Corriere 4.11.18
Cina, i diritti negati e il peso dei soldi
di Ernesto Galli della Loggia
Da
oltre un decennio non si contano le proteste e le critiche rivolte
dall’opinione pubblica italiana al governo degli Stati Uniti per la
prigione di Guantanamo. Cioè per la detenzione in quella base americana
nell’isola di Cuba di qualche centinaio (attual-mente credo solo qualche
decina) di persone di varie nazionalità gravemente sospettate di
appartenere a formazioni terroristiche islamiche: detenzione tuttavia
senza processo, e quindi a tutti gli effetti illegale secondo le buone
regole dello Stato di diritto. Anche per questo appare davvero singolare
il silenzio assoluto che invece ha accolto proprio in Italia la notizia
dell’inasprimento delle misure repressive già durissime e di pari
illegalità che il governo della Repubblica Popolare Cinese ha
recentemente deciso nei confronti degli Uiguri. Cioè di una popolazione
turcofona, musulmana sunnita, non di etnia Han, abitante nella regione
di confine dello Xinjiang, dove fino a poco fa essa rappresentava la
maggioranza, e la cui colpa, agli occhi di Pechino, è quella di voler
mantenere la propria identità.
Il governo cinese ha intrapreso da
tempo una politica di radicale snazionalizzazione della popolazione
uigura vietando le pratiche religiose, l’uso della lingua e ogni forma
di organizzazione autonoma, con relativo controllo poliziesco attraverso
la vigilanza sull’accesso a Internet e la diffusione in tutti gli spazi
pubblici di videocamere dotate di software avanzatissimo per il
riconoscimento facciale.
Vige inoltre l’obbligo per le famiglie
sospette di ospitare nel loro seno rappresentanti dello Stato per
soggiorni più o meno lunghi, e infine una serie di discriminazioni a
vantaggio degli immigrati Han il cui arrivo nella regione viene favorito
in ogni modo. Non bastando tutto ciò Pechino ha deciso l’installazione
nel Xianjiang di «centri chiusi di rieducazione politica», in realtà dei
veri e propri campi di concentramento, del cui numero è stato per
l’appunto annunciato di recente l’aumento: fino ad ospitare la cifra
spaventosa di un milione di persone. Ulteriore particolare
agghiacciante: la detenzione di un così alto numero di persone,
producendo un alto numero di bambini senza famiglia, ha portato
all’apertura di convitti dove essi vengono «educati» dallo Stato al fine
di rimodellare per così dire all’origine l’identità uigura.
In
tutto ciò non c’è nulla di particolarmente sorprendente. Il regime
cinese, infatti, non ha mai cessato di essere un regime totalmente
illiberale, nazionalista ed espansionista come pochi, intollerante di
ogni autonomia, avverso a qualsiasi libertà politica, religiosa,
sindacale, persecutore feroce degli oppositori politici e repressivo in
ogni suo aspetto (non a caso la Cina detiene il record mondiale delle
condanne a morte).
Ma dalla scomparsa di Mao in avanti la Cina è
guidata da una leadership di grande intelligenza politica. La quale ha
capito che i propri propositi egemonici a vastissimo raggio possono
essere portati avanti nel modo migliore lasciando da parte le vecchie
illusioni ideologiche legate al «comunismo» (il «comunismo» serve solo
all’interno per giustificare il potere assoluto del partito unico), e
puntando invece su altri mezzi. Innanzi tutto sull’influenza economica e
sul denaro. Due mezzi che con l’Occidente e non solo si stanno
rivelando efficacissimi. Un mercato gigantesco, un governo il quale, se
vuole, mette a disposizione tutto e se vuole finge anche singole
liberalità, che è pronto a gettarsi nei progetti più ciclopici e a
finanziare ogni iniziativa capace di allargare il proprio raggio
d’azione, che compensa più che lautamente gli ospiti e gli amici: è così
che la Cina afferma la sua egemonia mondiale. Ed è così che da anni
industriali, «creativi», professionisti, politici, stilisti,
intellettuali, personalità d’ogni genere provenienti dai Paesi
occidentali si recano speranzosi nel Celeste Impero, ne sono ospiti
entusiasti, stabiliscono relazioni, vi fanno affari, lo vezzeggiano in
ogni modo, vi tengono conferenze remuneratissime.
A questo punto a
chi volete che importi qualcosa degli Uiguri, dei diritti umani dei
cinesi, dei gulag e compagnia bella? E infatti come ho detto all’inizio
non importa a nessuno. Alla prova dei fatti questo sembra essere
l’attaccamento del nostro continente ai suoi valori. Viene quasi da
pensare che se a suo tempo non ci fossero stati né gli Usa né Pio XII, e
Stalin invece di schierare migliaia di carri armati, avesse aperto da
Stettino a Trieste una catena di discount, l’Europa sarebbe stata ai
suoi piedi.
Oggi, in realtà, la sua situazione non è molto diversa
da questa. Solo che adesso, al posto della sola Unione Sovietica
ritornata ad essere la Russia ci sono almeno altri due o tre grandi
centri di potere economico e quindi politico che premono su di noi
muovendosi con la massima spregiudicatezza. La Cina, appunto, e poi la
Russia, il mondo arabo (con il Qatar e l’Arabia Saudita in prima fila),
perfino la stessa Turchia di Erdogan, mostrano per chiari segni di
volersi avvalere delle loro risorse finanziarie e di ogni altro
strumento «pacifico» a loro disposizione per penetrare e condizionare in
un modo o nell’altro la nostra vita politica. Quanto i russi hanno
tentato di fare nel caso delle ultime elezioni presidenziali americane –
sull’esito effettivo si può discutere ma sul tentativo no – è l’esempio
di ciò che può accadere.
Bisogna guardare in faccia la realtà. Un
intero passato è oggi svanito. Per molti decenni la tensione etica
ereditata dagli anni della guerra mondiale e che caratterizzò pure il
confronto con il comunismo sovietico, la solidità politica e culturale
dei partiti cristiani e socialdemocratici allora egemoni, e diciamo pure
la vigilanza americana, valsero nella seconda metà del Novecento a
erigere una barriera invalicabile intorno alle classi dirigenti europee
occidentali. Assicurando la loro impermeabilità a lusinghe, seduzioni,
allettamenti del più vario tipo provenienti «dall’altra parte»; incluse
le seduzioni finanziarie: quando non proprio quello dell’arricchimento
personale quello ad esempio di generosi «contributi» elettorali.
Ma
questo passato è oggi svanito, ripeto. Oggi specialmente l’Europa
occidentale e i suoi regimi democratici appaiono sostanzialmente
indifesi davanti a un mondo esterno aggressivo e senza scrupoli il quale
ha grandissimo interesse a piegare le nostre democrazie ai propri
voleri. Innanzi tutto — come dimostra il caso della Cina — cancellando
la nostra capacità di critica nei confronti delle molte ignominie che in
esso si commettono.
Indifesa appare in particolare l’Italia, con
la sua porosità istituzionale, la sua classe politica perlopiù
improvvisata, la sua classe dirigente priva in generale di un forte
spirito nazionale e di una consistente moralità. Ormai ogni giorno
esponenti a vario titolo del nostro Paese percorrono a frotte i Paesi
delle tirannidi e del denaro — dalle regge del Golfo ai cremlini della
Moscovia e dell’Asia centrale ed estrema — ritornandone, guarda caso,
quasi sempre colmi di ammirazione. È permesso augurarsi che ci sia
qualcuno in grado di dare un’occhiata discreta a quello che combinano?