martedì 27 novembre 2018

Corriere 27.11.18
Le lezioni da imparare sull’emergenza migrazioni
Nelle crisi globali come quella in corso ai confini tra StasiUniti e Messico, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica
di Goffredo Buccini


I nodi cominciano a venire al pettine. E dunque va trasformandosi in lacerante emergenza umanitaria la crisi migratoria di Tijuana, esito finale della marcia verso il sogno a stelle e strisce di dieci o ventimila cittadini centroamericani: in buona parte «criminali» e forse «terroristi», secondo Donald Trump; «donne e bambini per due terzi», secondo i padri scalabriniani che gestiscono la casa d’accoglienza per profughi nella cittadina messicana al confine con gli Stati Uniti. Visioni inconciliabili in una questione che interpella anche noi. Perché questo esodo iniziato più d’un mese fa attraverso le pericolose strade di Honduras, El Salvador e Guatemala, cresciuto di peso numerico e simbolico al grido di «non si può vivere se si è poveri in America centrale», è una storia lontana che parla però a noi tutti, chiamando in causa due parole assai abusate anche dalle nostre parti: razzismo e paura. E ci impartisce subito una lezione preliminare: negli insondati territori delle crisi globali, può accadere il peggio in assenza di visione e di gestione politica.
Così, nella Tijuana che da giorni si è vista invadere da migliaia di disperati, per ora ammassati nel già saturo stadio Juarez, la tensione sale comprensibilmente, il sindaco ha chiesto aiuto all’Onu e, dopo i primi abbracci fraterni, i nuovi gruppi di profughi vengono accolti spesso a sassate e col canto (non ecumenico) dell’inno nazionale messicano. Ora: appare ragionevole escludere la molla del razzismo in tale reazione. Lo spiegava assai bene Luis Raul Gonzalez Perez, presidente della commissione nazionale per i diritti umani: «Dopo avere chiesto agli Usa di migliorare la loro condotta verso i nostri emigrati, non possiamo permetterci di trattare male queste persone». Uniti da lingua, cultura e persino fisionomia, invasi e invasori non possono essere che fratelli. E tuttavia il problema sta proprio nella comunanza di destino e in un sogno dove tutti non riescono a entrare (è messicano il 52% dei migranti irregolari in Usa). Lo scorso 11 ottobre andrà ricordato: quel giorno il segretario di Stato americano Pompeo ha invitato a Washington i leader dei Paesi coinvolti in questa storia per rilanciare il piano di sviluppo centroamericano e forse anche per seminare la pianta germogliata in queste ore: l’accordo «Remain in Mexico». Trump vuole che i richiedenti asilo aspettino dal lato messicano del confine la risposta dei giudici statunitensi. I profughi resteranno a Tijuana per mesi: vista da questa prospettiva, è più che comprensibile la paura che monta tra i residenti della cittadina. Ma l’11 ottobre è stata anche la prima giornata senza omicidi nel Salvador dopo 716 giorni (e in Honduras il tasso di omicidi è 63 volte più alto che da noi). I centroamericani non scappano solo dalla miseria, ma anche dai cartelli della droga, da regimi infami, da morte probabile: pure la loro paura è più che comprensibile. Senza una saggia mediazione politica, vedremo due gruppi di vittime che si scontrano nell’anticamera del benessere occidentale (e chissà se la scena fa suonare qualche campanello anche in noi...). Nei prossimi 40 anni è plausibile prevedere un miliardo di sfollati. Lo sostiene uno studioso di migrazioni come Michel Agier, secondo cui gli effetti della globalizzazione sono ora proprio nelle vie dove abitiamo e sempre più lo saranno (anche qui: nessun campanello?) a meno che non cerchiamo rimedi globali. Ci si può barricare dentro. Trump lo sta facendo.

Missione
I soldati inviati da Trump potrebbero fare da cuscinetto e dare aiuto sanitario ai profughi
Ha mandato al confine 7 mila soldati e ne promette il doppio, quanti ne ha in Afghanistan: un monito, un tappo. Ma se davvero a Tijuana scoppiasse una guerriglia fratricida, per quanto gli Usa sarebbero protetti da quel tappo? Zygmunt Bauman scriveva che «tenere fuori le sciagure globali barricandosi in casa propria (...) non è meno improbabile che pensare di scampare alle conseguenze di una guerra nucleare accampandosi in un rifugio per senzatetto». La cura definitiva, diceva, non è alla portata di un singolo Paese: è prendersi infine per mano quali esseri umani. Nell’attesa (con tempi lunghi) noi potremmo immaginare di ricorrere a palliativi: impicciarsi dell’altrui destino, coinvolgersi. Trump potrebbe fare molto per rendere il Centroamerica più vivibile. E i suoi soldati, anziché da tappo, potrebbero fare da cuscinetto, sostegno ai messicani, supporto anche sanitario ai profughi. Perciò pure noi europei, e italiani, dobbiamo guardare a Tijuana: per imparare. Perché tra i vari modi per sciogliere i nodi di una crisi globale, spezzare il pettine è, probabilmente, il peggiore.