sabato 3 novembre 2018

Corriere 3.11.18
Vittorio Veneto senza retorica
L’Italia alla prova in guerra e pace
1918-2018 Oggi con il quotidiano un libro di Silvia Morosi e Paolo Rastelli sul primo conflitto mondiale
di Antonio Carioti


Il successo militare dell’autunno 1918 portò il tricolore a Trento e Trieste
Ma alla conferenza di Parigi la nostra delegazione commise gravi errori
Circola un’aria vagamente familiare nel libro 4 novembre 1918. Fu vera gloria? di Silvia Morosi e Paolo Rastelli, in edicola oggi con il «Corriere della Sera». Gli autori parlano di eventi successi cento anni fa, in ben altra situazione storica. Eppure qualche analogia sorge alla mente. Ricordano la situazione di oggi il gioco perverso degli egoismi nazionali, le recriminazioni reciproche tra diversi Stati e il rancore diffuso nelle popolazioni, alimentato da una parte delle classi dirigenti. Per l’Italia poi c’è anche un vizio antico: il vittimismo autoconsolatorio. Cresce il sospetto che i Paesi europei (ma anche gli Usa di Donald Trump) stiano dimenticando la lezione delle guerre mondiali. E dal lavoro di Morosi e Rastelli si possono trarre vari elementi per corroborare questa sensazione, soprattutto dal capitolo iniziale e da quello finale.
In mezzo ci sono le vicende conclusive della Prima guerra mondiale, ricostruite dagli autori in modo competente e attento, con l’assillo di separare i fatti dai miti. C’è da sfatare la leggenda eroica, enfatizzata a dismisura dal fascismo, che assegna al successo militare di Vittorio Veneto, nell’autunno 1918, una portata decisiva che in realtà non ebbe, dato che le forze austro-ungariche erano già logore e, dopo un’iniziale resistenza accanita, in pochi giorni si sfaldarono senza rimedio. Ma è opportuno anche smentire la versione limitativa, a volte interessata, di parecchi storici stranieri (ma non solo), secondo cui il fronte italiano non ebbe alcun rilievo nel quadro generale della Grande guerra e l’esercito asburgico, nei giorni dell’offensiva finale, era ridotto a una massa di sbandati ansiosi di arrendersi. Rastelli e Morosi hanno il merito d’inquadrare Vittorio Veneto nel contesto complessivo del conflitto, con l’unico approccio che permette di esprimere un giudizio equilibrato. Stiamo parlando di una lunga guerra di posizione, durata anni e contrassegnata dall’impiego massiccio di uomini e materiali: non possiamo valutarne le vicende con i criteri validi per le fulminanti campagne in cui era maestro Napoleone Bonaparte, solitamente concluse da una decisiva battaglia campale.
Fin qui la guerra. Ma i parallelismi possibili rispetto alla situazione odierna riguardano ovviamente il dopoguerra. Allora l’Europa aveva alle spalle un’immensa strage. Era un continente esausto e incollerito: non solo i vincitori tendevano a infierire sui vinti in modo miope e ottuso, ma nello stesso schieramento che aveva prevalso si manifestavano acuti contrasti.
Oggi l’Unione Europea è appena uscita (ma le ricadute non sono escluse) da una crisi economica lunga e dolorosa, che ha impoverito una parte consistente dei suoi abitanti, soprattutto nei Paesi più deboli, e vive con estrema apprensione, sconfinante a volte nell’isteria, il fenomeno migratorio che ne sta modificando la composizione etnica e demografica. Uno Stato importante come la Gran Bretagna l’ha appena abbandonata, aprendo un contenzioso su cui regna la più assoluta incertezza. La moneta unica, che doveva consolidarne l’integrazione, rischia invece di rivelarsi destabilizzante per le vistose asimmetrie tra i diversi sistemi economici. I problemi sono di gran lunga meno tragici rispetto al 1918, ma è simile la tendenza perniciosa degli Stati a chiudersi nel loro «sacro egoismo».
In tutto questo l’Italia appare il classico vaso di coccio tra quelli di ferro, più o meno come cento anni fa. Alla conferenza di pace, che si aprì a Parigi nel gennaio 1919, i nostri governanti andarono a pretendere il rispetto del patto di Londra, stipulato nell’aprile 1915, che gli eventi successivi della Prima guerra mondiale avevano reso decisamente obsoleto. Uno dei contraenti principali, la Russia zarista, non c’era più, immersa nella sanguinosa guerra civile postrivoluzionaria che avrebbe visto il trionfo dei bolscevichi. Al fianco dell’Intesa nel 1917 era scesa in campo, fornendole risorse decisive, una potenza che non aveva sottoscritto il trattato londinese, gli Stati Uniti di Woodrow Wilson. L’Austria-Ungheria era scomparsa dalla carta geografica, il che modificava il contesto in cui si era svolto il negoziato del 1915 e ci consentiva di rivendicare la città di Fiume, abitata in prevalenza da italiani, ma intanto al nostro confine orientale stava sorgendo la futura Jugoslavia, il cui nucleo duro, la Serbia, aveva pagato un prezzo enorme alla causa alleata e reclamava legittimamente un adeguato compenso. Invece di valutare con il necessario realismo la nuova costellazione geopolitica, il governo di Roma rimase prigioniero della sua rigidità, mentre l’opinione pubblica si rifugiava nel mito della «vittoria mutilata», una delle formule più efficaci e al tempo stesso più deleterie tra quelle inventate da Gabriele d’Annunzio, uno slogan ingannatore di cui molto si sarebbe giovato il nascente fascismo.
Ebbene, anche oggi la nostra classe dirigente non appare all’altezza di una situazione internazionale difficile e preferisce cercare consensi interni battendo sul tasto comodo, ma sterile, del vittimismo. Attacca di continuo l’Unione Europea facendo la faccia feroce, ma ne invoca contestualmente l’aiuto sul tema dell’immigrazione, dichiarandosi peraltro in sintonia con i governanti dei Paesi ex comunisti che, favoriti da una posizione geografica meno esposta, rifiutano qualsiasi forma di condivisione del problema con chi, come noi, si trova sul fronte caldo del Mediterraneo. Addebita all’euro e alle regole del patto di stabilità la colpa di guasti economici che hanno cause ben più profonde nella debolezza di un’economia dalla bassa produttività, ma poi comunque non ha il coraggio di andare fino in fondo contro la moneta unica, anche perché difficilmente potrebbe trovare a Bruxelles alleati su posizioni del genere.
Morosi e Rastelli rievocano l’abbandono della conferenza di pace da parte del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, nell’aprile 1919, un gesto melodrammatico e stizzoso che in realtà screditò ulteriormente il nostro Paese. Non potevano certo permettersi una rottura piena e non poterono far altro, poco più tardi, che tornare a Parigi con la coda tra le gambe. Una prova di debolezza abbastanza simile a quella fornita dagli attuali due partiti di governo, che dopo aver condotto per anni una campagna virulenta e demagogica contro l’euro, invocando il recupero di una illusoria sovranità monetaria, oggi dichiarano di non avere alcuna intenzione di portare l’Italia fuori dalla valuta comune.
Forse conviene fermarsi con le analogie, perché gli ultimi cent'anni non sono passati invano, per fortuna, ed eccedere nell’allarmismo sarebbe un errore. Però tanto basta a chiarire che il testo di Morosi e Rastelli non è soltanto un interessante viaggio nel passato, ma anche un utile vademecum per orientarsi meglio nella realtà di oggi.