Corriere 18.11.18
Economia e governo
Il precipizio davanti a noi che si evita di vedere
di Ferruccio de Bortoli
Siamo
sull’orlo del precipizio ma il governo non sembra avvertirne il
pericolo reale. Sfida l’Unione Europea convinto di avere il vento del
consenso, persino della storia, a suo favore. Scommette e forse si
illude che un trionfo del voto sovranista alle prossime elezioni europee
possa mutare i rapporti di forza nell’Unione. Il potere inebria, specie
quando si hanno molti posti da spartire e non si è abituati a farlo.
Stordisce poi gli ultimi arrivati, emersi dal nulla. Una parte crescente
dell’Italia che produce e lavora teme di pagare un prezzo sanguinoso,
ingiusto. Di pagarlo più all’incompetenza e all’arroganza di qualche
ministro che al calcolo politico sovranista o populista di leader
spregiudicati. Ma questa consapevolezza del rischio, che mina già di
fatto la solidità dei nostri risparmi, non è ancora pienamente percepita
dall’opinione pubblica. Non si può vivere a lungo con uno spread oltre
quota 300. Quello che dovrebbe preoccupare di più poi è il differenziale
con la Spagna. Segnala tutta la nostra debolezza relativa. Come se
fossimo già tornati al 2011. Si riflette poco sulla probabile crisi di
alcuni istituti bancari che, ironia della sorte per l’attuale
maggioranza, potrebbero essere ancora salvati con il denaro dei
contribuenti. Se dovesse poi partire una procedura d’infrazione per
violazione della regola del debito, non reggeremmo all’onda speculativa,
specie se un’asta dei titoli pubblici andasse male e sorgessero
problemi di liquidità.
Andrebbe in frantumi anche l’alleanza
gialloverde. Poi fare la campagna elettorale sulle macerie di cui si è
responsabili sarebbe tutt’altro che semplice. L’Italia è oggi isolata in
Europa. Respinta anche da quei governi, Austria e Ungheria ma non solo,
che la Lega considera interlocutori naturali, alleati preziosi. Il
paradosso di questi giorni è che l’unico sottilissimo filo di trattativa
con la Commissione europea è teso dai due personaggi più presi di mira
dal verbo sovranista e populista: il presidente Jean-Claude Juncker e il
commissario agli affari economici Pierre Moscovici. Solo attraverso un
dialogo realista con loro, non necessariamente remissivo, si potrebbe
arrivare a qualche forma di compromesso. Semmai ancora sia possibile.
Il
ruolo più delicato lo ricopre, su questo fronte, il ministro
dell’Economia Giovanni Tria. Il suo arretrare da quella che appariva,
anche a lui non solo all’Europa, una soglia insuperabile del deficit
2019, ovvero l’1,6 per cento, ha indebolito al limite dell’irrimediabile
la sua credibilità. Appare un prigioniero di Salvini e Di Maio,
attestati nella difesa a oltranza di un ormai mitologico e irrealistico
disavanzo del 2,4 per cento. Un ostaggio rassegnato. Lui, personaggio
mite e misurato, si è dovuto convertire al linguaggio acrobatico della
politica muscolare che può permettersi di dubitare persino delle leggi
della fisica e della matematica. Costretto a rifugiarsi nell’inedita
formula di «défaillance tecnica» per dire che Bruxelles non sa far di
conto, inimicandosi così i suoi colleghi stranieri. Nonostante tutto,
siamo convinti che Tria sia un economista capace, un tecnico di valore,
ma soprattutto una persona seria e per bene. Ed è dunque a lui che molti
guardano aspettandosi un discorso di verità. Non un gesto di coraggio
per sfogarsi e andarsene. No, sarebbe dannoso per il Paese. Ma un esame
serio, giudizioso, e soprattutto pubblico, dei pericoli
dell’avventurismo cieco, del costo pluriennale della violazione alle
regole europee, questo sì. Lo dovrebbe sentire come un dovere morale. Ha
l’autorevolezza e la competenza per spiegare, in modo semplice e
comprensibile a tutti, il costo opportunità di alcune scelte politiche
che un Paese fortemente indebitato non può fare a cuor leggero.
Denunciare l’assalto dadaista in Parlamento per votare norme e normette
alla legge di Bilancio. Sempre più costose. Sottolineare la
contraddizione fra la voglia di un ritorno miracolistico dello Stato in
economia e la promessa, del tutto fantasiosa aggiungiamo noi, di fare 18
miliardi di privatizzazioni. E non sarebbe male se il mite Tria
trovasse anche il tempo di dire che i cosiddetti tecnici di area del
governo, ogni volta che parlano sognando a occhi aperti l’uscita
dall’euro, producono danni irreversibili. Rischierebbe il posto? Sì ma
farebbe chiarezza e aiuterebbe il Paese.
Nel settembre scorso,
durante il workshop Ambrosetti a Cernobbio, il ministro disse di temere
che il vantaggio di fare un po’ di deficit in più sarebbe stato
annullato dall’aumento del costo per gli interessi passivi sul debito. È
quello che sta puntualmente accadendo. La Commissione europea ha
chiesto, nei giorni scorsi, quali fossero i «fattori rilevanti» a
giustificazione di una maggiore spesa pubblica. I primi due riguardano
il raffreddamento del ciclo internazionale, complicato peraltro anche
dal caos sulla Brexit. Dunque, in un documento ufficiale, ammettiamo che
il quadro macroeconomico sul quale è stata formulata la manovra è
cambiato. In peggio. Ciò renderebbe urgenti interventi, ma più sugli
investimenti che sui sussidi. I dati negativi sulla crescita, la
produzione, l’andamento degli ordinativi dovrebbero suscitare qualche
saggio ripensamento sull’intero impianto della legge di Bilancio. Tria
dice ai suoi collaboratori di non credere che il reddito di cittadinanza
possa essere facilmente operativo nei prossimi mesi. Si spenderà meno
del previsto. Peccato che i mercati non lo sappiano. Forse ci illudiamo.
Ma avanti così il mite Tria rischia di passare alla storia per la sua
pavidità. E non lo merita.