutto quanto potesse avere valore sul mercato antiquario: libri,
arredi, perfino i letti a baldacchino delle suore, le Figlie della
carità di San Vincenzo de’ Paoli, con le loro cuffie bianche «ad ali di
pipistrello», scherza una delle guide.
Si sono salvate, trasferite
all’Ospedale Campo di Marte a Lucca, due delle grandi vasche bianche di
marmo dove, nell’Ottocento, si raffreddavano con l’acqua gelida i
bollenti spiriti dei ricoverati in quella che, eufemisticamente, si
definiva balneoterapia. La luce naturale entra dalla cupola nel grande
locale semicircolare e piastrellato d’azzurro, adibito alla «cura» come
un sinistro hammam; e che era diventato, già all’epoca di Tobino, la
cucina della divisione femminile. Qui si preparavano i pasti per tutta
la popolazione del manicomio: 1.400 persone, nell’immediato dopoguerra.
Erano meno di un decimo, quando Maggiano chiuse i battenti.
Sette
anni dopo, nel 2006, i nipoti di Tobino hanno creato la Fondazione con
sede a Palazzo Ducale, a Lucca, e l’allora presidente della Provincia,
Andrea Tagliasacchi, è riuscito a ottenere dai fondi del Lotto le
risorse necessarie per ristrutturare almeno Casa Medici, la palazzina
dove un tempo alloggiavano i dottori di guardia nel manicomio, e dove
nel 2011 si è trasferita la Fondazione Mario Tobino. Mancava poco perché
diventasse, come nelle intenzioni della sua famiglia, «un luogo della
memoria». Finalmente lo è.
Accessibile al sabato mattina e in
occasioni speciali al pubblico, l’ex manicomio è stato visitato a marzo,
nelle due giornate di porte aperte del Fai, da 8 mila persone. Un
successo inatteso. Domenica 18 novembre si erano prenotati sei gruppi da
40 visitatori ciascuno. Il percorso guidato costeggia solo esternamente
l’immenso padiglione, dal tetto sfondato e dalle pareti pericolanti,
dov’erano le camerate-dormitorio e le tremende «celle all’alga». «Erano
stanzette di due metri per due — le descrivono le guide, cercando di non
indulgere in dettagli raccapriccianti — e i pavimenti erano ricoperti
da materassi di alghe marine e le luci erano incassate dietro una
griglia, perché la malata non potesse ferirsi con nulla». Nei suoi
accessi di follia, veniva rinchiusa, nuda e libera di sfogarsi,
scaraventare in aria le alghe, frantumarle, trasformarle in coriandoli.
Quando infine si tranquillizzava, la massa di alghe diventava il suo
giaciglio, la coperta con cui rivestire la sua nudità, in un ritrovato
pudore. La detenzione poteva durare un mese o pochi giorni, come «la
bellissima ragazza di Livorno» descritta da Tobino, «alta, bruna, il
corpo duro-michelangiolesco, bella e furente nella chioma nera e
nell’espressione del volto»: «Arrivò in manicomio con tale agitazione
che si dovette subito rinchiuderla in cella, dove nuda fece dell’alga
dei raggi sensuali e semidivini. Poiché aveva smesso di mangiare e la
dovetti alimentare notai che aveva preso un odore ferino, come in lei
tutto ormai fosse confuso: bestia e dea».
Si può entrare nel
vecchio laboratorio artistico, ma sbirciare solo a distanza il «cortile
delle agitate», il prato dove deambulavano le ricoverate sconvolte, sì,
ma meno feroci, «poiché non aggrediscono o se picchiano lo fanno non di
frequente» valutava Tobino. In compenso urlavano incessantemente, a
discapito degli ospiti di maggior riguardo, alloggiati nella casetta
gialla dirimpetto: «Era il reparto — spiega la guida — delle persone di
un certo livello, intellettuali, scrittori che attraversavano momenti di
angoscia o depressione». Non fa nomi, vige anche a distanza di anni la
protezione della privacy, ma tra loro probabilmente ci fu Lorenzo Viani,
artista viareggino scomparso nel 1936: fu amico dello storico direttore
di Maggiano, lo psichiatra Guglielmo Lippi Francesconi, trucidato dai
nazisti perché non era allineato con le direttive del regime e,
soprattutto, perché sospettato di aver dato rifugio a ebrei e
partigiani.
L’ex eremo cinquecentesco dei frati canonici della
Congregazione di Santa Maria di Fregionaia vide modificarsi nei decenni i
metodi e gli strumenti dell’«ospedale dei pazzi», attivo dal 1773. Un
campionario relativamente recente è esposto nel piccolo museo allestito
al primo piano di Casa Medici: strumenti chirurgici e di contenzione, un
apparecchio per l’elettrochoc, il carrellino delle cure o «delle
torture», come li considerava Tobino nella sua raccolta di racconti
intitolata Per le antiche scale. Le camicie di forza, a Maggiano,
caddero in disuso: «Qui si preferiva un lenzuolo, trattenuto ai lati da
due infermieri. Il paziente era così sotto controllo, ma poteva ancora
muoversi», riferisce la guida.
L’arrivo del rimedio chimico nel
1952, quando si allontanò finalmente l’era spaventosa delle lobotomie,
non parve a Tobino, figlio di farmacista, la miglior soluzione: «Vennero
le guarigioni. Certo, con gli psicofarmaci — esponeva a Corrado Stajano
in un articolo pubblicato il 13 maggio 1990 sul “Corriere della Sera” —
si attutivano le personalità. C’era una ragazza di Viareggio che nel
cortile del manicomio, specie nella buona stagione, saliva sugli alberi e
volava da un ramo all’altro come una marinara. “Via, scendi, non ti
credere di essere a bordo, le dicevo. Figlia di un calafato famoso,
piena degli echi del mare, era felice in quei momenti. Con il Largactil
diventò un’altra. Passava le giornate al chiuso del reparto, sonnolenta,
la testa curva. E io mi dicevo: “Le ho tolto la gioia di quella che
avrebbe dovuto essere la sua vita”».
Neanche la legge Basaglia,
però, lo convinse. Non tanto perché volesse mantenere i manicomi, ma
perché non esistevano strutture alternative per accogliere i suoi
malati, molti dei quali, lasciati a loro stessi, «abbracciarono la
morte»: «Cari amici, addio, non vi ho saputo né proteggere né
vendicare».
Il suo studio è rimasto com’era: il suo camice ancora
appeso dietro la porta, lo scaffale con le prime edizioni dei suoi
libri, la poltrona che gli aveva regalato Paola Levi, moglie separata di
Adriano Olivetti e compagna di vita, la macchina per scrivere sullo
scrittoio, il letto, i biglietti da visita e una moltitudine di ricordi
dei quali la nipote Isabella conosce l’origine: «Questo non è mai stato
per me un luogo di dolore. Era un luogo per poveri, i ricchi avevano le
cliniche. Quando ero bambina era il posto delle bambole di legno
intarsiate o delle barchette con le vele, per mio fratello, fabbricate
dai malati di cui lo zio non ci parlava mai».