Corriere 27.11.18
L’amore per l’Italia dei giovani messicani
di Dacia Maraini
Città
del Messico. Una delle poche università latino americane che abbia la
cattedra di italiano . E ci sono centinaia di studenti che mostrano
attenzione e amore per la nostra lingua e la nostra letteratura.
Viaggiando lontano dal mio Paese ho spesso l’impressione che a non amare
e non rispettare la nostra lingua siamo proprio noi italiani. Andiamo
in escandescenza se la nostra squadra di calcio perde, ma non mostriamo
nessuna indignazione se molti dei nostri Istituti di cultura chiudono.
Eppure l’attenzione che i giovani stranieri mostrano per la nostra
lingua scritta è commovente. «Ci sono molte cose in comune fra il
Messico e l’Italia» mi dice Marco Marica che dirige l’unico l’istituto
di cultura del vasto Messico, «l’anarchismo, per esempio, la grande
capacità creativa, il sospetto nei riguardi dello Stato, a cui si chiede
molto ma non si è disposti a dare quasi niente». Il giorno dopo visito
la casa museo di Frida Kahlo: una villetta dalle stanze infilate l’una
nell’altra, circondata da un giardino rigoglioso. Commovente il
cavalletto con la tavoletta ancora incrostata da grumi di colore, ritta
di fronte alla sedia a rotelle . Si intuisce quanto fosse doloroso per
lei dipingere. Eppure i suoi quadri sono pieni di gioia di vivere. Nel
pomeriggio, con Giustina Laurenzi che porta qui i suoi documentari sulla
scuola medica salernitana, incontro gli studenti dell’Università Unam,
guidati dal professor Fernando Ibarra. I ragazzi sono curiosi di sapere
se avesse ragione Pasolini che parlava della morte delle classi sociali o
Calvino che faceva dell’incomunicabilità un mistero da indagare. Alcune
studentesse mi chiedono perché le grandi scrittrici del 900 vengano
trascurate negli studi letterari. E perché in un Paese che loro prendono
come punto di riferimento, ci sono tante donne uccise dai mariti. Non
sarà che, come succede in Messico, la sicurezza del possesso, messa in
discussione dalle nuove libertà femminili, suscita paure ancestrali e
voglia di vendetta? Commovente il museo Trotsky. «Era una casa aperta
con un bel giardino», racconta Riccardo Canelli, storico che vive qui da
anni. «Ma dopo l’arrivo di un gruppo di fanatici che hanno preso a
sparare raffiche di mitra, Trotsky ha dovuto chiudersi trasformandola in
una prigione». Barbara Bertoni mi mostra le foto di lui con la testa
sanguinante trasportato in ospedale, dove poi morirà . «Testimonianze
della storia terribile di uno stalinismo fanatico e vendicativo che non
si fermava di fronte a nessun ostacolo».