Corriere 29.11.17
L’intervista con monsignor Ravasi
La campana non chiama più alla messa»
«In
Occidente noi cattolici dobbiamo essere consapevoli che siamo una
minoranza» dice il «ministro» della Cultura del Vaticano, Gianfranco
Ravasi
«Apatia religiosa, l’etica è a rischio». A Roma un convegno sulle chiese dismesse
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ
DEL VATICANO «Ricorda quella frase del Diario di Søren Kierkegaard? “La
nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del
comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani”…». Il
cardinale Gianfranco Ravasi, grande biblista nonché «ministro» della
Cultura vaticano, sfiora assorto la croce pettorale. Da oggi,
all’università Gregoriana, si riunirà un convegno sul «riuso» delle
chiese dismesse per evitare che diventino pizzerie o night club, com’è
già accaduto. Un segno dei tempi. «In Occidente, anche in Italia, noi
cattolici e in generale noi credenti dobbiamo essere consapevoli che
siamo una minoranza. Molti ecclesiastici lo rifiutano, quando lo dici ti
fermano. Vivono come se ancora fossimo in quei paesi dove la domenica
mattina suonavano le campane e la gente accorreva a messa».
E invece, eminenza?
«Prevale
l’indifferenza, l’irrilevanza del fenomeno religioso. È il problema del
secolarismo, o della secolarizzazione. Non è un rigetto del sacro o del
trascendente, un rifiuto aggressivo: gli atei conclamati ormai sono ben
pochi. Piuttosto è una forma di apatia religiosa. Che Dio esista o
meno, è lo stesso. E questo comporta la caduta di un sistema etico: i
valori sono autoprodotti. Una filosofa americana, Sandra Harding, dice
che il concetto di verità e di morale è come l’atto del ragno che
elabora la ragnatela: la ricava da se stesso. Il ragno vicino ne fa
un’altra. È l’effetto del secolarismo, che va distinto dalla
secolarità».
Che cos’è la secolarità?
«È un valore
squisitamente cristiano, a Cesare e a Dio... In altre culture abbiamo
teocrazie e ierocrazie, ma non è la visione cristiana: noi non vogliamo
fare di tutte le piazze piazza San Pietro. Secolarità è riconoscimento
della distinzione tra fede e pólis , non della separatezza. La Chiesa ha
diritto di intervenire sulle leggi non in modo diretto, ma se
violassero la libertà e la dignità della persona, la solidarietà… La
reazione secolarista nega anche questo».
Il vescovo di Bilbao, raccontava, le diceva che i nuovi battesimi erano scesi al 38 per cento, e in Italia?
«Non
saprei, ma non è questo il punto. Al di là di ciò che potrebbe dire un
censimento di chi si dice cristiano, in realtà cosa sono? Quali opzioni
fanno? Tempo fa scrissi su Twitter una frase di Gesù, “Ero straniero e
non mi avete accolto”, non le dico le reazioni! Tanti non avevano
neanche capito che citavo il Vangelo, Matteo 25,43».
E allora come si fa?
«Ci
sono due strade fondamentali. La prima è ridursi a dire il minimo
assoluto, religioso e morale. Riconoscere la tendenza al soggettivismo e
concedere quasi tutto, come fanno molte chiese protestanti: meglio il
minimo che il vuoto. Non sono d’accordo. La presenza dei credenti, anche
se minima, dev’essere un urlo, non un sussurro».
La seconda strada?
«Sì:
conservare il nucleo, il kèrygma della fede, le grandi parole ultime:
il Decalogo, il Discorso della Montagna, la verità, la vita e la morte…
Fare come San Paolo nell’Areopago di Atene, pur sapendo che è possibile
anche il fallimento. La sconfitta e il rifiuto sono parte della dinamica
dell’annuncio».
Il Vangelo «sine glossa»?
«Sì. Ma per far
capire la forza, la radicalità evangelica delle Beatitudini, non basta
limitarsi a leggerle: devo spiegare in un linguaggio che le attualizzi.
San Paolo lo aveva capito, ha preso il nucleo cristiano, il kèrygma , e
lo ha trascritto in un linguaggio che non era più quello giudaico di
Gesù: il greco di San Paolo era l’inglese, il digitale di allora».
Un esempio oggi?
«Guardi
Papa Francesco. Ci sono tre elementi che usa spontaneamente. Uno è la
paratassi, la frase breve. Se vuoi farti capire, poi, devi ricorrere al
simbolo come fa Gesù, le parabole, il racconto: le periferie, l’odore
delle pecore... Infine, in un mondo dominato dal virtuale, ritornare al
corpo, alla presenza: il tema della misericordia per declinare la
categoria di amore».
Ha avuto successo tra i conservatori
«L’opzione Benedetto» di Rod Dreher, che suggerisce di ritirarsi come
nei monasteri medievali…
«Siamo in un periodo per certi versi
drammatico, è scoraggiante, lo capisco. Ma chiudersi in un’oasi protetta
non è cristiano, non è monastico e non è benedettino. “Quello che
ascoltate all’orecchio, voi annunciatelo dalle terrazze”. Il monachesimo
ha salvato ed elaborato la cultura classica, gestito l’economia,
costruito città».
E le chiese dismesse?
«Una chiesa deve
continuare ad essere non solo sacra, ma santa, cioè frequentata. Sante
sono le persone. Nell’Antico Testamento il Tempio è ’ohel mo’ed , la
“tenda dell’incontro”: con Dio ma anche tra gli uomini. Se non è più
santo, se non ha gente, un tempio può essere desacralizzato ma non
dissacrato: farne una pizzeria è blasfemo. Va bene un museo, per dire, o
un luogo di incontro su temi e valori anche laici».