giovedì 29 novembre 2018

La Stampa29.11.18
Antisemitismo
Poche bizzarre righe
di Mattia Feltri

Di settemila persone interpellate per conto della Cnn America in Austria, Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Svezia e Ungheria circa mille e quattrocento ritengono che l’antisemitismo sia una reazione al comportamento degli ebrei. Di quei settemila, circa mille e settecento credono che gli ebrei abbiano troppo potere nella finanza, e la manovrino a loro vantaggio e a svantaggio del popolo. Più o meno altrettanti dichiarano che gli ebrei hanno un ruolo e un interesse in ognuna delle guerre del mondo. Circa duemila e cinquecento sanno poco o niente della Shoah (un austriaco su dieci, di quelli compresi fra i 18 e i 34 anni, non ne ha mai sentito parlare, in Francia vale per uno su cinque). Fra quelli che ne sanno, oltre mille e duecento spiegano che lo sterminio degli ebrei è stato provocato dalla loro protervia di avvelenatori di pozzi e prestatori di denaro a usura. Sommati quelli che la sanno così, quelli che la sanno pochino e quelli che non la sanno affatto, siamo a oltre la metà degli intervistati. Di sondaggi del genere ne escono a ripetizione, un po’ ignorati sotto il vacuo trambusto quotidiano. Nel 2012 uno dimostrò che la metà degli studenti tedeschi non avesse idea di chi fosse Adolf Hitler, e un terzo di loro lo indicò come insigne promotore dei diritti umani. Un altro del Pew Research un paio d’anni fa stimò nel 21 la percentuale degli italiani che nutrono pregiudizi verso gli ebrei. E così lentamente la memoria annacqua, il pregiudizio risale, l’odio infiamma e l’indifferenza spalanca le porte, e anche queste poche righe saranno un esercizio di bizzarria.

Corriere 29.11.17
L’intervista con monsignor Ravasi
La campana non chiama più alla messa»
«In Occidente noi cattolici dobbiamo essere consapevoli che siamo una minoranza» dice il «ministro» della Cultura del Vaticano, Gianfranco Ravasi
«Apatia religiosa, l’etica è a rischio». A Roma un convegno sulle chiese dismesse
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO «Ricorda quella frase del Diario di Søren Kierkegaard? “La nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani”…». Il cardinale Gianfranco Ravasi, grande biblista nonché «ministro» della Cultura vaticano, sfiora assorto la croce pettorale. Da oggi, all’università Gregoriana, si riunirà un convegno sul «riuso» delle chiese dismesse per evitare che diventino pizzerie o night club, com’è già accaduto. Un segno dei tempi. «In Occidente, anche in Italia, noi cattolici e in generale noi credenti dobbiamo essere consapevoli che siamo una minoranza. Molti ecclesiastici lo rifiutano, quando lo dici ti fermano. Vivono come se ancora fossimo in quei paesi dove la domenica mattina suonavano le campane e la gente accorreva a messa».
E invece, eminenza?
«Prevale l’indifferenza, l’irrilevanza del fenomeno religioso. È il problema del secolarismo, o della secolarizzazione. Non è un rigetto del sacro o del trascendente, un rifiuto aggressivo: gli atei conclamati ormai sono ben pochi. Piuttosto è una forma di apatia religiosa. Che Dio esista o meno, è lo stesso. E questo comporta la caduta di un sistema etico: i valori sono autoprodotti. Una filosofa americana, Sandra Harding, dice che il concetto di verità e di morale è come l’atto del ragno che elabora la ragnatela: la ricava da se stesso. Il ragno vicino ne fa un’altra. È l’effetto del secolarismo, che va distinto dalla secolarità».
Che cos’è la secolarità?
«È un valore squisitamente cristiano, a Cesare e a Dio... In altre culture abbiamo teocrazie e ierocrazie, ma non è la visione cristiana: noi non vogliamo fare di tutte le piazze piazza San Pietro. Secolarità è riconoscimento della distinzione tra fede e pólis , non della separatezza. La Chiesa ha diritto di intervenire sulle leggi non in modo diretto, ma se violassero la libertà e la dignità della persona, la solidarietà… La reazione secolarista nega anche questo».
Il vescovo di Bilbao, raccontava, le diceva che i nuovi battesimi erano scesi al 38 per cento, e in Italia?
«Non saprei, ma non è questo il punto. Al di là di ciò che potrebbe dire un censimento di chi si dice cristiano, in realtà cosa sono? Quali opzioni fanno? Tempo fa scrissi su Twitter una frase di Gesù, “Ero straniero e non mi avete accolto”, non le dico le reazioni! Tanti non avevano neanche capito che citavo il Vangelo, Matteo 25,43».
E allora come si fa?
«Ci sono due strade fondamentali. La prima è ridursi a dire il minimo assoluto, religioso e morale. Riconoscere la tendenza al soggettivismo e concedere quasi tutto, come fanno molte chiese protestanti: meglio il minimo che il vuoto. Non sono d’accordo. La presenza dei credenti, anche se minima, dev’essere un urlo, non un sussurro».
La seconda strada?
«Sì: conservare il nucleo, il kèrygma della fede, le grandi parole ultime: il Decalogo, il Discorso della Montagna, la verità, la vita e la morte… Fare come San Paolo nell’Areopago di Atene, pur sapendo che è possibile anche il fallimento. La sconfitta e il rifiuto sono parte della dinamica dell’annuncio».
Il Vangelo «sine glossa»?
«Sì. Ma per far capire la forza, la radicalità evangelica delle Beatitudini, non basta limitarsi a leggerle: devo spiegare in un linguaggio che le attualizzi. San Paolo lo aveva capito, ha preso il nucleo cristiano, il kèrygma , e lo ha trascritto in un linguaggio che non era più quello giudaico di Gesù: il greco di San Paolo era l’inglese, il digitale di allora».
Un esempio oggi?
«Guardi Papa Francesco. Ci sono tre elementi che usa spontaneamente. Uno è la paratassi, la frase breve. Se vuoi farti capire, poi, devi ricorrere al simbolo come fa Gesù, le parabole, il racconto: le periferie, l’odore delle pecore... Infine, in un mondo dominato dal virtuale, ritornare al corpo, alla presenza: il tema della misericordia per declinare la categoria di amore».
Ha avuto successo tra i conservatori «L’opzione Benedetto» di Rod Dreher, che suggerisce di ritirarsi come nei monasteri medievali…
«Siamo in un periodo per certi versi drammatico, è scoraggiante, lo capisco. Ma chiudersi in un’oasi protetta non è cristiano, non è monastico e non è benedettino. “Quello che ascoltate all’orecchio, voi annunciatelo dalle terrazze”. Il monachesimo ha salvato ed elaborato la cultura classica, gestito l’economia, costruito città».
E le chiese dismesse?
«Una chiesa deve continuare ad essere non solo sacra, ma santa, cioè frequentata. Sante sono le persone. Nell’Antico Testamento il Tempio è ’ohel mo’ed , la “tenda dell’incontro”: con Dio ma anche tra gli uomini. Se non è più santo, se non ha gente, un tempio può essere desacralizzato ma non dissacrato: farne una pizzeria è blasfemo. Va bene un museo, per dire, o un luogo di incontro su temi e valori anche laici».

il manifesto 29.11.18
Per la genitorialità il governo prospetta un Welfare privatistico e condizionato al lavoro
Istat. Il rapporto "Natalità e fecondità" dell'Istat attesta un nuovo calo di oltre 15 mila nascite in Italia nel 2017, 45 mila in tre anni. Il ministro della famiglia Fontana lancia un "codice natalità" e considera il "bonus bebé" e "il terzo figlio in cambio di terra gratis" come un antidoto. Per i Cinque Stelle lo sarà il "reddito di cittadinanza" legato al lavoro gratuito e alla formazione obbligatoria
di Roberto Ciccarelli


Sono tre i modi attraverso i quali il governo intende affrontare il calo delle nascite registrato dal rapporto Istat «Natalità e fecondità»: meno 45 mila in tre anni, meno 15 mila in uno tra i 2016 e il 2017. Ci sono il famigerato emendamento alla legge di bilancio (il «terzo figlio in cambio di terreno gratis») e il «Bonus Bebé», introdotto da Berlusconi nel lontano 2006, che sarà rifinanziato con 444 milioni. Ieri il ministro leghista alla famiglia Lorenzo Fontana ha annunciato un «Codice natalità». Si tratterebbe di un ripensamento delle politiche sulla «famiglia, fisco, lavoro, salute, welfare, formazione nell’ottica di un reale supporto alla natalità e alla genitorialità». Fontana ha legato il progetto al «contratto di governo» tra Lega e Cinque Stelle.
IN REALTÀ, IL SACRO TESTO è lacunoso, come spesso accade su molti temi. Parla di «politiche efficaci per la famiglia»; conciliazione tra vita e lavoro; innalzamento dell’indennità di maternità; un premio alle donne che «concludono la maternità e rientrano al lavoro»; «sgravi contributivi per le imprese che mantengono al lavoro le madri dopo la nascita dei figli»; Iva «agevolata» per prodotti neonatali, rimborsi per asili nido e baby sitter, «fiscalità di vantaggio». In attesa di maggiori dettagli, l’impostazione resta la stessa del passato. Invece di rafforzare i servizi sociali pubblici, e trasformare lo Stato sociale in senso universalistico, non più familistico, si prospettano politiche di sostegno alla genitorialità frammentate in molteplici erogazioni monetarie, ispirate al modello assistenzialistico che delega la cura alla famiglia e, in particolare, alle donne. Invece di responsabilizzare l’impresa, e nel caso penalizzare chi licenzia o non rinnova i contratti a causa di una maternità, lo Stato si limita a premiarla con un sgravio fiscale.
IL RAPPORTO ISTAT ha spinto i Cinque Stelle a declinare il sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza» anche come uno strumento di sostegno alla genitorialità. A questa politica neoliberale di attivazione al lavoro di poveri e disoccupati, vincolata al lavoro gratuito per otto ore a settimana e alla formazione obbligatoria nei centri per l’impiego e con i privati, il ministro del lavoro Luigi Di Maio ha attribuito il compito di «invertire il trend» del calo delle nascite. Sempre che entri in vigore il sistema annunciato dal governo, è invece probabile che i beneficiari del sussidio non abbiano il tempo di pensare a una vita altra, impegnati come saranno a rispettare le ingiunzioni per mantenerlo. Il cosiddetto «reddito» è stato inoltre inteso, in una nota dei senatori 5 Stelle, un «investimento sulle persone». La «crescita di cui ha bisogno l’Italia sta nel numero di figli» ha aggiunto Di Maio su Facebook. Queste considerazioni hanno come sfondo un’idea di biopolitica di stato. La natalità è infatti collegata a un’idea di «crescita» economica, non è l’espressione della libertà delle persone.
RESTA DA CAPIRE se, e in quale misura, il «reddito» andrà anche alle cittadine straniere residenti in Italia. Al momento, sembra che andrà a chi risiede in Italia da più di cinque anni. Secondo il rapporto Istat, le donne straniere hanno sostenuto nell’ultimo ventennio il «baby bust», la fase di forte calo della fecondità tra le donne italiane. Ma il loro contributo alla natalità si va lentamente riducendo.
LE ALLUSIONI propagandistiche al «reddito» confermano che anche le politiche a sostegno della maternità e della genitorialità resteranno vincolate alla condizionalità e non sono ispirate all’estensione incondizionata delle indennità di maternità, di paternità e parentale a tutte le tipologie contrattuali e non solo al lavoro subordinato e parasubordinato, e non solo in presenza di un contratto di lavoro.

il manifesto 29.11.18
Le tre sinistre diverse con il fondato rischio di scomparire
Sinistra. Il quadro della sinistra italiana è quello di un «non più e non ancora». I partiti si sono dimostrati incapaci di durata e di consenso. Ma nessuno ha la forza di sostituirli
di Loris Caruso


Il minimo che si possa dire è che le alleanze elettoralistiche non funzionano. Attualmente si intravedono tre sinistre: quella di De Magistris, quella di Potere al popolo e una nuova sinistra populista e patriottica, organizzata attorno a gruppi come Senso Comune e Patria e Costituzione. Tre sinistre diverse che hanno, al momento, una forza organizzativa decrescente dalla prima alla terza.
Per quanto riguarda l’area di de Magistris ci sarà, come nel 2014, un riavvicinamento tra Rifondazione e Sinistra italiana, a cui parteciperanno altre organizzazioni. Niente di nuovo rispetto a quanto si è visto negli ultimi dieci anni, tranne un elemento: Luigi de Magistris, che dovrebbe guidare la lista per le europee, pur non candidandosi in prima persona, come ha comunicato di recente. Le sinistre che fuori dall’Italia hanno avuto recentemente successi elettorali, hanno contato su alcune di queste condizioni: una grande mobilitazione sociale; una forte presenza mediatica; una leadership nota e autorevole; la concomitanza tra una crisi economica e una crisi politica; una rete di militanza fatta soprattutto di nuovi attivisti. L’aggregazione che dovrebbe unirsi attorno a De Magistris punterà quasi tutto su una di queste condizioni: il carisma del leader. E in parte su una seconda: la rete di militanza e attivismo.
De Magistris è sicuramente, nel panorama attuale della sinistra, l’unico leader dotato di un carisma personale. A fianco di questa ‘risorsa’ si intravedono però alcuni problemi. Il sindaco di Napoli ha ben presente che una sua lista non potrebbe presentarsi come l’ennesima riedizione di un’alleanza tra sinistre sconfitte.
Dovrà quindi caratterizzarla come ‘nuova’. Per farlo dovrà ridurre la visibilità dei partiti che la costituiscono. Questi partiti però metteranno a disposizione le risorse, le sedi e i militanti per raccogliere le firme e fare campagna elettorale. In secondo luogo, sarà una lista costituita da organizzazioni competitive tra loro.
L’unico modo per farle coesistere è che deleghino gran parte del potere decisionale al leader. Forse il meccanismo può reggere fino alle elezioni. Dopo, i partiti che hanno reso possibile la partecipazione alle elezioni chiederanno conto del loro ‘occultamento’, con conseguenti conflitti. Ci sarà poi l’eterna questione: si tratta di una lista elettorale o di un nuovo soggetto politico? I partiti resisteranno alla seconda opzione, Sinistra italiana già si sottrae all’ipotesi.
Veniamo alla seconda sinistra. Potere al popolo è diventato un soggetto autonomo, eleggendo i propri dirigenti con una piattaforma web. Ha accelerato sull’elemento dell’innovazione e dell’autonomia (essere una forza nuova costituita da persone attive nella militanza sociale, senza partiti), portando all’uscita di Rifondazione. PaP è poco assimilabile ai partiti che costellano la galassia dei comunismi italiani. È una forza intermedia tra ‘tradizione e innovazione’: innovativa nell’organizzazione, usa linguaggi e pratiche tradizionali della sinistra antagonista, rivolgendosi soprattutto a un’area militante. Probabilmente non farà parte dell’esperienza di De Magistris, e forse non ha ancora la forza per presentarsi da sola alle elezioni. Tuttavia è una realtà: la sua portavoce è spesso in televisione e PaP è rilevata nei sondaggi, seppure senza una crescita significativa rispetto alle elezioni.
C’è infine la terza sinistra, quella per ora più piccola e che non si è ancora sperimentata sul piano elettorale. Senso Comune è una realtà nata due anni fa e presente per ora soprattutto in rete, che cerca di costruire in Italia una forza di ‘populismo democratico’, pensando soprattutto all’esempio di Podemos. Molto polemica con la sinistra italiana, vorrebbe costituire una forza radicalmente innovativa in termini di linguaggi, organizzazione e prassi. Ultimamente si è avvicinata a Patria e Costituzione di Fassina, che basa il suo discorso sulla frattura Europa/nazione.
Il quadro complessivo della sinistra italiana è quello di un “non più e non ancora”. I vecchi partiti (tutti nati dalla diaspora di Rifondazione), si sono dimostrati incapaci di costruire progetti duraturi e di consenso. Ma nessuno ha ancora la forza di sostituirli. La partita sta tutta in questo intermezzo.
L’evoluzione politica italiana cominciata con la Seconda repubblica è riassumibile in una parola: americanizzazione. Se in questo “non più e non ancora” nessun progetto riuscirà a emergere, l’americanizzazione potrebbe compiersi e la sinistra radicale potrebbe sparire o essere assorbita da un Pd dotato di nuove leadership. Ma un progetto forte e autonomo della sinistra potrà emergere solo se garantirà due cose: innovazione radicale e continuità nel tempo.

Corriere 29.11.18
Risponde Aldo Cazzullo
Dopo Matteo Renzi il pd guarderà a sinistra


Caro Aldo,
ci sono già diversi candidati alla segreteria del Pd, non si capisce però con quali programmi. Sarà un partito di sinistra o moderato?

Caro Pasquale,
Il Pd esce da cinque anni di Renzi, che divenne segretario giustappunto nel dicembre 2013. Renzi è in sostanza un centrista, che non si è mai posto come antiberlusconiano; semmai come post-berlusconiano. Aveva tentato di prendere le distanze dalla sinistra, tradizionalmente un po’ disgustata dagli italiani. A chiedergli come mai andasse a pranzo con Briatore, Renzi rispondeva: «Io non voglio cambiare gli italiani. Gli italiani mi piacciono così come sono. Io voglio cambiare l’Italia». All’evidenza, non ci è riuscito.
Ma anche quando la contrapposizione ideologica era forte, almeno attorno alla persona di Berlusconi, le politiche di governo di centrodestra e centrosinistra non erano poi così diametralmente opposte. Certo, ogni schieramento strizzava l’occhio ai propri elettori. Ma insomma la politica economica di Tremonti, uomo di formazione liberalsocialista, non è che fosse proprio agli antipodi di quella di Giuliano Amato o di Padoa-Schioppa. L’Italia della Seconda Repubblica è stata fondamentalmente governata dal centro; proprio come ai tempi della Prima.
Ora questa fase è finita. Ora l’ideologo del primo partito del Paese teorizza che bisogna superare il Parlamento e la democrazia rappresentativa, e il leader del secondo cita Mussolini tutti i giorni. Questo – lo ripeto per l’ennesima volta – non significa affatto che il fascismo sia alle porte; i fenomeni storici non si ripresentano mai due volte; e poi il fascismo fu una tragedia che va condannata, non evocata ogni momento. Diciamo che non è tempo per moderati.
In queste condizioni, è normale che il partito democratico, per sopravvivere, cerchi spazio a sinistra. La prima missione del nuovo segretario dovrebbe essere recuperare almeno una parte del voto popolare andato ai Cinque Stelle. Ma mi pare che l’ambizione maggioritaria coltivata a lungo dai fondatori del Pd e dai loro eredi, teorici del «partito della nazione», vada riposta nel cassetto. Per un bel po’.

il manifesto 29.11.18
Il manifesto lancia la sua nuova campagna pubblicitaria
Editoria. Il manifesto c'è, tutto è possibile. Uno slogan di resistenza e di speranza. Un richiamo a tutta la sinistra e non solo. La nostra campagna al via anche sulle pagine di Corriere della Sera e Internazionale
di Matteo Bartocci


ROMA «il manifesto c’è. Tutto è possibile» è lo slogan che abbiamo scelto per la nostra nuova campagna pubblicitaria che inizia il 29 novembre.
Una campagna multi-soggetto che avrà come protagonisti principali una donna, un immigrato e un «rider». Immersi in un contesto vagamente distopico, i nostri tre «eroi» leggono alcune  prime pagine del quotidiano in un gesto di determinata resistenza. Lo slogan è una citazione obliqua di altri più celebri slogan di movimento e un segnale di coraggio in tempi politici e culturali così feroci.
Dal 1971 siamo un granello di sabbia in questo gigantesco ingranaggio chiamato capitalismo. Un editore «puro» in un panorama informativo guastato da conflitti di interesse e monopolii di ogni tipo.
Il nostro è un richiamo al frantumato mondo della sinistra ma non solo. Una risposta chiara e ferma a chi vorrebbe chiudere i giornali (tutti i giornali, incluso il nostro) e un segno di speranza e di voglia di cambiamento (quello vero però) rivolto a voi, nostri attuali e potenziali lettori/lettrici.
Noi ci siamo. Al vostro fianco. A partire da «soggetti sociali» che più di altri subiscono la crisi e i suoi effetti: le donne innanzitutto e ovunque; i migranti; chi un lavoro ce l’ha, magari «precario», e chi lo sta cercando.
Realizzata qui in redazione da una «crew» nuova di zecca – i nostri Costanza Fraia, Giansandro Merli, Shendi Veli, Roberto Persia e Caterina Giordano -, la campagna sarà pubblicata fino a dicembre dal Corriere della Sera e dai suoi supplementi e dal settimanale Internazionale.
Il manifesto non è nuovo a campagne che graffiano l’immaginario. Poche ma buone. Con soggetti passati alla storia come «Vent’anni dalla parte del torto», «La rivoluzione non russa» e «Attenzione, su questo bus c’è un comunista» degli anni ’90 o le più recenti sul riacquisto della testata.
Era da tempo che non tornavamo a «comunicare» fuori dalle nostre pagine. Perciò siamo doppiamente lieti di questa «incursione» su altre testate.
Per la nostra cooperativa è un investimento economico importante e un gesto di fiducia nella carta stampata più in generale.
Una scommessa di comunicazione che «giriamo» anche ai nostri (troppo pochi) inserzionisti. La carta, canta.

il manifesto 29.11.18
«Potere operaio». La storia. La dimensione teoria, vale a dire Mario Tronti
Una stagione di lotte con scontri di classe, un primo volume di Marco Scavino per DeriveApprodi
Un’immagine che riassume l’atmosfera di quegli anni scattata dal fotografo Uliano Lucas, 1972
di Girolamo De Michele

https://www.deriveapprodi.com/campagne/

Affidato alla competenza di Marco Scavino – sia come storico, sia come militante di PotOp –, Potere operaio. La storia. La teoria (volume I, pp. 188, euro 18) è un ulteriore tassello nella costruzione di un archivio sui movimenti degli anni 60 e 70 che DeriveApprodi porta avanti da anni. Impresa editoriale della quale fa parte anche Prima linea. L’altra lotta armata di Andrea Tanturli (recensito il 1 novembre su il manifesto), che di Scavino condivide il metodo di lavoro.
AMBEDUE I VOLUMI hanno un prolungamento nel web, con due pagine facebook dedicate attraverso le quali è possibile leggere una ricca mole di documenti che sono in corso di pubblicazione in progress: una modalità innovativa rispetto a opere precedenti, come la ripubblicazione delle riviste Rosso e Primo maggio, che rendevano disponibili le pagine dei giornali mediante un cd allegato. A questo primo volume, che arriva fino al 1971, faranno seguito un secondo volume, e nuova edizione di La nefasta utopia di Potere operaio di Franco Berardi Bifo.
La composizione di quest’opera, al di là della mera ricostruzione degli eventi e della pubblicazione dei documenti, ha una sua ragion d’essere che coincide con le scelte interpretative di Scavino. Il quale, partendo dalla constatazione che PotOp fu «un gruppo fortemente minoritario, il cui ruolo all’interno del movimento e delle lotte non era certamente proporzionato alla forza numerica o d’organizzazione», spiega lo scopo principale di questo libro consistere nel «cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno, provando a considerarlo nel quadro più generale delle vicende dello scontro di classe tra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio seguente». Si tratta, insomma, di cogliere lo spessore qualitativo di PotOp, all’interno del contesto di lotte che ne resero possibile l’esistenza.
CONTESTO CHE SI PRESENTA come un groviglio di storie, realtà, entrate e uscite: groviglio del quale è possibile dipanare i singoli fini, a condizione di non dimenticare mai la loro comune matassa. Se infatti Potere Operaio (inteso come giornale) nasce nel settembre 1969, è altrettanto vero che la sua genesi rimonta lungo una genealogia che parte dai Quaderni rossi per svilupparsi attraverso classe operaia e La classe (passando per Contropiano, o quantomeno per il suo primo numero). Fra rivista e rivista c’è una storia che va da piazza Statuto a piazza Fontana: una storia di lotte che proseguirà nel decennio successivo, e che in parte confluirà in quella armata. Scavino rende un quadro complesso. Rifiuta le ricostruzioni lineari – per esempio quelle di Angelo Ventura – dai Quaderni rossi fino alle Br senza soluzione di continuità, che hanno sotteso il teorema Calogero: sconfessate dalle sentenze, si sono nondimeno imposte nell’immaginario nazionale. Accanto a questo mito, ve n’è un secondo, che viene sottoposto a critica con la ricostruzione analitica: quella di PotOp e dell’operaismo sarebbe la storia di poche menti, magari geniali ma avulse dalle lotte, che avrebbero prodotto una teoria aliena dalla materialità dei fatti, e la cui composizione finisce per essere ricondotta a quei militanti che vengono oggi ricordati e stigmatizzati perché oggetto di procedimento giudiziaria.
Una malevola metonimia, che finisce col generane un’altra un’intermittenza della memoria: che, se non quella di PotOp, senz’altro la storia dell’operaismo possa essere ricondotta alle sue origini, e coincidere con una sostanziale univocità attorno a quello che ne incarnerebbe la dimensione teorica, vale a dire Mario Tronti.
È INVECE VERO (come Scavino scrive a proposito di Classe operaia) che «la condivisione di «un modo di pensare politico» non aveva affatto implicato un’omogeneità di orientamenti politici e di pratiche d’organizzazione», com’è attestato dagli esiti divergenti di quell’esperienza: la prosecuzione di un percorso che porterà alla nascita di PotOp per alcuni, o il ritorno alla casa del padre per altri, fra i quali lo stesso Tronti, che, un po’ come il musico suo cugino, avrebbe poi fatto fruttare la rendita pluridecennale di alcuni fortunati testi iniziali (con l’estatica ammirazione di acritici sorcini disposti a perdonare una maturità mal spesa – ma questa è un’altra storia). Fatto è che PotOp «non si limitò a «ereditare» dai Quaderni rossi e da classe operaia un certo tipo di cultura politica, ma la usò e la rielaborò in funzione di quanto andava emergendo dalle lotte e dai movimenti di classe». I frutti di questa rielaborazione sono il tema della «composizione» della classe operaia, e il termine «operaio massa» per indicare i settori non qualificati, mobili, intercambiabili della forza-lavoro.
Lo stesso rapporto fra l’operaismo e PotOp è «un rapporto complesso, fatto indubbiamente di continuità ma anche di contributi originali e innovativi, che influenzarono in maniera rilevantissima il dibattito coevo del movimento operaio», del quale Scavino intende fornire elementi per una «storia politica dell’operaismo italiano» che «in parte deve ancora essere ricostruita». È questa una delle tre questioni che l’autore mette al centro della propria opera. Per le altre due – il discorso sulla rivoluzione dopo il ’68, e il ruolo di PotOp nella genesi della lotta armata – bisognerà attendere il secondo volume.
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SCHEDA: «L’invasione degli altricorpi»
«L’invasione degli altricorpi» si manifesterà a Roma il primo e il 2 dicembre al Nuovo Cinema Palazzo (piazza dei Sanniti 9a), appuntamento annuale di DeriveApprodi, giunto alla sua quarta edizione. La casa editrice ha tagliato il nastro dei 25 anni di attività, componendo, titolo dopo titolo, un catalogo teorico-politico sulle molteplici forme di resistenza e di difesa di una memoria storica – gli anni 70 – di tutto rispetto. Non solo difesa di un passato più o meno mitizzato, ma capacità di interrogare percorsi di ricerca (ecologia sociale, gestione politica del «paesaggio», crisi della della società salariale, antropocene). Aprirà le danze la presentazione del volume dedicato alla storia di Potere Operaio (ne scrive in queste pagine Girolamo De Michele). Sarà presentato l’Almanacco 2019 di «Alfabeta». Uno spazio specifico sarà dedicato alla sessantennale produzione poetica e letteraria di Nanni Balestrini. Programma qui: (https://www.deriveapprodi.com/campagne/).

La Stampa 29.11.18
Paradosso italiano: i reati diminuiscono ma la paura cresce
di Grazia Longo


Diventa più marcata la distanza tra la sicurezza reale e quella percepita. La prova? I reati diminuiscono eppure i cittadini hanno sempre più paura. E in tanti plaudono alla nuova legge sulla legittima difesa fortemente voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che salverebbe dall’incriminazione chi uccide per difendersi.
Incrociando i dati del Viminale, del Censis e di Noto sondaggi emerge la fotografia di un Paese dove, a fronte di un calo dell’8 per cento dei reati, un italiano su due ha talmente paura da ritenere la sicurezza il problema più grave dopo l’emergenza lavoro e uno su tre vorrebbe l’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco per la difesa personale.
Secondo il Censis, i più convinti in questa direzione sono le persone meno istruite (il 51 per cento tra chi ha al massimo la licenza media) e gli anziani. Nel rapporto, realizzato con Federsicurezza, viene sottolineato inoltre l’aumento del numero di persone che possono sparare: nel 2017 in Italia si contano 1.398.920 licenze per porto d’armi (dall’uso caccia alla difesa personale). In sostanza c’è un’arma da fuoco nelle case di quasi 4,5 milioni di italiani (di cui 700 mila minori).
Nel complesso, come evidenzia l’analisi effettuata dal Viminale sei mesi fa, i reati sono scesi dell’8 per cento. Dal 1 agosto 2016 al 31 luglio 2017 erano infatti 2.453.872, mentre dal 1 agosto 2017 al 31 luglio 2018 sono diventati 2.240.210. Più nel dettaglio, si è registrata, nello stesso arco temporale, un’inflessione del 14 per cento degli omicidi (passati da 371 a 319), la riduzione dell’11 per cento delle rapine (da 31.904 a 28.390) e meno 8 per cento dei furti (da 1.302.636 a 1.189.499). Il Censis rivela che Milano era al primo posto con 237.365 reati nel 2016 (il 9,5 per cento del totale), poi Roma (con 228.856 crimini, il 9,2 per cento), seguono Torino e Napoli con percentuali intorno al 5,5.
Ma un conto sono i numeri effettivi, un altro è quello della percezione della sicurezza. «La gente ha paura al punto da ritenere il tema prioritario - osserva Antonio Noto, direttore di Noto sondaggi -. L’allarme sicurezza è equamente distribuito sul territorio nazionale, senza particolari distinzioni tra Nord e Sud». Ad essere preoccupato per la propria incolumità è il 46 per cento degli italiani, mentre il 33 per cento è d’accordo a incrementare l’uso delle armi per la difesa personale. «E non si tratta solo di elettori del centrodestra - prosegue il sondaggista -. Di questo 33 per cento, infatti, il 40 per cento è vicino al centrodestra, un altrettanto 40 per cento non ha ideologie politiche e il 20 appartiene al centrosinistra». Tra le altre caratteristiche di questa fetta di cittadini che rivendicano il diritto a sparare in caso di aggressione, il 65 per cento sono uomini, il resto donne, il 50 per cento ha più di 50 anni, il 25 per cento è composto da adulti e il rimanente 25 per cento da giovani.
Ma, al di là dei numeri, quali ragioni si annidano dietro la paura della gente e l’aspirazione a farsi giustizia da sé? Secondo il professor Paolo De Nardis, ordinario di Sociologia alla Sapienza e Decano nazionale di sociologia, «un certo clima politico e la complicità mediatica hanno alimentato la paura e la voglia di autodifendersi. Ci stiamo americanizzando, ma in realtà la cultura antropologica degli italiani è fondata sulla solidarietà e non sulla solitudine e la paura, che spingono a considerare le armi come un terzo braccio in grado di risolvere i problemi».
Il sociologo invita, inoltre, a riflettere su una ricerca secondo cui «in Veneto, dove si registrano più permessi per uso sportivo e venatorio, ci sono meno delitti che in Calabria dove il numero delle licenze è inferiore». E conclude auspicando «più partecipazione pubblica e una maggiore fiducia nelle istituzioni: non bisogna isolarsi ed essere monadi ma maturare spirito critico».

Repubblica 29.11.18
Il Paese della paura
di Ezio Mauro


Consumiamo più paura di quanta una democrazia possa permettersi: e lo squilibrio determina gli scompensi politici, sociali, culturali che dobbiamo toccare con mano nella vita di ogni giorno, e che ci circondano fino a sovrastarci. Una paura che pensiamo di riuscire a riconoscere, almeno a definire, in ogni caso a controllare. Ma in realtà sta straripando da un campo all’altro, sta invadendo aree non controllate, cancellando confini, mescolando territori, fino a confonderci e a ottenere il risultato supremo, perché politico: diventare un tutt’uno indistinguibile, un insieme che non è più scalfibile, e per questo vince.
Nella rincorsa di ansia tra il governo e il Paese, mentre il Parlamento vota il decreto sicurezza il ministro dell’Interno già annuncia la nuova legge sulla legittima difesa. Per Salvini la nuova legge è introdotta clamorosamente dal caso di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, dove un gommista di 57 anni l’altra notte alle 4 si è svegliato per i rumori che sentiva nel suo capannone dove dormiva da quattro anni dopo 38 tentativi di furto, ha visto due ladri, ha sparato con la pistola e ha ucciso un giovane moldavo. In questa storia c’è molto del precipizio italiano di questi anni. Un uomo che si sente abbandonato dallo Stato, costretto a dormire tra le gomme e le biciclette per le continue ruberie, e con la pistola sotto il cuscino, perché non conosce altro modo per difendersi. I ladri che spaccano il vetro ed entrano nel capannone. Gli spari, il sangue, un giovane uomo morto. L’immediato uso politico di quanto è accaduto, senza nessuna vera condivisione, senza nessuna pietà, senza nessuna ricerca politica di un esito diverso, come se il furto fosse la prova tanto attesa, la morte diventasse un pretesto, lo sparo un eroismo: applausi e striscioni per il gommista, la solidarietà di Salvini: « Io sto con chi si difende » , l’annuncio immediato della nuova legge che sfruttando l’emotività e la paura vuole cancellare la proporzione necessaria tra la reazione di chi si difende e l’offesa ricevuta.
Per ora il gommista aretino è indagato per eccesso di legittima difesa: l’eccesso colposo cadrebbe con la nuova legge. Resta la paura, che ha spinto quest’uomo a dormire nel suo capannone negli ultimi quattro anni per paura dei ladri, in compagnia di una pistola Glock da tiro a segno (come quella di Luca Traini, l’autore del raid contro i " negri" a Macerata). Una paura che fa aumentare la voglia di sicurezza fai-da-te, come in America, con la quota di chi chiede norme più facili per il possesso di fucili e pistole che cresce in un anno dal 26 al 39 per cento, in un Paese che ha già un’arma nelle case di 4 milioni e mezzo di italiani, con un incremento del 14 per cento nell’ultimo anno. Tutto questo mentre i reati sono diminuiti del 10 per cento nel 2017, gli omicidi si sono praticamente dimezzati in dieci anni, le rapine sono scese del 37,6 per cento e i furti del 13,9.
Ma abbiamo costruito una figura in grado di assorbire e insieme di rilasciare tutte le paure, ingigantendole e portandole a convergere. Il migrante, meglio l’africano, meglio ancora il "negro", in ogni caso lo straniero. Una figura reale e fantasmatica insieme, che diventa il nemico naturale, originario ed eterno, immediatamente simbolico, nuovamente e sempre riconoscibile. Capace di raccogliere su di sé gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una parte della popolazione infragilita dalla crisi e di un’altra parte indurita da una nuovissima gelosia del welfare: che si saldano in un risentimento identitario, per dar vita a un inedito sentimento indigeno inconfessato, che riemerge sempre meno inconsapevole.
Muovendosi ogni giorno di più come il vero proprietario del governo, ma soprattutto come il mago che ha in mano la psiche del Paese, Matteo Salvini sta scaricando tutto il problema della sua politica da ministro dell’Interno sulle spalle dei migranti, compiendo una doppia operazione congiunta. Da un lato una svalutazione delle altre componenti " tecniche" e psicologiche dell’ansia e dell’inquietudine con cui devono fare i conti i cittadini, soprattutto per l’incertezza crescente di futuro, che viene alimentata ogni giorno da questa tensione permanente di un conflitto continuamente annunciato con nemici invisibili, che si materializza più che altro nei social network, dove si traduce la forma più alta e costante dell’attività di governo e di leadership. Dall’altro lato un’esaltazione ideologica del fantasma straniero, chiamato a coincidere intimamente e indiscutibilmente — a dispetto delle cifre, dunque della realtà — con la sicurezza dei cittadini, anzi con la loro incolumità personale, in una separazione ormai dichiarata e accettata di spazi, di percorsi e di destini.
Ieri l’operazione è arrivata al suo culmine. Mentre il decreto sicurezza giungeva al suo ultimo atto in Parlamento, cancellando il permesso di soggiorno per motivi umanitari, riservando il sistema di accoglienza Sprar (con percorsi di integrazione gestiti dai Comuni) solo a chi ha già ottenuto l’asilo e ai minori stranieri non accompagnati, Salvini ha annunciato che intende mettere mano a tutto l’insieme delle norme che riguardano l’immigrazione. Poi ha affacciato la legittima difesa. E subito dopo, con un annuncio a sorpresa che ha ribaltato la posizione tenuta dall’Italia negli ultimi due anni, ha reso noto che l’Italia non firmerà il Global compact for migration lanciato dall’Onu nel 2016, e addirittura non parteciperà al vertice di Marrakech del 10 e 11 dicembre che dovrebbe dare il via operativo a quegli accordi decisi a New York nel settembre di due anni fa.
Di fronte all’onda alta delle migrazioni, il Global compact, sostenuto da Obama, provava a introdurre elementi di governo, di razionalità e anche di integrazione e di solidarietà, o almeno di rispetto dei diritti umani, per garantire "una migrazione sicura, ordinata e regolare". Lo scopo era quello di rafforzare la cooperazione globale per gestire i fenomeni migratori supportando i Paesi più coinvolti nel salvataggio e nell’accoglienza, " proteggendo la sicurezza, la dignità, i diritti e le libertà fondamentali di tutti i migranti", integrandoli con programmi di sviluppo, combattendo "xenofobia, razzismo e discriminazione". Dopo gli impegni presi a New York, si trattava adesso di passare agli impegni concreti e ai mezzi di attuazione.
E si capisce perfettamente che l’Italia di oggi non c’entri nulla con il Global compact, come l’America di Trump, che infatti l’ha già respinto. Ieri il premier Conte, seguendo Salvini, ha annunciato che rimetterà la questione della firma al Parlamento. Ma è chiaro che sia sul piano teorico, dei principi, che sul piano pratico, degli impegni, la maggioranza guidata da Lega e Cinque Stelle guida il Paese in una direzione opposta, quella del nazionalismo sovranista. « Il Global compact distrugge di fatto i confini e gli Stati nazionali — spiega Giorgia Meloni — favorendo l’immigrazione incontrollata».
È la paura che ritorna, tenendosi tutta insieme, come qualcosa che non si può più separare. La paura dell’uomo che spara, la paura di tentare un governo responsabile della migrazione, la paura dei buoni principi, la paura dello straniero. Purché il Paese viva come in un incubo, non apra le sue porte e le sue finestre, non si riprenda le strade e le piazze, sbarrate da quei politici che come i monaci battenti del Medioevo sembrano ripeterci: ricordati di avere paura. Poi arriverà qualcuno, bucherà la bolla del grande spavento, e ricomincerà la politica.

il manifesto 29.11.18
Arci
Più cultura e meno paura
di Francesca Chiavacci, Stefano Cristante


Perché cercare di mettere insieme la più grande associazione culturale italiana e l’università? Perché entrambi sono “di strada” per i cittadini, cioè entrambi sono luoghi sociali che rientrano con facilità negli itinerari possibili per chi vuole apprendere e riflettere (ed eventualmente darsi da fare).
L’Arci ha da poco compiuto sessant’anni e ha appena lanciato, con più di duecentocinquanta eventi previsti in sette giorni, la propria campagna pubblica e di opinione sul fatto che al nostro paese servono più cultura e meno paura. I tempi in cui viviamo pullulano di propaganda, di pregiudizi e di scelte strategiche sbagliate. Una riprova è che la stessa università, negli ultimi decenni e ancora oggi, è stata considerata dai governanti una non-priorità, ovvero un sistema da sotto-finanziare e di cui curarsi il meno possibile. All’università sono stati riservati tagli micidiali proprio durante gli anni più gravi della crisi economica e finanziaria, quando molti altri paesi europei hanno fatto esattamente il contrario, aumentando il budget per l’istruzione.
Le tasse per gli studenti si fanno più care, scarseggia la dotazione di borse di studio, il numero dei nostri laureati è tra gli ultimi in Europa. Vi è una situazione sempre più grave nel turn-over tra i docenti, con tanti pensionamenti non sostituiti da nuova occupazione e l’estendersi drammatico dell’area del precariato. Senza investimenti la didattica e la ricerca vanno avanti come possono, cioè con grandi sforzi individuali che il sistema indirizza verso un’esasperata competizione per risorse scarsissime.
Eppure nelle nostre Università ci sono centinaia e centinaia di giovani ricercatori e di docenti che elaborano una gran quantità di contenuti e di idee su temi di enorme interesse pubblico come l’energia, l’ambiente, i diritti, le disuguaglianze, l’informazione, le tecnologie, l’arte. Ricercatori e docenti che spesso faticano a trovare luoghi non accademici dove incontrare persone con le quali condividere e discutere il proprio sapere.
Ecco perché l’Arci ha fatto propria la suggestione di un’università “di strada”: si tratta di una serie di incontri e di lezioni che potranno essere ospitati nei circoli associativi e in ogni altro luogo delle nostre città (librerie, sale pubbliche, scuole, pub, ecc.) dove presentare idee e analisi sulla società e su ciò che riteniamo sia prioritario per una discussione propositiva sulla fase che attraversiamo. Ad animare le lezioni dell’Università di strada saranno ricercatori ed esperti (non solo accademici) capaci di affrontare temi che solitamente i mezzi di comunicazione di massa trattano con superficialità o su cui direttamente sorvolano. L’Arci metterà a disposizione del progetto i propri circoli e offrirà un coordinamento nazionale alla rete dell’Università di Strada, il cui rettore sarà una personalità dall’energia e dall’esperienza non comune come Luciana Castellina. Nel frattempo stiamo raccogliendo le adesioni di docenti, ricercatori ed esperti in modo da poter offrire ai circoli e agli altri luoghi che ospiteranno le lezioni dell’Università di strada una serie di argomenti su cui organizzare i nostri eventi, piccoli o grandi che siano.
Partiremo proprio nei prossimi giorni, offrendo due appuntamenti d’assaggio, uno al Nord (a cura di Arci Cremona, presso l’Antica Osteria del Fico) e uno al Sud (al circolo La Ferramenta dell’Arci di Lecce, città dove è nata la prima sperimentazione di Università di strada grazie a Lecce Bene Comune). Nelle prossime settimane definiremo nuove date e nuovi appuntamenti, contando su un rapido aumento delle adesioni, anche collettive, tra cui già segnaliamo quella dell’Adi, l’associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani.
Per ora sono circa quaranta le sedi Arci che hanno richiesto di ospitare le lezioni dell’Università di Strada.
Molti, soprattutto a sinistra, si lamentano di come gli intellettuali non riescano a riannodare una connessione sentimentale con il proprio popolo. Noi proviamo a cimentarci nell’impresa, dal basso e senza grandi budget, contando sulla passione per il sapere e sulla sua condivisione collettiva.

La Stampa 29.11.18
Il ministro e la legittima difesa fatta sulla rete
di Marcello Sorgi


La vicenda del gommista Fredy Papini, di Monte San Savino (Arezzo), che esasperato dopo una quarantina tra furti e tentativi di furto subiti, ha ucciso a colpi di arma da fuoco il giovane moldavo Vitalie Tonjoc, rischia di diventare emblematica grazie alla solidarietà militante fornitagli dal ministro Salvini, personalmente, in tv e sui social. Ed è proprio sulla rete che un disgraziato che era andato a vivere nella sua officina, per poterla meglio sorvegliare, e ha sparato appena i ladri vi hanno messo piede, è stato trasformato in una specie di eroe, prima ancora che sia chiaro come siano andati i fatti. Papini è indagato per eccesso di difesa. Ma Salvini ha promesso al più presto una nuova legge sulla legittima difesa, per rendere legale proteggere a mano armata la propria casa o il proprio posto di lavoro. Proprio quest’aspetto - la possibilità, cioè, di introdurre una specie di automatismo nella difesa personale, saltando la necessaria valutazione dei comportamenti affidata alla magistratura - era stato al centro anche del precedente dibattito parlamentare, con divisioni, non solo tra destra e sinistra, ma anche all’interno della sinistra.
Salvini invece ha preso spunto al volo, diffondendo subito in rete l’hashtag #iostoconfredy, che ha avuto immediatamente un record di rilanci e condivisioni, sull’onda dell’emozione per quanto accaduto nel piccolo comune vicino ad Arezzo e anche del riserbo tenuto dallo sparatore, che non ha voluto rispondere al telefono a Salvini. Logico immaginare che non sarà facile, a questo punto, per il magistrato, dopo la pubblica assoluzione da parte del ministro e della rete, valutare se vi sia stato o no eccesso di difesa. Così, attorno alla controversa questione della legge che il governo vuol cambiare, non solo la legittima difesa, ma il normale fondamento dello Stato di diritto viene rimesso in discussione. Perché appunto le leggi dovrebbe farle il Parlamento, la magistratura applicarle, lasciando al governo il compito dell’amministrazione. Qui invece il ministro la legge se l’è fatta sulla rete, l’ha applicata personalmente concedendo pubblica assoluzione al gommista che ha ucciso il ladro, senza lasciare al giudice neanche il tempo di fiatare.

il manifesto 29.11.18
Approvato «Codice Rosso», priorità alla violenza domestica
Giustizia. Il ddl firmato dai ministri Bongiorno e Bonafede velocizza l'iter giudiziario per denunce di stupro, maltrattamenti e atti persecutori. Ma continuano i tagli ai servizi sul territorio.
di Shendi Veli


La violenza di genere non può aspettare. É affermato nel disegno di legge «Codice Rosso» approvato ieri dal Consiglio dei Ministri. La misura, annunciata dal premier Conte lo scorso 25 Novembre nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne, nasce dalla collaborazione dei due alleati di governo. I primi due firmatari sono infatti la Ministra della Pubblica Amministrazione Bongiorno, già impegnata nella lotta alla violenza di genere con la fondazione «Doppia Difesa», e il ministro della Giustizia Bonafede.
IL PROVVEDIMENTO modifica il Codice di Procedura Penale in cinque punti. Ad esempio con la rettifica dell’articolo 347 si estende ai reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni gravi, compiuti da parenti o conviventi della vittima, l’obbligo per le forze di polizia di trasferire con immediatezza la denuncia alla procura senza poterne valutare l’ urgenza. Precedentemente la tempestività di queste comunicazioni ai pm era invece arbitraria.
È IL RICONOSCIMENTO dell’urgenza, come elemento imprescindibile nella trattazione dei casi di violenza sulle donne, il principio che ispira tutto il disegno di legge. Anche per le procure i tempi vengono ridotti . Infatti i pm avranno adesso massimo tre giorni di tempo dalla ricezione della notizia di reato per ascoltare e registrare la testimonianza della vittima. Modificato anche l’articolo 370 del Cpp che ora impone alla polizia giudiziaria di istituire un canale preferenziale per le indagini che riguardano i reati sopracitati. Anche le forze dell’ordine sono coinvolte dal provvedimento. Polizia e Carabinieri dovranno attivare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge dei corsi di formazione per gli agenti, al fine di implementare le competenze utili ad affrontare i casi di violenza e a relazionarsi con gli uomini maltrattanti dentro gli istituti penitenziari.
SI TRATTERÀ DI UNA MISURA a costo zero, al punto 5 del ddl viene specificato che l’implementazione non dovrà comportare costi aggiuntivi. È proprio l’assenza di fondi per il trattamento e la prevenzione della violenza di genere uno degli elementi più contestati a questo governo dal movimento eterogeneo che la scorsa settimana è sceso in piazza. In prima fila lo scorso sabato a Roma c’erano centri anti-violenza, consultori e spazi femministi che hanno espresso preoccupazione per la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici per i servizi sul territorio. Ma anche per l’attacco all’autonomia degli spazi femministi in molte città dove Lega e M5S governano. Luoghi che costituiscono il primo rifugio sicuro per tante donne, spesso migranti, che fuggono situazioni violente.
«UN PROVVEDIMENTO opportuno» commenta la rete dei centri anti-violenza DiRe «ma in contraddizione con altre misure del governo come il dll Pillon. Invece è necessario un cambio della cultura giuridica, servono politiche integrate e non interventi estemporanei». Nel frattempo i fondi per i centri antiviolenza stanziati alle regioni nel bilancio 2018 non sono ancora stati trasferiti. Mentre nella manovra attuale si prevede un taglio di 500 mila euro all’anno al Fondo per le pari opportunità, nel triennio 2019-2021.

La Stampa 29.11.18
La legittima difesa e i suoi limiti
di Vladimiro Zagrebelsky


La legge stabilisce che non è punibile chi ha commesso un fatto che costituisce reato, «per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». Si tratta normalmente della reazione difensiva dell’aggredito contro l’aggressore, con l’uccisione o il ferimento di quest’ultimo.
Ogni vicenda di questo tipo è specifica e diversa da un’altra, non solo perché diversa può essere la natura e l’attualità del pericolo. Legato alle particolarità della vicenda concreta è soprattutto l’elemento della proporzione tra la difesa e l’offesa. La legge prevede che sia esente da pena chi commette un reato quando vi è costretto e, in proposito usa termini stringenti come necessità e proporzione. Quando poi chi agisce eccede nella difesa e per colpa va oltre ciò che è necessario e proporzionato nella considerazione dei valori in gioco, la legge prevede la punibilità del fatto a causa dell’eccesso colposo. Ma nell’eccesso deve esservi colpa. Lo stato psicologico di chi ha agito deve essere ricostruito. Non è facile in molti casi accertare la necessità e la proporzione, poiché si tratta evidentemente di valutare la natura e la gravità del pericolo come appariva al momento in cui vi è stata la reazione difensiva ed anche accertare che non fosse possibile una difesa efficace, ma meno gravosa per chi la subisce. Per permettere di arrivare a un tale giudizio vengono sempre svolti gli accertamenti giudiziari utili nel caso concreto. Se l’offensore è stato ucciso, ad esempio, si esegue l’autopsia per vedere se sia stato colpito di fronte o se invece stava scappando, poiché la circostanza pesa nel giudizio sulla necessità e proporzione della reazione. Non ogni reazione a un pericolo ingiusto è difensiva, non ogni difesa è proporzionata. Subito dopo il fatto quasi mai è possibile farsi un’opinione, cosicché non si comprende come siano possibili prese di posizione e schieramenti prima di ogni accertamento. Sembra quasi che uccidere un ladro sia sempre legittimo. Chi però spara al ladro che fugge non si difende; reagisce, ma non si difende. Una indagine è dunque necessaria.
Con l’intenzione di sollevare dal peso degli accertamenti giudiziari chi nel pericolo ha reagito uccidendo o ferendo nel 2006 il codice penale è stato modificato sul punto della proporzione della reazione offensiva. L’intenzione era di eliminare la valutazione giudiziaria del singolo caso e prevedere una presunzione di proporzione dell’uso di un’arma legittimamente detenuta per difendere la propria o l’altrui incolumità o i beni propri o altrui contro chi si sia introdotto in una abitazione, sempre che non vi sia desistenza e vi sia pericolo di aggressione. Ora una proposta di ulteriore modifica è in discussione in Parlamento. Si vuole aggiungere che si tratta sempre di difesa legittima nel caso di un atto compiuto «per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica da parte di una o più persone». Come si vede sia nella riforma del 2006 che in quella che è ora in discussione, giustamente si prevede che in ogni caso ci deve essere pericolo di aggressione fisica.
L’intenzione è sempre quella di stabilire per legge casi in cui la proporzione della reazione è presunta. Si crede cioè o si vuol indurre a credere che così facendo si eviteranno le indagini giudiziarie a chi, in quelle circostanze, reagisce uccidendo o ferendo. Ma un tale risultato è impossibile da ottenere. I casi previsti o che si vuole introdurre nella legge, dopo le indagini già danno normalmente luogo a un giudizio di proporzione, e, tenendo conto dello stato d’animo di chi si sente in pericolo, raramente un eccesso è ritenuto punibile perché colposo.
Ma tutte le condizioni che permettono di dire che la reazione a un pericolo costituisce difesa legittima richiedono accertamenti. Si può anche stabilire una presunzione di proporzione, ma se in concreto la proporzione o la necessità non ci sono è la difesa stessa che va esclusa. Qualunque sia la formulazione della legge che prevede la legittima difesa, quella originaria del codice del 1930, quella modificata nel 2006 o quella ulteriore che è in discussione sarà sempre necessaria l’indagine penale. Essa tra l’altro, oltre che dalla legge italiana, è imposta dalla Convenzione europea dei diritti umani nel caso in cui vi sia morte di una persona. L’indagine richiede che sia consentito a chi ha agito di far valere le sue ragioni (l’informazione di garanzia questo permette). Certo il processo è di per sé penoso, ma non si potrà mai evitarlo modificando ancora la legge sulla difesa. Insomma sul piano legale e giudiziario queste modifiche cambiano poco o nulla. Pericolosamente possono però lanciare un messaggio: si può sparare di più.

Repubblica 29.11.18
Il voto alla Camera sulla stretta anti-profughi
Fico diserta l’aula, con lui 10 ribelli
Il capogruppo D’Uva: " Il direttivo valuterà se prendere provvedimenti contro gli assenti non giustificati"
di Annalisa Cuzzocrea


Roma Quattordici deputati del Movimento 5 stelle non hanno partecipato al voto finale sul decreto sicurezza e immigrazione di Matteo Salvini. Dieci non giustificati. E Roberto Fico, volutamente, non ha presieduto l’aula. Il presidente della Camera non è intervenuto in queste settimane per non ostacolare il lavoro del Parlamento, ma ha voluto dare un segno tangibile del suo dissenso. Così come hanno fatto alcuni dei 16 parlamentari che avevano provato ad avvertire il capo politico Luigi Di Maio, chiedendo con una lettera che ci fosse la possibilità di migliorare il decreto.
Hanno subìto il giochino dei cinque emendamenti prima presentati e poi ritirati. Hanno accettato di votare la fiducia, lunedì, per obbedienza alla linea. Ma ieri, non ce l’hanno fatta. Così, oltre ai 22 deputati M5S in missione, non hanno partecipato al voto Gloria Vizzini, Gilda Sportiello, Doriana Sarli, Riccardo Ricciardi, Veronica Giannone, Yana Chiara Ehm, Santi Cappellani, Valentina Barzotti. A loro si sono uniti Luigi Gallo, presidente della commissione cultura, fichiano, e Federica Daga. Mentre il capogruppo Francesco D’Uva considera "giustificati" per motivi personali Paola Carinelli, che non ha mai dissentito su nulla e che stava allattando, Francesca Businarolo, Sara Cunial e Leonardo Penna. Come verrà sanzionata l’azione degli altri, dice D’Uva, «sarà decisione del direttivo». Che di certo, sentirà prima Di Maio, alle prese con una ribellione inaspettata. Ai firmatari della lettera era stata promessa più condivisione, tutto sembrava sanato. Ma non era così e in questi giorni i " malpancisti" lo hanno dimostrato facendo gruppo, confrontandosi sulle panchine in cortile, parlando di quanto la decretazione d’urgenza sia lesiva delle prerogative parlamentari in casi come questo in cui, spiega uno di loro, «di urgente non c’è proprio nulla». Sanno quel che dicono. La ventottenne italo-tedesca Ehm parla cinque lingue e ha una specializzazione in migrazioni e mondo arabo. Doriana Sarli — accasciata su un divanetto — nel pomeriggio spiegava di non aver ancora deciso cosa fare. Di non voler mancare di rispetto al gruppo, che sul testo ha lavorato bene fino a che gli è stato consentito dalla Lega. « Votare la fiducia e non votare il provvedimento sarebbe una contraddizione — ammetteva — ma qui dentro, di contraddizioni ce ne sono tante».

il manifesto 29.11.18
Cucchi, sospesa l’azione disciplinare per i carabinieri
Processo bis. Il perito del pm: «L’epilessia non è causa di morte».
di Eleonora Martini


Deve essere stato il ricorso al Tar presentato dai legali del vicebrigadiere Francesco Tedesco – il carabiniere che ha denunciato i suoi due colleghi e co-imputati nel processo bis, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, di aver pestato violentemente Stefano Cucchi subito dopo averlo arrestato – a convincere l’Arma che era giunto il momento di sospendere il provvedimento disciplinare di Stato emesso nei confronti del testimone chiave. Provvedimento che avrebbe potuto portare alla destituzione e al licenziamento del carabiniere, e che è stato notificato a Tedesco nello stesso giorno in cui si era presentato davanti ai magistrati per raccontare quel che sapeva delle violenze e del depistaggio.
«Ricordo perfettamente il giorno in cui il signor Tedesco è arrivato da noi per essere interrogato – ha raccontato ieri in aula il pm Giovanni Musarò chiedendo l’acquisizione degli atti -: continuava a ricevere telefonate perché l’Arma doveva notificargli con urgenza, chissà perché proprio quel giorno, l’avvio dell’inchiesta disciplinare». La richiesta da parte del militare di sospensione del procedimento, in attesa della sentenza penale, era stata rigettata. Fino a che, il 21 novembre scorso, gli avvocati Eugenio Pini e Francesco Petrelli, che difendono il carabiniere “pentito”, hanno presentato ricorso al Tar. Immediatamente, il giorno dopo, l’Arma ha sospeso il provvedimento.
La Corte d’Assise (composta da 13 giudici popolari, 10 donne e tre uomini, e due magistrati) ha però rigettato la richiesta del pm di acquisire agli atti del processo la cospicua documentazione relativa al provvedimento disciplinare, rinviando l’eventuale ingresso del fascicolo a dopo l’esame dell’imputato. La richiesta è stata condivisa dalle parti civili e dalla difesa di Tedesco, ma osteggiata dai difensori degli altri carabinieri imputati, malgrado – stando a quanto riferito al manifesto dall’avvocata Maria Lampitella, che difende D’Alessandro – il procedimento disciplinare sia stato «avviato, e poi sospeso una settimana fa, anche per gli altri due imputati accusati di omicidio preterintenzionale». Ma da parte loro non c’è stato alcun ricorso al Tar, «perché non ci è arrivata la notifica di rigetto della richiesta di sospensiva», assicura l’avv. Lampitella.
Il provvedimento dunque sembra aver avuto un effetto simil «intimidatorio» (come è stato definito dalle parti civili) solo per il vicebrigadiere Tedesco che ha denunciato i suoi due colleghi e la sparizione, dagli archivi della caserma Appia, della sua notazione di servizio redatta il 22 ottobre 2009, appena seppe della morte di Stefano Cucchi.
Stefano Cucchi
Morte che non è da ritenersi dovuta all’epilessia, malattia di cui il giovane geometra romano soffriva ma che è stata esclusa dalle cause possibili del decesso dal neuropsichiatra Federico Vigevano, consulente tecnico della procura che ieri in aula ha illustrato i risultati dello studio. Un punto di vista sostanzialmente condiviso anche dal neurologo e psichiatra prof. Bruno Iandolo, che aveva avuto in cura Cucchi e che lo ha definito «un paziente attento e scrupoloso, e soprattutto molto seguito dal padre che lo accompagnava sempre». Di sicuro, ha inoltre aggiunto il prof. Vigevano – contraddicendo i periti nominati dal gip nella fase delle indagini, che nel corso dell’incidente probatorio sostennero l’impossibilità di risalire a una causa certa di morte, propendendo però per una crisi epilettica che avrebbe colpito nel sonno Stefano – è emerso un «disturbo post-traumatico da stress durante la degenza in ospedale» e «un atteggiamento di chiusura del paziente sul piano psicologico che rientra nei sintomi dei disturbi post-traumatici».
E sì, perché Stefano Cucchi era un giovane fragile, come è emerso ieri in aula dalle testimonianze di chi lo conosceva meglio. «Aveva scarsa autostima, era un ragazzo speciale ma non sapeva di esserlo», ha raccontato la cugina Viviana ricordando un giorno in cui Stefano si presentò a casa sua un po’ depresso, e poi la cena del suo ultimo compleanno, l’1 ottobre 2009, quando «si era preoccupato di far preparare una torta senza glutine per sua sorella Ilaria».
Un ragazzo fragile dunque ma che ce la stava mettendo tutta per riprendersi dopo il periodo della tossicodipendenza: «Veniva ad allenarsi quasi tutti i giorni in palestra, e lo faceva con una gran foga», malgrado fosse «troppo esile, magro e piccolo di statura per sostenere incontri diretti di kick boxing», ricordano l’istruttore e il proprietario della struttura di Tor Pignattara dove Stefano è entrato l’ultima volta il 15 ottobre 2009 alle 18,59. Una manciata di ore prima di essere arrestato, sei giorni prima di morire.

il manifesto 29.11.18
Poliziotti egiziani indagati dalla Procura di Roma
Egitto/Italia. Ieri dal Cairo, dove ha incontrato gli inquirenti egiziani, il team di Piazzale Clodio ha annunciato per i prossimi giorni l'iscrizione nel registro degli indagati dei poliziotti e i funzionari dei servizi ritenuti responsabili dell'omicidio del giovane ricercatore
di Chiara Cruciati


La Procura di Roma ha mosso ieri un altro passo della battaglia per la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Dal Cairo, dove ha incontrato gli inquirenti egiziani, il team del sostituto procuratore Colaiocco ha annunciato l’iscrizione nel registro degli indagati di poliziotti e funzionari dei servizi segreti egiziani ritenuti coinvolti.
Un atto dovuto, si precisa, che non rappresenta una rottura della collaborazione con la procura generale del Cairo. Ma che potrebbe dare un’ulteriore spinta a indagini difficilissime, costrette a superare (non sempre con successo) insabbiamenti e silenzi. Chi siano questi soggetti la procura romana lo sa da tempo: agenti di polizia e membri dei servizi sospettati di aver rapito, torturato per giorni e poi ucciso Giulio. Per poi rendersi protagonisti di depistaggi palesi. Soggetti parte integrante della macchina di repressione dello Stato, su cui ricade la responsabilità, non solo su singoli capri espiatori.
L’iscrizione nel registro degli indagati sarà formalizzata in questi giorni ed è stata ieri anticipata agli omologhi egiziani, nel decimo vertice tra procure concluso con una nota congiunta: «Le parti hanno riaffermato la determinazione a proseguire le indagini e incontrarsi nuovamente nel quadro della cooperazione giudiziaria». Colaiocco ha consegnato gli esiti delle indagini sul lavoro di ricerca del giovane.
E da parte sua la procura egiziana ha dato conto dei «buchi» nei famosi video delle telecamere di sorveglianza delle stazioni metro del Cairo: quei «buchi» (dopo due anni di insistenza romana, erano stati messi a disposizione di una compagnia russa che era riuscita però a recuperare solo il 5% dei dati) sono stati spiegati dagli egiziani con la sovrascrittura dei video. Che sia stata voluta o meno – quei video sono rimasti in un ufficio della procura egiziana per due anni – quelle informazioni, preziose, sono ormai date per perse.
Come per perso andrebbe dato il ruolo del governo italiano che non si è mai discostato dal precedente. Solo due settimane fa il presidente al-Sisi è stato accolto dal premier Conte a Palermo, in occasione del vertice sulla Libia. La scorsa estate erano stati i ministri-vice premier Di Maio e Salvini a darsi il cambio alla corte del dittatore, insieme al titolare degli Esteri Moavero. Senza pressioni politiche, il lavoro di Piazzale Clodio è sempre più in salita.

Corriere 29.11.18
Inchiesta I pm al Cairo: collaborazione inadeguata
Regeni, Roma accusa gli 007 egiziani
di Giovanni Bianconi


Le pressioni sul governo di Al Sisi esercitate a più riprese dai governanti italiani per cercare la verità sulla morte di Giulio Regeni non hanno avuto risposte concrete. Così, ieri, dopo l’ennesimo nulla di fatto a seguito dell’incontro al Cairo tra la delegazione dei pm di Roma e il Procuratore generale d’Egitto, gli inquirenti italiani hanno fatto sapere che iscriveranno nel registro degli indagati gli 007 egiziani scoperti dai carabinieri del Ros e dallo Sco della polizia e sospettati di avere avuto un ruolo nel sequestro e nei successivi depistaggi.
ROMA Ufficialmente, il decimo summit tra inquirenti italiani e egiziani impegnati nell’inchiesta sul rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni è servito a «riaffermare la determinazione a proseguire le indagini e incontrarsi nuovamente nel quadro della cooperazione giudiziaria, sino a quando non si arriverà a risultati definitivi nell’individuazione dei colpevoli». Come da rituale comunicato congiunto. Tuttavia la decisione della Procura della Repubblica di Roma di iscrivere sul registro degli indagati i nomi di alcuni ufficiali della polizia e dei servizi segreti locali per il reato di sequestro di persona, comunicata dal pubblico ministero Sergio Colaiocco ai colleghi del Cairo, sancisce l’insoddisfazione per i risultati raggiunti finora dalla magistratura egiziana. E il fallimento della via diplomatica all’accertamento della verità sulla morte del ricercatore friulano, scomparso il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere una settimana più tardi.
Tutti i tentativi della politica italiana ai suoi più alti livelli di convincere il presidente egiziano Al Sisi a imprimere una svolta alle indagini — le ultime rassicurazioni fornite al premier Conte risalgono al 13 novembre scorso — si sono rivelati inutili. Gli ultimi elementi di novità sono datati agosto 2017, dopo i quali il governo di Roma decise di rispedire al Cairo l’ambasciatore ritirato l’anno precedente. Da allora non è cambiato niente, e la riprova s’è avuta l’altro ieri. All’ordine del giorno dell’incontro tra magistrati al Cairo c’era la risposta al quesito posto dalla Procura di Roma sui «buchi» rilevati a maggio nei nastri delle telecamere della stazione della metropolitana in cui Regeni entrò la sera in cui è sparito. Proprio negli orari d’interesse. Era un accertamento richiesto a maggio, ma gli egiziani l’hanno trasmesso ai tecnici della società russa incaricata solo il 23 novembre, una settimana fa. E la risposta dice, in estrema sintesi, che sono cose che capitano.
Troppo poco per non provocare uno strappo che il procuratore Giuseppe Pignatone ha giudicato inevitabile. Nel 2017 lui e il sostituto Colaiocco avevano affidato ai poliziotti del Servizio centrale operativo e ai carabinieri del Ros l’analisi dei tabulati telefonici e delle testimonianze ricevute dall’Egitto, attraverso la sovrapposizione dei movimenti di alcuni funzionari della Sicurezza egiziana con quelli di Regeni. Ne è scaturita un’informativa in cui si evidenzia il forte sospetto che il ricercatore sia stato sorvegliato e seguito da almeno cinque uomini della National Security (individuati con nome e cognome: il maggiore Magdi Abdlaal Sharig, il capitano Osan Helmy e altri tre), fino al 22 gennaio. E che avrebbero ricominciato il 25, data della scomparsa.
L’informativa degli investigatori italiani è stata consegnata agli egiziani, perché prendessero atto dei risultati e procedessero a ulteriori indagini. Fino all’eventuale incriminazione dei sospettati. Ma dopo un anno non è cambiato nulla, e nella riunione di due giorni fa i magistrati locali hanno ribadito che gli elementi raccolti non sono sufficienti per celebrare un processo. Affermazione plausibile, ma non sufficiente a giustificare il sostanziale immobilismo degli ultimi dodici mesi. Di qui la decisione dei pm romani di inquisire autonomamente quei cinque nomi secondo le regole del codice italiano, per provare a svolgere ulteriori verifiche che certo da qui non sono agevoli. Ma non c’è alternativa.
Il ruolo della Procura di Roma, in questa vicenda, è sempre stato di stimolo e super-visione su un’indagine condotta necessariamente dalle autorità egiziane; sia perché ne sono titolari in prima battuta, sia perché solo loro hanno gli strumenti tecnici e giuridici per agire nel proprio Paese. Oggi si può dire che quel controllo ha portato a un giudizio di insufficienza, quanto meno nella determinazione a raggiungere il risultato di accertare come si sono svolti i fatti. E la riposta giudiziaria assume inevitabilmente anche una valenza politica.
Dai giorni del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio Regeni in Italia si sono susseguiti tre governi, guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte. Tutti — come pure altri rappresentanti istituzionali, da ultimo il presidente della Camera Roberto Fico — hanno sempre affermato di aver chiesto e ottenuto garanzie sull’impegno dell’Egitto a scoprire la verità. Promesse vane, secondo ciò che ha potuto certificare la magistratura. In attesa che la parola torni alla politica e alla diplomazia.

Repubblica 29.11.18
Il fallimento della diplomazia
La grande ipocrisia di Stato che nasconde la verità su Giulio
Le visite di Salvini e Di Maio, il sostegno a Conte sulla Libia hanno convinto il regime a ignorare le richieste dei pm
di Carlo Bonini


ROMA La finzione è dunque caduta. E la decisione della Procura di Roma di procedere unilateralmente alle prime iscrizioni nel registro degli indagati per sequestro di persona di ufficiali dell’Intelligence egiziana, nel restituire l’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni alle regole del nostro processo penale, non segna affatto una svolta nell’accertamento della verità ma, piuttosto, mette a nudo la catastrofe della nostra diplomazia e della sua ipocrisia.
Fa giustizia di una cooperazione giudiziaria che, dal dicembre del 2017, al netto dei salamelecchi dei comunicati ufficiali «congiunti» , non si è mossa di un centimetro, fotografandola per quel che è diventata. Un simulacro, al riparo del quale, il governo dei triumviri Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Luigi Di Maio e lo stesso presidente della Camera Roberto Fico, hanno di fatto firmato la nostra resa al Cairo.
È una verità che è possibile apprezzare se solo si sovrappongono il canovaccio della nostra interlocuzione con Al Sisi negli ultimi sei mesi e lo stallo della cooperazione giudiziaria. Un teatro avvilente.
Che apre le sue quinte nel luglio scorso. La famiglia Regeni viene ricevuta a Montecitorio, dove incontra il premier Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, il Presidente della Camera Roberto Fico. Paola e Claudio, i genitori di Giulio, vengono rassicurati sulla circostanza che il cambio di maggioranza politica nel Paese non segnerà alcun cambio di rotta nel complicatissimo rapporto con il Regime egiziano. Che Roma ha una dignità cui non abdicherà.
È una penosa bugia. O, comunque, presto si rivela tale. Il rapporto di forza tra Al Sisi e Roma, che già si era capovolto a vantaggio del primo nell’estate del 2017, quando, a Ferragosto, era stato deciso dal governo Gentiloni il rientro del nostro ambasciatore al Cairo, è infatti ancora più sbilanciato. La Farnesina ha bisogno come l’aria di Al Sisi per riguadagnare una qualche centralità nella partita che si gioca sugli assetti della Libia e per accedere a uno dei suoi protagonisti chiave. Quel generale Haftar che di Al Sisi è la longa manus nella Cirenaica.
Matteo Salvini ha bisogno come l’aria di un gendarme affidabile che metta in sicurezza (minaccia terroristica e migranti) la nostra frontiera nel Mediterraneo. E dunque non è un caso che, pochi giorni dopo quel colloquio con i Regeni, Salvini arrivi al Cairo per «negoziare» con Al Sisi un pacchetto di impegni che tenga insieme terrorismo, migranti e «la verità sull’omicidio di Giulio». Per giunta, alla presenza del ministro dell’Interno egiziano. Quel Majdi Abdel Ghaffar che del sequestro, tortura e omicidio di Giulio conosce e manipola la verità dal febbraio del 2016.
Del resto, nell’estate della nostra diplomazia prêt-à-porter, a Salvini, a fine agosto, segue Luigi Di Maio. Anche lui al Cairo.
Anche lui a colloquio con Al Sisi.
Un’apparizione che serve a guadagnare un titolo in cronaca: «Di Maio: "Al Sisi ha detto che Regeni è uno di loro. E la svolta arriverà entro l’anno"» .
Nell’enfasi di Di Maio — «svolta» è parola sconosciuta a chi soltanto abbia una nozione elementare della diplomazia in Medioriente — c’è tutto il dilettantismo di un Paese che si è appena definitivamente consegnato al regime egiziano. E la prova è nella cosiddetta cooperazione giudiziaria. Ibernata dal dicembre del 2017 in ragione del doppio appuntamento politico cui erano attesi i due Paesi in marzo (elezioni in Egitto e in Italia), in quell’estate viene aggiornata dal regime a "data da destinarsi". E salta, senza che il Cairo ne dia alcuna spiegazione, l’incontro previsto tra i magistrati dei due Paesi per tirare una linea rispetto alle responsabilità dell’Intelligence egiziana (così come documentata nel dicembre 2017 da Ros dei Carabinieri e Sco della Polizia).
L’autunno non inizia meglio. In settembre, al Cairo, si presenta alla porta di Al Sisi il presidente della Camera Roberto Fico. Dal colloquio, il presidente della Camera, esce con parole che, nella certezza dell’indicativo, accreditano una sorta di ultimatum che tuttavia suona eccentrico nella sua distanza dal canovaccio del Governo. «Ho tenuto molto a dire al presidente egiziano — spiega Fico — che su Regeni non arretreremo mai.
Senza la verità i rapporti tra Egitto e Italia resteranno tesi» .
Sarà. È un fatto che mentre Fico, in solitudine, fa la voce grossa, il nostro ministro degli Esteri Moavero lavori ventre a terra per portare alla Conferenza sulla Libia, prevista a Palermo in novembre, proprio Al Sisi e Haftar. È un fatto che il Regime si accanisca su Amal Fathy, donna strumentalmente detenuta perché moglie di uno dei consulenti legali dei Regeni al Cairo. È un fatto che a Conferenza di Palermo chiusa, l’incontro rinviato per sei mesi con i magistrati italiani si risolva in un’ennesima beffa. Con buona pace della «svolta» e della «verità» da cui non si vorrebbe recedere.

il manifesto 29.11.18
Gemelle ogm, a rischio di mutazioni del tutto indesiderate
Genetica. He Jiankui ha confermato di aver modificato in provetta gli embrioni prima di impiantarli nell’utero
di Andrea Capocci


Mentre in Italia era notte fonda, il biotecnologo cinese He Jiankui ha presentato al mondo i suoi esperimenti sugli embrioni geneticamente modificati. Lo ha fatto da Hong Kong, nel bel mezzo del secondo summit internazionale sulla modifica genetica in cui i maggiori scienziati del settore aggiorneranno le linee guida bioetiche su ciò che si può fare o no con il Dna. Quando il chairman lo ha chiamato sul palco, sono passati trenta lunghissimi secondi di suspense prima che He sbucasse con la sua valigetta. Di fronte a una sala gremita di giornalisti, il trentaquattrenne Jiankui ha raccontato la sua versione dei fatti in una conferenza che, in ogni caso, passerà alla storia.
Più che a un convegno, è sembrato di assistere a una puntata della serie distopica Black Mirror. Lo scienziato ha confermato di aver modificato in provetta embrioni prima di impiantarli nell’utero della madre, che avrebbe così partorito due gemelle Ogm. La tecnica Crispr-Cas9 ha funzionato in uno dei due embrioni, a cui è stato disattivato il gene Ccr5 collegato alla proteina a cui si «aggrappa» il virus Hiv per penetrare nelle cellule del sistema immunitario.
HE SI È SCUSATO per le modalità inusuali con cui la scoperta è stata rivelata (uno scoop dell’Associated Press). Avrebbe preferito aspettare la pubblicazione di un articolo scientifico attraverso il processo di revisione da parte degli esperti, come avviene tradizionalmente nelle riviste autorevoli. Il reclutamento dei volontari è avvenuto attraverso un’associazione di pazienti sieropositivi, a cui appartengono le coppie che si sono prestate. Secondo le parole di He, gli ovuli fecondati sarebbero una trentina, ma solo due sono finora giunti al termine. Una terza gravidanza è in corso, ha annunciato, anche se l’esperimento è «in pausa» a causa del clamore.
Se davvero ha fatto ciò che ha dichiarato, e in molti ne dubitano, He ha violato tutte le regole che la comunità scientifica si è data. Non ha richiesto le autorizzazioni necessarie per effettuare un trial clinico in un settore così delicato. Ha parlato di colleghi negli Usa informati sugli esperimenti, ma senza fare nomi. Per giustificare il suo azzardo, ha citato i sondaggi secondo cui in Cina e negli Usa l’opinione pubblica sarebbe favorevole a simili interventi.
Sulla modifica genetica di embrioni destinati all’impianto uterino vige poi una moratoria internazionale tra gli scienziati, decisa proprio al primo summit di tre anni fa. La tecnica Crispr-Cas9 non è ancora rodata a sufficienza e c’è il rischio che si modifichino parti del genoma non desiderate, generando malattie impreviste magari a molti anni di distanza.
Anche nelle gemelle cinesi sono state individuate mutazioni indesiderate, ma He le ritiene innocue. Come conferma Angelo Lombardo, ricercatore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano e uno dei due italiani invitati a intervenire al summit, «la comunità scientifica è unanime: non siamo ancora pronti e la possibilità di mutazioni non desiderate va considerata caso per caso».
LE UNICHE ECCEZIONI sono previste per malattie gravi e incurabili. Ma non è questo il caso, secondo Lombardo: «per prevenire la trasmissione dell’Hiv per via paterna (il rischio corso dalle gemelle, ndr) esistono altri metodi meno costosi e più affidabili». L’intervento non può essere equiparato a una vaccinazione, spiega, «alcune cellule hanno il gene disattivato, altre no. E poi non funziona con tutte le tipologie di virus Hiv».
COME HA SOTTOLINEATO al summit Robin Lovell-Badge, direttore del Crick Institute di Londra, la disattivazione del gene protegge da Hiv ma aumenta il rischio di contrarre altre malattie, come il virus del Nilo occidentale e l’influenza. Nei topi, e forse è ancora più inquietante, la mutazione conferisce un potenziamento delle abilità cognitive. He non ha fatto una piega: le coppie reclutate sono state informate sui possibili rischi e hanno espresso un consenso informato. Tutto in poco più di un’ora di colloquio, senza consulenti indipendenti.
RIMANGONO diversi punti oscuri sulla vicenda. L’organizzatore del summit David Baltimore ha ribadito la condanna per la scarsa trasparenza, appoggiato da tutti i big. Anche da chi, come George Church di Harvard, in passato si è opposto alla moratoria. «Molti scienziati non sono contrari a priori a intervenire sugli embrioni e c’è una discussione in atto – spiega Lombardo – ma tutti concordano sulla necessità di tecniche più evolute e affidabili di quelle attuali». Errori o scandali rischiano di bloccare un settore con grandi potenzialità terapeutiche ma anche economiche, in campo farmaceutico e agro-alimentare.

il manifesto 29.11.18
Genetica, Balistreri, «il tabù è già archiviato»
di Andrea Capocci


Maurizio Balistreri è ricercatore in filosofia morale all’università di Torino. Insieme al biotecnologo Angelo Lombardo, è stato uno dei due soli esperti italiani intervenuti al summit di Hong Kong. Da anni esplora le implicazioni etiche delle biotecnologie anche alla luce delle nuove tecniche di modifica genetica.
Il suo ultimo libro si intitola Sex robot. L’amore al tempo delle macchine (pp. 282, euro 18, Fandango). Nella sua presentazione ha citato un autore-culto della letteratura di fantascienza: lo scozzese Ken MacLeod, autore nel 2012 di Intrusion (mai tradotto in italiano) in cui i protagonisti curano i difetti genetici dei nascituri con una pillola, proprio come nell’esperimento di He Jiankui, finché le donne si rifiutano di cedere la sovranità sul loro corpo. Anche Balistreri è a Hong Kong per capire in che direzione va la bioetica del Dna.
Il summit ha tra i suoi compiti la revisione delle regole. Cambierà qualcosa dopo la rivelazione dell’esperimento di He Jiankui?
Non credo. L’intenzione era quella di confermare la linea prudente affermata a Washington tre anni fa. La modifica degli embrioni a scopo terapeutico si fa, tranne casi eccezionali: malattie incurabili per le quali non esistono alternative. La condanna di David Baltimore, l’organizzatore della conferenza, e degli stessi scienziati cinesi, che in 122 hanno scritto una lettera per protestare contro l’esperimento di He, va nella stessa direzione.
L’esperimento conserva ancora molte zone d’ombra…
Non mi stupirei se alla fine si rivelasse di uno dei tanti «esperimenti» che non sono mai stati confermati da ricercatori indipendenti. Il settore della fecondazione assistita ne è pieno da sempre, prima ancora che nel 1978 nascesse la prima bimba in provetta. Molti ricorderanno i tantissimi dubbi intorno ai presunti bambini clonati da Severino Antinori, di cui non si è saputo più niente e a cui credono in pochi. Eppure oggi dovrebbero essere ormai cresciuti.
Con tutta la pubblicità che ha ricevuto, il biotecnologo cinese si è esposto a notevoli conseguenze accademiche ma anche penali…
Proprio per questo ho il timore che la realtà possa essere un po’ diversa. He Jiankui ha detto ben poco. Non si sa in quale istituzione sarebbe avvenuto l’esperimento, né con quale autorizzazione. D’altronde, nemmeno Antinori è mai stato condannato per la clonazione, che pure è vietata. Evidentemente…
Forse le autorizzazioni non avrebbe potuto ottenerle, perché la modifica genetica degli embrioni è ammessa eccezionalmente e solo per malattie gravi e incurabili. Secondo gli scienziati, in questa situazione non c’erano le condizioni. Però la modifica genetica degli embrioni non è più un tabù, come poteva essere vent’anni fa, quando la possibilità stessa era esclusa categoricamente. Oggi gran parte della comunità scientifica è orientata ad andare in quella direzione. Ma ci si vuole arrivare sulla base di protocolli ufficiali e riconosciuti.
In ogni caso, l’utilizzo della genetica a scopo di «potenziamento» dell’essere umano è del tutto bandito. Ma esiste una distinzione definitiva tra «terapia» e «potenziamento»?
È un tema di grande dibattito. Gli esperti sono divisi tra chi ritiene che esista una distinzione chiara e chi, come me, crede che non si possa non si possa tracciare una linea di confine netta. Perché noi stessi, anche senza modifica genetica, siamo già «potenziati» rispetto agli umani del passato. L’alimentazione, la medicina, la tecnologia non rappresentano altro che un potenziamento dell’uomo. Nel caso di He Jiankui siamo in una zona ulteriormente sfumata, perché si tratta di prevenire una malattia. Piuttosto, sono stato molto colpito la ricerca sui topi citata del 2016 da Robin Lovell-Badge durante la conferenza di He. Disattivando il gene Ccr5 come ha fatto lui con le bambine, nei topi si osserva un aumento delle capacità cognitive (un aumento della memoria e della plasticità cerebrale, ndr). Non vorrei che l’esperimento sulle bambine puntasse segretamente anche a studiare questi effetti. Nel contesto politico cinese attuale sarebbe uno scenario inquietante, davvero degno di un romanzo di fantascienza.

il manifesto 29.11.18
Tijuana, i naufraghi dell’Impero
Immigrazione. Sulla martoriata frontiera tra i mondi dello sviluppo e dello sfruttamento. I corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di produzione e le esigenze di mercato. L’economia del sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici
di Luca Celada


LOS ANGELES L‘impari battaglia di Tijuana fra i diseredati della caravana e i difensori del confine fortificato della prima superpotenza mondiale ha prodotto l’ultima immagine iconica della crisi migratoria. La madre coraggio in fuga dalle nuvole del gas lacrimogeno sparato dagli agenti di frontiera ha offerto la rappresentazione quasi pittorica di un’immagine che gli automobilisti in California conoscono bene.
I cartelli stradali che sulle autostrade avvertono della presenza di clandestini raffigurano una famiglia in procinto di pericoloso attraversamento della carreggiata, alla stregua di animali selvatici. La paradossale segnaletica rappresenta i profughi come fastidioso impedimento alla viabilità.
La foto della madre che tenta di trarre in salvo le figlie dall’attacco chimico delle falangi dell’impero sulla cui soglia sono naufragate, è progressione naturale di quella normalizzazione, emblema di un epoca di violenza metabolizzata nel profondo.
Il fotogramma si va ad aggiungere ad altri, come quello del bambino affogato sulle spiaggia di turca Bodrum, prodotte dalla guerra transazionale contro i poveri e i deboli, elevati dal nazional populismo globale a nemici della patria e diventati capro espiatorio e ideale strumento per alimentare odio, risentimento e paranoia.
Ora la prima linea di questo conflitto si estende al confine fra Messico e USA. Naturalmente anche gli eventi degli ultimi giorni rimbalzano sugli schermi di media e social nella consueta strumentalizzazione antistorica.
La narrazione trumpista esige un mondo semplificato da dare in pasto alla tifoseria inferocita: le orde barbariche che premono alle mura, respinte dalle truppe mobilitate per difendere Blut und Buden. Lo faranno, tuona il commander-in-chief per il visibilio dei fedeli, a costo di “sigillare i confini”.
È lui per ora il vincitore di questa rappresentazione pilotata che ha riprodotto nel nuovo mondo uno scenario ben noto sulle rotte del Caucaso, del Mediterraneo e delle guerre mediorientali.
La versione di Trump comprende il diabolico comma 22: verranno tollerati unicamente ingressi previa lecita richiesta di asilo, con la simultanea direttiva per cui queste – in barba ad ogni ordinamento internazionale – non vengono accolte.
Ai profughi non è infatti consentito avvicinarsi all’ufficio preposto e in ogni caso, fanno sapere dal dipartimento di Homeland Security, non ci sarebbe il personale sufficiente.
Per i profughi è un efferato limbo kafkiano e più si accalcano i nuovi arrivi più sale la pressione sul governo entrante di Andrés Manuel Lopez Obrador, secondo il preciso disegno che mira ad imporgli un accordo modellato sull’appalto UE alla Turchia per gestire i rifugiati o del sussidio italiano ai campi di tortura libici.
Per questo Trump tiene ostaggio il flusso di confine al varco più trafficato del mondo, linfa vitale per l’economia frontaliera del Messico.
È solo l’ultima variazione sui soprusi che hanno sempre attraversato questo confine sanguinante. Dall’invasione del 1847 costata al Messico metà del proprio territorio, alla rapace egemonia economica degli ultimi due secoli….Sul paese del sud è sempre gravata la perenne minaccia dello scomodo impero settentrionale e tutta la sua storia può essere letta nella chiave di come farvi fronte.
“Pobre México…” si dice ancora qui, “così lontano da dio cosi vicino agli Stati Uniti.”
Sulla “linea” sono transitate generazioni di persone importate come forza lavoro e deportate a seconda dell’utilità politica. Milioni di braccia sono passate ad uso dell’agribusiness industriale del “paniere californiano”.
Due milioni furono caricati su treni e deportati negli anni 30 della grande depressione. “Non abbiamo attraversato il confine,” rivendicano giustamente su ambo i lati della linea gli ispanici nativi di questa terra meticcia: “Il confine ha attraversato noi”.
Ma la realtà è che i corpi umani qui sono sempre stati in balia delle manovre del capitale, dislocati come forza lavoro in base ai programmi di produzione e le esigenze di mercato.
L’economia del sudovest degli Stati uniti si regge sul lavoro degli immigrati ispanici. 12 milioni sono senza permesso, centinaia di migliaia frontalieri.
In alternativa all’import di mano d’opera in nero c’è lo sfruttamento in loco, come avviene delle fabbriche maquiladoras che riforniscono i mercati Usa e che per costi competono con la Cina.
La delocalizzazione di recente è stata adottata anche dall’agribusiness. Oggi zone di agricoltura intensiva come il Valle de San Quintin riforniscono le corporation agricole americane come la Driscoll’s di prodotti a basso costo: è più vantaggioso ormai importare la frutta piuttosto che le persone che la raccolgono sui campi americani.
In questo modo rimangono oltreconfine anche i problemi – e le rivendicazioni – che le persone inevitabilmente si portano appresso.
Su questa martoriata frontiera vengono a contatto diretto i mondi dello sviluppo e dello sfruttamento, il terzo mondo e la spropositata ricchezza di San Diego County.
Oggi che il potere dei mercati si è sposato con quello arcigno di un regime che sottoscrive apertamente la politica eugenetica, i migranti sono diventate comparse in un gioco che alimentata la crisi col proposito specifico di fomentare la tensione ed il risentimento di cui si nutre la nuova barbarie.
Sulla piaga del confine fra padroni e diseredati Trump riversa veleno e lacrimogeno e manda in scena un disastro umano sullo sfondo di un apocalisse ecologica.
In questa rappresentazione, la signora nella foto, le sue figlie e i 10.000 componenti delle carovane accampati nelle tendopoli sull’uscio della terra promessa (come a Idomeni, come a Calais) sono semplici figuranti, comparse nell’ultimo teatro della crudeltà.

il manifesto 29.11.18
Neoliberalismo, tutto cominciò nella Camera di commercio a Vienna
Saggi. Una indagine storica firmata da Quinn Slobodian e pubblicata per Harvard University Press
di Paolo Di Motoli


Lo storico del Wellesley college (Massachussets) Quinn Slobodian ha pubblicato di recente un testo (Globalist. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press) che intende raccontare la nascita del neoliberalismo da un punto di vista differente rispetto alla vulgata comune anche tra gli scienziati sociali.
Secondo l’autore uno degli ostacoli principali nel raccontare il neoliberalismo, ponendosi dal punto di vista dei suoi animatori, è l’eccessiva fiducia nelle categorie interpretative del celebre storico dell’economia e antropologo Karl Polanyi.
L’INFLUENZA RETROATTIVA della sua opera più importante dal titolo La grande trasformazione ha prodotto una narrazione del neoliberalismo (pur precedendolo) come di un movimento teorico volto a «liberare» dalla società il mercato interpretato come fatto naturale e realizzando l’utopia di un mercato che si regolamenta da solo. Questa narrazione si è di fatto sovrapposta alle reali intenzioni degli stessi autori ascrivibili al neoliberalismo che invece pensavano al mercato come intreccio di relazioni che deve fare affidamento sulle reti istituzionali.
Secondo Slobodian, fin dai suoi esordi, il neoliberalismo austriaco non avrebbe cercato di abbattere lo stato, ma di creare un ordine internazionale ben strutturato in grado di salvaguardare la proprietà privata dalle ingerenze dei singoli stati. Questo pensiero era il frutto di una reazione di stampo conservatore al crollo dell’impero asburgico.
LO STORICO FA INIZIARE il neoliberalismo non dall’autonarrazione eroica che ne fecero i membri della Mont Pèlerin society (otto premi Nobel al suo interno) del 1947 che nella pubblicistica si è sempre battuta per il liberalismo e per la società aperta, ma dall’edificio della Camera di commercio di Vienna dove Ludwig Von Mises cominciò a lavorare a partire dal 1909.
MISES RITENEVA il crollo asburgico come una minaccia per la proprietà privata poiché questa era garantita in passato dall’imperatore mentre con la democrazia poteva essere messa in discussione e controllata dallo stato. L’avvento del fascismo venne salutato da Mises con sollievo e l’ordoliberale tedesco Wilhelm Röpke gli fece eco con ancora maggiore convinzione. Il teorico tedesco scrisse nel 1964 che i neri del sud Africa appartenevano a un livello di civiltà inferiore e che l’apartheid non era oppressivo e assieme alla Rhodesia era uno dei bastioni della civiltà bianca attaccata dal nuovo ordine postcoloniale. William Hutt, economista inglese ascrivibile alla scuola austriaca che lavorò alla Cape Town University teorizzava la difesa dell’occidente bianco, cristiano e caucasico da quello che chiamava in epoca postcoloniale «imperialismo nero». Slobodian non ci parla di Milton Friedman e delle politiche reaganiane ma dei neoliberali che da Vienna passarono a Ginevra (sede della Società delle Nazioni dal 1920) focalizzando il loro pensiero sulla politica globale.
DOPO GLI ECONOMISTI, pronti a mettere in discussione lo statuto epistemologico stesso della loro disciplina – poiché la sua istituzionalizzazione rischiava di per sé di portare a pianificazione e redistribuzione – venne una nuova generazione di giuristi come Ernst-Ulrich Petersmann che lavorarono per costruire ordini internazionali e intergovernativi per il commercio e la protezione legale della proprietà privata. Von Hayek in una lettera al Times di Londra del 1978 sosteneva che le libertà personali erano più ampie sotto il regime di Pinochet piuttosto che sotto Allende, avendo in mente proprio la difesa della proprietà privata.

Il Fatto 29.11.18
Putin accusa l’Occidente: “Se Kiev vuole bimbi per colazione glieli darà”
Dopo lo scontro di Kerch tensione anche a Mosca con falsi allarmi
di Michela A.G. Iaccarino


“Misura preventiva: detenzione fino al 25 gennaio”. Le condanne emesse dai giudici dei Tribunali di Kerch e Simferopoli sono uguali per i 24 marinai ucraini coinvolti nell’incidente nel mare d’Azov. Rimarranno in prigione per due mesi, mentre la marea politica da Mosca a Kiev diventa sempre più alta.
“Le autorità di Kiev oggi vendono sentimenti anti-russi con un discreto successo: del resto non hanno nient’altro da fare – dice il presidente russo Vladimir Putin, citato da Russia Today – se chiedessero bambini per colazione, probabilmente glieli darebbero. ‘Perché no, hanno fame, che dobbiamo fare?’, direbbero. È una politica miope e non può portare nessun buon risultato. Rende compiacente la leadership ucraina e non gli dà alcun incentivo a una politica normale o a perseguire una normale politica economica”.
Da un lato 24 prigionieri, dall’altro 20 capi di stato. Per Mosca ora c’è in ballo questo: l’incontro tra Trump e Putin al vertice G20 a Buenos Aires. Il presidente americano, che minaccia di cancellare il meeting con l’omologo del Cremlino, si è schierato con Kiev contro “l’aggressione russa”. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov da Parigi chiede che “i partner europei lancino un segnale a Kiev” per tornare alla calma. Ma la tensione sale, i carri blindati che trasportano gli S-400 partono all’alba verso la Crimea. Missili schierati e presto operativi. “Le navi ucraine hanno tirato dritto ignorando gli ordini dell’FSB, tutto questo è successo perché Poroshenko è quinto nei sondaggi”, dice Putin, e la legge marziale emanata, che sta già determinando l’escalation nei territori del Donbass, lo favorirà alle elezioni. Intanto a Mosca sembra consumarsi un rito, più che un’emergenza per allarme bomba. Si svuotano 12 centri commerciali e una stazione della Capitale per l’ennesimo, ultimo atto di “terrorismo telefonico” che farà arrabbiare migliaia di moscoviti rimasti al gelo per strada.

Il Fatto 29.11.18
Cinema e ’68, dopo 50 anni il tradimento è ancora vivo
di Roberto Faenza


Per fortuna stanno per finire le celebrazioni del ’68. Come tutte le commemorazioni il rischio è la retorica. Infatti a seguire l’apoteosi dei ricordi di allora a volte sembra di sentire i reduci del Vietnam. Ho partecipato a qualche ricorrenza e mi ha stupito non vedere mai un giovane, ma solo attempati protagonisti del tempo che fu, alcuni ancora con i capelli lunghi, come quando si dimostrava inneggiando a Mao e Ho Chi Minh. Il secondo (il suo nome significa “portatore di luce”) è stato un combattente eroico, quanto al primo la storia ha sollevato parecchi dubbi. Oggi a guidare i giovani non ci sono maître à penser e neppure ideologie. Ho appena visto sfilare per le vie di Milano ragazzini delle scuole medie insieme ad alcune elementari, con tanto di tamburi gioiosi, alzando striscioni per avere una mensa decente. A riprova che già da piccoli oggi si lotta per cose concrete e non per utopie.
Nelle varie rievocazioni non poteva mancare il cinema, che nel ’68 si è fatto notare soprattutto per aver occupato il festival di Venezia, che poi si tenne lo stesso in sordina, all’italiana. Di recente si è tenuto un incontro organizzato da Felice Laudadio, presidente del Centro sperimentale di Cinematografia, nonchè direttore del Festival di Bari, forse la sola rassegna che ha fatto proprie le parole d’ordine di 50 anni fa, ovvero partecipazione, discussione, minimizzazione dei premi e del divismo hollywoodiano. L’incontro ha avuto il merito di radiografare cosa è stato il ’68 cinematografico, demistificandone l’aurea e riconoscendo i limiti. Avendo partecipato ai “moti” veneziani (avevo appena diretto il mio primo film, Escalation, proprio sulla contestazione giovanile ed ero stato coerente rifiutandomi di portarlo in concorso a Venezia), penso di essere in grado di parlare soprattutto degli errori, non tutti commessi in buona fede.
Immagino che mi attirerò le ire di qualche partecipante di allora allergico alle critiche. Dirò subito che la mia opinione del ’68 è quella di un grande tradimento. Nato come movimento spontaneo di studenti, lentamente è degenerato, venendo presto assorbito dai partitini che poi si sono lasciati egemonizzare dai gruppi armati. Il cinema non è stato meno contraddittorio. Per emulare i colleghi del Festival di Cannes, i quali sull’onda del “joli mai” avevano occupato e impedito che si svolgesse la rassegna poco dopo essere iniziata, i cineasti italiani hanno pensato di dover fare altrettanto. Ma mentre in Francia non erano i politici a muoversi dietro le quinte, bensì autori del calibro di François Truffaut, Jean Luc Godard, Louis Malle… da noi è stato soprattutto il partito comunista a tenere le fila. Infatti si è subito palesata la vocazione al compromesso. Posso sbagliarmi, ma di registi arrivati a Venezia non in linea col Pci ne ho contati pochi. Di certo Pasolini, che pochi mesi prima aveva manifestato a Valle Giulia il proprio dissenso nei confronti del movimento studentesco. Era uno spirito troppo indipendente per sentire il giogo di un partito seppure tanto presente.
E infatti fu forse il solo capace di esprimere una posizione autonoma. Lo ricordo come fosse oggi, visto che fui proprio io a metterlo in salvo su un motoscafo per sottrarlo ai fascisti che lo volevano linciare, accorsi al Lido per menar le mani. A differenza dei colleghi francesi i cineasti italiani diedero prova di subordinazione e incoerenza. Volevano impedire che si svolgesse il festival, ma lo lasciarono andare avanti, volevano che si dimettesse il direttore Luigi Chiarini, ma lo lasciarono al suo posto, volevano che gli autori italiani presenti in cartellone si ritirassero, ma poi lasciarono correre. Insomma “non fu una cosa seria”, come evidenzia il bel documentario Venezia 68, realizzato da Steve Della Casa e Antonello Sarno. Non sapevo che Giuseppe Laterza, capo della casa editrice, fosse nipote del povero Chiarini. L’ho ascoltato ricordare con lucidità i giorni del tormento del nonno.
Tanto ingiustamente contestato e indotto a lasciare la direzione del festival appena terminato. Alla luce del senno di poi si dimostrò più libero di molti che vennero dopo. La beffa fu quando i registi più vicini al Pci, da Carlo Lizzani a Gillo Pontecorvo, nominati direttori, fecero esattamente il contrario di ciò per cui si erano battuti. Rimisero i film in competizione, riaccreditarono i vituperati premi, richiamarono in massa gli americani, riaprirono i saloni al divismo. Povero ’68, meglio che riposi in pace.

Repubblica 29.11.18
Dramma
La speranza di Panahi è nella riscossa delle donne
Le immagini del nuovo film del regista iraniano Jafar Panahi Tre volti, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes
di Emiliano Morreale


Jafar Panahi è diventato una specie di simbolo dell’opposizione culturale al regime di Teheran.
Imprigionato, poi liberato ma colpito dal divieto di girare altri film, il regista ne ha però realizzati clandestinamente ben quattro, che è riuscito a mostrare all’estero (dove non può recarsi). Quest’ultimo ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes: premio in effetti meritato, perché (come in molti film iraniani recenti) l’impressione di verità quasi documentaristica nasconde in realtà una costruzione complessa e astuta.
Una costruzione che però si mostra anche nel suo artificio e che viene quasi sciolta a contatto con i luoghi reali, trasformandosi in apologo sulla creazione artistica. E a sua volta la riflessione su verità e finzione si carica di significati politici: era questa, in fondo, la lezione del compianto Abbas Kiarostami, di cui Panahi è allievo. Anche qui si possono trovare forse alcuni omaggi al cinema del maestro, dalla struttura del lungo viaggio in auto alla donna che si sistema in una tomba, che evoca Il sapore della ciliegia.
Il film comincia aggiornandosi ai moderni dispositivi di comunicazione: una ragazzina si riprende col telefonino prima di impiccarsi. La famiglia l’ha data in sposa a un uomo impedendole la carriera di attrice, lei ha invocato invano l’aiuto della celebre attrice Behnaz Jafari, ora ha deciso di farla finita. Jafari (che recita nei panni di se stessa) lascia il set del film che sta girando, per scoprire se si tratta di un video autentico o di uno scherzo.
Accanto a lei, al volante dell’auto, c’è Panahi, che fa anche da interprete (il viaggio si svolge in un paesino di confine in cui parlano turco). Gli incontri (che spesso hanno a che fare con la messa in scena del reale: gente che chiede autografi, una vecchia attrice emarginata e amareggiata) si susseguono con un’aria apparentemente svagata da road movie, ma in realtà compongono un’accorta suspense su toni da commedia, con gli incontri e scontri tra la protagonista e la sua "spalla".
Alla fine è evidente, da parte di un regista prigioniero in patria, la metafora della reclusione e anche una satira precisa del maschilismo: un fratello maggiore bruto viene chiuso fuori di casa, una donna chiede di consegnare un prepuzio portafortuna, un toro da monta ostruisce la strada ai protagonisti. Tra questi simboli, più ridicoli che minacciosi, sta salda e affascinante la protagonista, con uno sguardo inquieto ma saggio, nel quale il regista sembra riporre le proprie speranze.


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