domenica 18 novembre 2018

Corriere La Lettura 18.11.18
C’è una «storia deviata» su Gramsci e Togliatti
Alcuni autori di sinistra sottovalutano i fatti che dimostrano la forza del legame tra i leader del comunismo italiano e il blocco sovietico.
Per esempio il modo in cui i bolscevich misero il futuro autore dei «Quaderni» a capo del Pci negli anni Venti.
E soprattutto l’appoggio di Togliatti, dopo la denuncia dei crimini di Stalin, alle scelte repressive del Cremlino e alla parte conservatrice del suo gruppo dirigente
di Federigo Argentieri


Il recente libro di Angelo d’Orsi sulla vita di Gramsci e quello di Giuseppe Vacca su Dc e Pci dal 1943 al 1978 rappresentano un buon punto di partenza per affrontare il tema dell’attività svolta dall’Istituto Gramsci nell’ambito della storiografia italiana. In generale, si può dire che il livello delle pubblicazioni è vario, che sono stati affrontati alcuni temi scomodi precedentemente ignorati, ma che alcuni altri continuano a non essere trattati: ciò fa trapelare un serio residuo ideologico, contrario all’approccio privo di alcun pregiudizio che è buona norma mantenere.
Il primo nodo finalmente sciolto (dopo «appena» novant’anni) riguarda un incontro tra Gramsci e Lenin, svoltosi al Cremlino il 25 ottobre 1922 alle 18, alla sola presenza dell’interprete, e durato oltre due ore. Ad esso d’Orsi dedica una pagina scarsa, riferendo che in precedenza era stato menzionato in un saggio di Maria Luisa Righi e nel libro del nipote di Gramsci, Antonio jr., sulla sua famiglia. L’italianista russa Natalia Terekhova rileva che tale incontro non compare nella cronologia online della International Gramsci Society: ma infatti che importanza storica può avere un incontro tra Gramsci e il massimo leader sovietico, all’epoca già malato, ma ancora in pieno possesso delle sue facoltà?
Si apprende poi che la dirigente comunista Camilla Ravera era al corrente di questo colloquio e del suo contenuto e lo aveva menzionato in una lettera a Giuliano Gramsci (figlio di Antonio), pubblicata però solo nel 2012 e non inclusa nella prima edizione del suo Diario di trent’anni uscito nel 1973. In compenso, Antonio Gramsci jr. ci informa che la fonte relativa all’incontro tra Lenin e Gramsci risale a un volume pubblicato in Urss nei primissimi anni Settanta. Pertanto si può dire che il ritardo sia di «solo» quarant’anni e non di novanta, ma non sarebbe stato il caso di intervistare la stessa Ravera su quanto Gramsci le aveva raccontato a caldo? E perché sottovalutare ancora oggi un incontro così importante? Forse per evitare di dire che Gramsci fu nominato a capo del Partito comunista d’Italia dai bolscevichi russi?
Un altro evento completamente trascurato riguarda la profonda e giustificata irritazione di Gramsci, nel 1924 fondatore e primo direttore dell’«Unità», nei confronti della disinvoltura (a dir poco) manifestata dal primo ambasciatore sovietico a Roma, Konstantin Jurenev, dopo il delitto Matteotti: nel luglio 1924, quattro mesi dopo il suo arrivo a Roma e un mese dopo la scomparsa del deputato socialista (poi ritrovato cadavere in agosto), costui invitò a pranzo Mussolini, invito rinnovato e anch’esso accettato il 7 novembre per festeggiare il settimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre. Era evidente che i due regimi, in procinto di diventare totalitari, si piacevano «a prescindere», come ulteriormente dimostrato anni dopo con la firma, avvenuta il 2 settembre 1933, del «Trattato italo-sovietico di amicizia, non aggressione e neutralità».
Passando alla storiografia sul secondo dopoguerra, accanto a studi interessanti ad esempio sui rapporti Pci-America latina, così come utile è quello sulla battaglia di Guadalajara del 1937, bisogna segnalare altre notevoli contorsioni logiche e/o silenzi tombali intorno a problemi delicati. Il libro di Valerio Riva Oro da Mosca sui finanziamenti sovietici resta un tabù assoluto, in particolare la nota di Boris Ponomariov del 4 dicembre 1956 in cui si faceva stato del versamento, durante quell’anno, di 2 milioni e mezzo di dollari al Pci, di 500 mila al Psi e di 250 mila alla Cgil. Quale credibilità può avere una storiografia che prescinde da questo dato strutturale relativo a un anno cruciale?
Altri sono tabù più relativi, come ad esempio il racconto del colloquio tra Iosif Stalin e Palmiro Togliatti nella notte fra il 3 e il 4 marzo 1944 (alla vigilia del ritorno in Italia del leader del Pci), fatto dall’ex segretario dell’Internazionale comunista Georgi Dimitrov nel suo diario. La decisione di far collaborare il Pci al governo Badoglio fu di Stalin, ma non bisognava dirlo: Togliatti eseguì alla lettera le direttive del Cremlino, ma i suoi idolatri esaltarono ed esaltano tuttora quella scelta come un suo «capolavoro». Poi ci sono le acquisizioni sulla rivoluzione ungherese del 1956, mai citate seppure recepite da Silvio Pons, citate ma respinte da Vacca. La lettera manoscritta di Togliatti al presidium del Pcus, redatta in un intervallo della riunione di direzione del Pci il 30 ottobre 1956 e giunta la mattina dopo ai destinatari in traduzione russa, può non aver avuto un ruolo decisivo nel far propendere il Cremolino per l’intervento armato a Budapest — furono più importanti le posizioni assunte da Mao e da Tito —, ma certamente incoraggiò ulteriormente e non poco i fautori della linea dura e lo stesso titubante Nikita Krusciov.
La richiesta di Togliatti a János Kádár di rinviare l’esecuzione di Imre Nagy, che aveva guidato il governo a Budapest durante la rivoluzione, a dopo le elezioni italiane del maggio 1958, accolta dal leader filosovietico ungherese, è pertinacemente ignorata da molti studiosi, così come la simultanea scandalosa delazione compiuta dallo stesso Togliatti nei confronti del filosofo György Lukács, il quale cercava di mobilitare gli intellettuali italiani a difesa di quelli ungheresi sotto processo. Un’altra richiesta, anch’essa accolta ed esposta in una successiva lettera manoscritta dell’aprile 1963 al segretario generale cecoslovacco Antonin Novotný, di non riabilitare prima delle imminenti elezioni italiane Rudolf Slánský, impiccato nel 1952, non viene presa in considerazione.
Altro tabù quasi assoluto è la relazione dell’italianista Genrikh Smirnov, interprete ufficiale del Pcus a partire proprio dall’estate del 1964, il quale nel 1998 a un convegno in Italia testimoniò direttamente come Leonid Brežnev avesse utilizzato il memoriale di Yalta, scritto da Togliatti poco prima di morire, per spodestare Krusciov: ne scrisse di sfuggita anni fa Adriano Guerra, ma per il resto silenzio assoluto, per evitare di affrontare un altro tema assai scomodo.
Conclusione: la storiografia riunita intorno all’Istituto Gramsci ha tuttora seri problemi a confrontarsi con le dure repliche della storia, nel suo persistente tentativo non tanto di restituire tutta la complessità e le tragiche contraddizioni di Gramsci, di Togliatti e del partito da essi ispirato e diretto, cosa che sarebbe di grande utilità, ma di separarli a forza e quasi disperatamente dall’esperienza sovietica e, nel caso di Togliatti, anche da quella degli altri Paesi «socialisti», così inventando un personaggio che non è mai esistito grazie ad un uso delle fonti assai disinvolto e paradossalmente simile a quello in uso in tali Paesi, non oggi, ma prima del 1989.