mercoledì 14 novembre 2018

Corriere 14.11.18
Perché pensiamo diverso Mega studio di Cambridge su 670 mila persone: «Uomini più razionali, donne più empatiche»
Ma le cause non sono chiare
E gli scienziati avvertono: il cervello si adatta alle condizioni sociali
di Candida Morvillo


Ebbene sì, donne e uomini pensano in modo diverso. Le donne sono più empatiche, gli uomini più razionali. A Londra, The Times ha sparato la notizia in prima pagina, poiché lo studio dell’Università di Cambridge che sembra dimostrarla è il più vasto mai realizzato. Ben 670 mila persone sono state sottoposte a svariati test online per concludere che «l’analisi dei “tipi di cervello” ha rivelato che le femmine tipiche hanno, in media, più probabilità di essere di tipo emotivo e che i maschi tipici hanno più probabilità di essere di tipo sistematico». È come dire che le donne vengono da Venere, gli uomini da Marte, un luogo comune per il quale gli scienziati da tempo cercano nei nostri cervelli la conferma definitiva, talvolta attirandosi accuse di «neurosessismo».
I quattro ricercatori di Cambridge (un neuroscienziato, uno psichiatra e due psicologi) hanno identificato cinque sottotipi di cervello lungo una «scala E-S» dove «E» sta per empatia, ovvero la capacità di leggere le emozioni altrui e rispondere di conseguenza, e «S» sta per sistematizzazione, ovvero l’abilità di comprendere le regole seguite dall’altro e reagire a modo. Risultato: le donne sono più interessate alle emozioni e alle persone, gli uomini ai fatti e ai meccanismi. La ricerca pubblicata sulla rivista americana Pnas, Proceedings of the National Academy of Sciences, decreta che le differenze «sono molto chiare». Meno, però, e non è un dettaglio, lo sono le cause.
C’entrano fattori genetici, biologici (specie ormonali) e fattori ambientali e di educazione. Scrivono i ricercatori: «Tutto suggerisce che le pressioni di selezione evolutiva hanno favorito la specializzazione del cervello nel campo culturalmente associato a quel sesso». Quindi, cura degli altri per le donne, e lavoro e società per gli uomini. La chiave sta qui, di fatto, nelle pari opportunità ancora da realizzarsi. Federica Agosta, neuroscienziata ed esperta di neuroimaging alla Divisione di Neuroscienze del San Raffaele di Milano, osserva: «È come chiedersi se viene prima l’uovo o la gallina... Il cervello è plastico e muta secondo le situazioni che affrontiamo. Le donne pensano empatico perché lo sono o perché “lavorano” con l’empatia?». E spiega che, probabilmente, se esaminassimo un bravo mammo, scopriremmo un cervello tendente alla «E» di molto empatico e, in una donna laureata in ingegneria un cervello incline all’estremo «S» cosiddetto maschile: «È il limite delle ricerche di gruppo, a cui sfugge la singola individualità». E nello studio rileva un altro limite, e cioè che i test sono stati fatti online, senza controllo diretto di supervisori, anche se «il risultato resta valido per il campione numericamente elevato».
Alberto Albanese, responsabile dell’Unità Operativa Neurologia I all’Humanitas di Milano, dice: «Sappiamo molto sulle differenze morfologiche del cervello maschile e femminile, ma poco su cause ed effetti. Sappiamo che il cervello delle donne è più piccolo, senza che ciò influenzi l’intelligenza, e che alcune aree hanno forme diverse: il nucleo soprachiasmatico, che regola i ritmi circadiani, nelle donne è allungato, negli uomini tondeggiante, ma non sappiamo perché; l’area preottica nei maschi è 2,2 volte più grande, ma ne ignoriamo il motivo. Le donne hanno molti fasci di connessione fra i due emisferi, mentre gli uomini li hanno all’interno o dell’emisfero destro o sinistro, ma su questo non ci sono dati sicuri e restano molti dibattiti aperti».
Il rischio è strumentalizzare alcuni studi. I ricercatori di Cambridge sono categorici: «Usare i nostri risultati per discriminare in base al sesso sarebbe pernicioso, perché conta sempre il singolo individuo». Insomma, se è vero che il cervello si plasma su ciò che facciamo, e il test fosse ripetuto su sole neuroscienziate, l’esito tenderebbe verso il virile estremo «S». Verso l’ipotetica «P» di parità.

il manifesto 14.11.18
Comincia la stagione degli sgomberi. A Roma via il Baobab
di Carlo Lania


Polizia etnica. Blindati e ruspa nella tendopoli dove dormivano 130 migranti, ora abbandonati in strada. Salvini: «Basta zone franche»
Una volta finito di abbattere l’ultima baracca di legno la ruspa risale lentamente sul camion che poco prima l’aveva scaricata in questo piazzale di cemento dietro la stazione Tiburtina di Roma. E’ un bobcat, una ruspa bianca e non particolarmente grande, niente a che vedere con quelle ruggenti che Matteo Salvini esibiva con orgoglio stampate sulla maglietta prima di diventare ministro degli Interni. Ma si sa, a volte quello che conta sono i simboli e la ruspa che ieri mattina ha bruscamente svegliato i migranti che dormivano nell’accampamento allestito dai volontari del Baobab Experience è destinata a diventare il simbolo della stagione degli sgomberi appena inaugurata a Roma. Non a caso, quando ancora le operazioni sono in corso e 130 migranti vengono trasferiti a bordo di due autobus all’ufficio stranieri, il ministro esulta annunciando come imminenti altri 27 sgomberi in altrettanti palazzi occupati della capitale: «Zone franche, senza Stato né legalità, non sono più tollerate. L’avevamo promesso, lo stiamo facendo» scrive come al solito su twitter.
E’ chiaro che al Viminale, e al Campidoglio, piace giocare facile. Al piccolo accampamento del Baobab la polizia si presenta di buonora con i blindati a scortare i mezzi dell’Ama e a sigillare gli ingressi. Ma tutti, a partire dagli agenti, sanno che l’esibizione muscolare è inutile. Con quella di ieri sono 22 le volte in cui le tende del Baobab sono state smantellate, e non c’è mai stato un gesto di resistenza da parte di nessuno. E anche ieri è andata così.
«Ci aspettavamo lo sgombero. Da giorni il Comune aveva cominciato un censimento dei migranti e quindi sapevamo che prima o poi sarebbe successo, ma non pensavamo così presto» racconta Roberto, uno dei volontari. Abbattute le poche baracche, la polizia ha concesso il tempo per smontare le tende e recuperare gli effetti personali dei migranti, tra i quali aveva trovato posto anche una famiglia di italiani che adesso dovrà cercarsi anche lei un altro rifugio.
Sono più di 60 mila i migranti assistiti dal maggio del 2015, da quando il primo nucleo di volontari di quello che presto sarebbe diventato per tutti «il Baobab» cominciò a riunirsi nell’omonimo  ex centro di accoglienza di via Cupa, un budello di strada lunga e stretta a due passi dalla stazione Tiburtina. Ad arrivare all’inizio furono soprattutto eritrei, «transitanti» che dopo essere sbarcati a sud, attraversavano Roma prima di dirigersi verso nord, con in testa solo la Germania o la Svezia. Poi sono arrivati gli altri, da tutta l’Africa ma non solo: Gambia, Tunisia Marocco, Etiopia, Somalia, Algeria ma anche Afghanistan, Iraq, Pakistan, come quelli che si trovavano ieri nell’accampamento. Tutti hanno trovato un pasto caldo e un posto dove dormire, tutti hanno potuto curarsi e avere assistenza legale oltre che vestiti portati, insieme a tonnellate di viveri, da centinaia di romani in una strepitosa prova di solidarietà. Checché ne dica il ministro Salvini, negli ultimi anni si è visto più Stato tra queste tende che altrove.
Ieri sera un camper della Sala operativa sociale del Comune ancora aspettava davanti all’ufficio stranieri della Questura l’uscita degli ultimi 60 migranti dei 130 fermati al mattino, nei confronti di nessuno dei quali sono stati presi provvedimenti. Tutti uomini, perché fortunatamente donne e bambini hanno già trovato da tempo luoghi chiusi nei quali ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Nei giorni scorsi 15 migranti, quelli più vulnerabili, hanno trovato posto presso la Caritas o nelle strutture allestite dal Comune per l’emergenza freddo. Altri 60 sono stati collocati invece in tre centri di accoglienza gestiti dal Comune. «Avevamo chiesto alla prefettura di poter accedere anche ai posti letto dei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, ma ci hanno risposto che prendono solo chi ha presentato richiesta di asilo a Roma», spiegano in Comune.
Le conseguenze dello sgombero di ieri saranno che adesso quasi più di cento migranti anziché essere riuniti tutti in un solo luogo si sparpaglieranno per le strade intorno alla stazione Tiburtina. «Stasera distribuiremo coperte e teli per dormire e per domani mattina cercheremo di organizzare una colazione per tutti», racconta ancora Roberto. «Quanto è avvenuto oggi è un passo indietro per la città», commenta invece Andrea Costa, il coordinatore di Baobab Experience. «Le questioni sociali a Roma si risolvono così: polizia e ruspa. Il Campidoglio a 5 Stelle non è diverso dai precedenti, né dalla Lega. E un ministro che si dice contento che ci siano persone che stanotte dormiranno in strada mi fa vergognare di essere italiano».

Repubblica Roma 14.11.18
Dopo il Baobab altri 27 sgomberi Salvini scatenato sulla Capitale
Ruspe all’hub dove erano accampati in 200. La città in emergenza. Raggi: " Dal ministro m’aspetto 250 vigili in più"
Sono 117 i richiedenti asilo ricollocati in strutture temporanee dal Campidoglio. Altri 100 restano per strada
di Mauro Favale


È solo l’inizio. Matteo Salvini lo dice con chiarezza: « Ordine e sicurezza. Vogliamo riportare la legalità a Roma quartiere per quartiere. Faremo altri sgomberi, usando criteri oggettivi: quattro per edifici pericolanti e 23 perché hanno iniziative giudiziarie in corso. Non ci fermeremo: intendiamo passare dalle parole ai fatti » . Il proclama del ministro dell’Interno certifica la campagna di sgomberi in atto nella capitale che ieri ha colpito il Baobab, la tendopoli allestita da due anni alle spalle della stazione Tiburtina.
Non un’occupazione vera e propria ma un presidio gestito da volontari che negli anni ha dato assistenza a quasi 80 mila persone, per lo più " transitanti", migranti arrivati in Italia spesso attraverso sbarchi o salvataggi in mare e decisi a raggiungere il Nord Europa. A Milano un hub ( poi trasformato in centro di accoglienza) c’è, attivato dal Comune. A Roma no. Doveva nascere, ai tempi della giunta Marino, proprio a Tiburtina, nei locali dell’ex Ferrhotel concesso in comodato d’uso gratuito dalle Ferrovie dello Stato al Campidoglio, ma col passare del tempo (anche a causa dei costi per renderlo agibile) il progetto è sparito dai radar.
E così, negli ultimi anni, l’accoglienza dei transitanti a Roma è stata a carico dei volontari del Baobab. Lo sgombero di ieri è il numero 22 nella breve storia del gruppo, composto da militanti, avvocati, insegnanti, commercianti, studenti, che ieri ha denunciato, per l’ennesima volta, « il vuoto istituzionale sul tema dell’accoglienza, aggravato oggi dal decreto sicurezza » . Parole del coordinatore del Baobab, Andrea Costa, che ha insistito per mantenere un presidio informativo nei pressi della stazione Tiburtina. «Al momento, però, non abbiamo avuto risposta».
Adesso c’è da pensare al centinaio di sgomberati ( molti africani, ma anche qualche senzatetto italiano che aveva trovato riparo nell’ultimo periodo tra le tende di piazzale Maslax) che non sono stati ricollocati nelle varie strutture a disposizione del Comune. Il Campidoglio, già da qualche settimana, aveva avviato un’interlocuzione con i migranti, riuscendo a trasferirne 75. La sera prima il numero era salito a 117, distribuiti tra Sprar e posti letto della Sos, la sala operativa sociale. L’arrivo delle ruspe di ieri ( anticipato al Comune soltanto la sera prima) ha interrotto il dialogo delle ultime settimane che, probabilmente, avrebbe portato in tempi brevi a svuotare piazzale Maslax. Le minacce di sgombero di quella tendopoli, infatti, non erano certo una novità, specie da quando a inizio ottobre, l’area è stata allestita per ospitare i cantieri di un progetto immobiliare targato Ferrovie dello Stato- Bnl. Il pugno duro del Viminale ha fatto il resto.
L’annuncio di nuove iniziative contro 27 immobili, però, non rassicura il Comune M5S che potrebbe ritrovarsi con centinaia di persone da ricollocare. A maggior ragione in questa fase, con la prefettura che ha appena sospeso per 90 giorni un bando per 5.000 posti letto destinati a richiedenti asilo tra Roma e provincia, proprio alla luce delle dichiarazioni di Salvini che punta a diminuire la quota pro- capite destinata all’accoglienza dei migranti.
Ufficialmente il Campidoglio non commenta il blitz al Baobab. Silenzio da Virginia Raggi ( ieri ospite in tv su Rai e La7) e dal vicesindaco Luca Bergamo che più di una volta era stato prudentemente critico con le politiche del titolare del Viminale. Parla solo Laura Baldassarre, assessore ai Servizi sociali, per rilanciare l’appello ai migranti ad «accettare l’accoglienza».
In tv, invece, Raggi parla in generale di sgomberi, per rispondere alla road map del ministro che ne prevede altri 27: « Abbiamo stipulato un accordo con la prefettura per riuscire a ripristinare la legalità con un certo criterio. Si deve procedere dagli stabili pericolanti per proteggere l’incolumità delle persone». Una frenata che evidenzia il clima di frizione tra Campidoglio e Viminale. Anche perché ieri Salvini non ha lesinato, ancora una volta, critiche all’amministrazione M5S della capitale: «Trasporto pubblico, raccolta dei rifiuti e buche non dipendono dal ministero dell’Interno. Ma da parte mia non c’è nessun Opa sul Comune di Roma. Cercherò di essere a disposizione di Raggi per le materie di mia competenza».
E la sindaca di Roma non manca di presentargli un elenco. Su San Lorenzo, ad esempio, dove dopo la morte della giovane Desirèe, la sindaca attende «i 250 uomini in più annunciati da Salvini » . Ma le richieste al governo non sono finite: « Abbiamo chiesto 250 milioni in 5 anni da investire su strade e verde » . E ancora: «Sui vigili siamo sotto organico di almeno 3mila unità. Ne abbiamo già assunti 350 e contiamo di assumerne altri 600 entro la fine dell’anno. Ho chiesto al governo di di arrivare a completare l’organico. Altri 2mila vigili sono il minimo indispensabile per una città come Roma».

Repubblica 14.11.18
L’emergenza abitativa
Nei fortini degli occupanti in attesa delle ruspe
Da Tor Carbone a Montagnola, dalla Prenestina alla Tiburtina in 16 stabili 4.000 anime. Il vicepremier: "Poi via anche CasaPound"
di Luca Monaco


«Stanno alimentando una guerra tra poveri. Chissà per noi come andrà a finire». Mentre le ruspe spedite dal ministro dell’Interno leghista, timido con «i camerati» di CasaPound e inflessibile con il migrante straniero, accartocciano le baracche spuntate per necessità nel piazzale delle Ferrovie sul retro della stazione Tiburtina, Massimo, 55 anni, scuote il capo. «Ho perso il lavoro e la casa — racconta — anche io vivo in un’occupazione». Una palazzina bassa con nove appartamenti in via di Tor Carbone. Adesso Massimo si arrangia a fare piccoli traslochi e con quel furgone sgangherato è venuto a dare una mano ai volontari per trasportare le tende in un magazzino sulla Tiburtina.
«Per fortuna non ho figli — racconta l’uomo — ma ormai nessuno può vivere tranquillo».
Teme di essere buttato fuori anche lui, che nacque a San Lorenzo. Non lontano dallo slum in via dei Lucani, che ha attirato l’attenzione delle istituzioni solo dopo la morte di Desirée. Una tragedia cavalcata da Salvini per piegare la gestione dell’ordine pubblico ai fini della propaganda anti-migranti. Dopo lo sgombero del Baobab toccherà ai 400 disperati, molti in attesa dei documenti, che resistono nella favela dell’ex fabbrica di Penicillina. «Siamo stati noi a consegnare la persona indagata per l’omicidio di Desirée — dicono gli occupanti — avere un posto dove dormire è un diritto umano, non siamo pronti a diventare carne da macello per chi specula sulle nostre disgrazie».
Sulla vicenda loro, come su quella degli altri 10mila uomini, donne e bambini in emergenza abitativa a Roma. Quattromila persone abitano i sedici immobili che compongono la lista delle prime occupazioni da liberare. Per il momento le autorità hanno puntato quelle dove l’organizzazione degli abitanti è meno strutturata.
Temono un’azione immediata le 460 anime ridotte senza acqua né luce nell’ex hotel in via Prenestina 944, occupato il 6 dicembre 2012. Lo Stato è stato condannato a risarcire le proprietà degli edifici occupati in via Prenestina 913 (Metropoliz), e "Caravaggio" nell’omonima via a Montagnola.
I residenti hanno paura di perdere anche quel tetto. Come è stato per i rifugiati politici che abitavano il palazzo in via Curtatone, come le madri con i bambini piccoli allontanate prima dall’immobile ai Colli Monfortani poi da via di Quintavalle, a Cinecittà. Sono sopravvissuti in tenda, in piazza Santi Apostoli, quasi un anno.
Senza che nessuno offrisse loro una soluzione. Salvini non era ancora ministro quando una domenica del dicembre scorso lì sfrattò anche dalla strada: aveva organizzato il suo comizio proprio di fronte alla tendopoli dei senza casa. Adesso annuncia: «Nelle prossime settimane verranno sgomberati 4 edifici pericolanti. A questi se ne aggiungono 23, oggetto di provvedimenti giudiziari su cui paghiamo anche la penale per il mancato sgombero».

il manifesto 14.11.18
Virginia Raggi «esautorata», Salvini detta legge a Roma
Polizia etnica. Da quando il leader leghista è ministro dell’interno, nella capitale sono raddoppiati gli sgomberi
di Giuliano Santoro


«Ordine e sicurezza» esclama Matteo Salvini dopo lo sgombero del Baboab. «Vogliamo riportare la legalità a Roma quartiere per quartiere», prosegue il ministro dell’interno. Che associa la vicenda del centro di accoglienza autogestito alla storia delle occupazioni abitative che da mesi promette di cancellare. «Faremo altri 27 sgomberi. Non ci fermeremo: intendiamo passare dalle parole ai fatti». Se non si tratta di una sfida, senza dubbio siamo davanti ad uno sgarbo istituzionale, ad una manovra che mette in difficoltà Virginia Raggi. La sindaca di Roma, a pochi giorni dall’assoluzione, rimane invischiata nei fantasmi securitari che lei stessa ha contribuito ad evocare. Vediamo perché.
Siamo al 7 novembre scorso, soltanto una settimana fa. Si celebra il rito dell’ennesimo tavolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Raggi si presenta dal prefetto, Salvini si tiene informato a distanza. Il vertice serve ad aggiornare l’elenco, ormai ufficiale, che classifica la priorità degli sgomberi. Dal Viminale hanno provveduto ormai due mesi prima a modificare la circolare emanata da Minniti, che dava il via libera agli sgomberi ma almeno prevedeva che alle persone gettate in mezzo alla strada fosse offerta una qualche alternativa. Salvini velocizza il tutto, intasca il successo mediatico e scarica il peso dei conflitti sulle amministrazioni locali. Per questo la linea della tolleranza zero comincia a traballare di fronte a difficoltà oggettive. Negli uffici del Campidoglio cominciano a rendersi conto che nei palazzi occupati abitano migliaia di persone. Anche il vicesindaco Luca Bergamo solleva dubbi, di natura più politica che tecnica, sull’opportunità di andare al muro contro muro definitivo contro i movimenti di lotta per la casa. Da Roma si prova a rallentare.
Proprio Baobab si trova al centro di un caso che dimostra le difficoltà dell’amministrazione grillina. Due settimane, fa le associazioni della Rete legale per i migranti in transito (composta oltre che da Baobab Experience da A Buon Diritto, da Consiglio Italiano per i Rifugiati e da Radicali Roma) scrivono all’assessora alle politiche sociali Laura Baldassarre, la quale ha annunciato che ci sono 120 posti a disposizione per l’accoglienza. Si tratta delle fantomatiche «casette Ikea», moduli abitativi montabili prodotti dalla nota multinazionale svedese e gestiti dalla Croce Rossa in una struttura che si trova a via Ramazzini, al quartiere Portuense.
Sono strutture di bassa soglia, destinate a situazioni marginali e ad emergenze estreme. Il Comune di Roma non immagina che altre figure possano avere bisogno di un ricovero. Eppure, quelli di Baobab protestano con l’assessora, raccontano che sia le richieste di collocazione per i casi più delicati che i tentativi di sistemare un po’ di gente per evitare sgomberi drammatici vengono costantemente ignorati. Denunciano che «oltre 180 persone pur avendo un titolo di soggiorno, sono fuori dai circuiti di accoglienza istituzionali». Tra di essi ci sono 104 titolari di status di rifugiato, protezione internazionale o umanitaria e una cinquantina di richiedenti asilo. La lettera smuove qualcosa, parte un timido dialogo, il comune si muove. Per questo l’accelerazione improvvisa e lo sgombero festeggiato da Salvini appaiono ancora di più come uno sgarbo ulteriore all’amministrazione Raggi.
Va detto che la ruspa di Salvini non incontra ostacoli, anzi viaggia a tutto spiano, a causa della mancanza di strategia complessiva della giunta grillina. Sulla casa, Raggi poteva accettare di spendere i 200 milioni di euro stanziati da una delibera regionale sull’emergenza abitativa. Invece ha preferito con l’assessore al patrimonio Rosalba Castiglione, tener bloccati quei quattrini pur di non riconoscere, come faceva la Regione Lazio, un posto in graduatoria ai nuclei familiari provenienti da occupazioni. Per non parlare dei campi rom. Dopo mesi passati a prometterne il «superamento», Raggi ha sgomberato uno dei pochi insediamenti ad alta scolarizzazione, il Camping River, sfidando peraltro (di nuovo supportata dal manipolatore Salvini) una richiesta di moratoria proveniente dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo.
La gran parte degli sgomberi si limita a colpire le tante piccole baraccopoli che costituiscono gli insediamenti informali, producendo l’unico risultato di far vagare masse disperati da una parte all’altra della città. Gli sgomberi dei primi dieci mesi del 2018 riguardano 1100 persone in tutto, la metà dei quali sono minorenni. Ancora una volta, i numeri dicono che l’insediamento del governo gialloverde ha impresso una direzione ben precisa alle politiche comunali. «Prima che Salvini diventasse ministro dell’interno – ragiona Carlo Stasolla dell’Associazione 21 Luglio – Si contavano 2,4 sgomberi al mese. Poi la media è quasi raddoppiata: si è arrivati a 4,6».

La Stampa 14.11.18
“Per bucarmi bastano solo due euro”
Tra i ragazzi dello “zoo” di Milano
di Monica Serra


«Volevo sentirmi grande. Bucarmi era più forte di me, mi sentivo importante. Poi sono finito in strada. Su e giù con la metro a elemosinare qualche moneta per pagare una dose. Mi “facevo” una volta all’ora. Venivo a bucarmi piangendo». Fabio, vent’anni, ha appena scoperto di avere l’Aids. Maglia nera e jeans, un ragazzo come tanti. Accanto c’è la fidanzata, da poco maggiorenne, sta per prendere il treno per tornare a casa. «Lei è pulita, viene qui a trovarmi. È l’unica che mi è sempre stata accanto». Quando è finito in ospedale i genitori lo hanno ripreso in casa. «Ho smesso col metadone - accenna un sorriso - e non mi “faccio” più quanto prima. Vengo solo la domenica». Poi si ferma, sospira. «Tutta la settimana aspetto questo momento».
La stazione di Rogoredo è a due passi dal parco della morte, la più grande piazza di spaccio d’Europa, 15 minuti di metropolitana dal Duomo. Mille clienti al giorno, molti dei quali minorenni, «che nessun muro può fermare». Hanno 14, 15, 17 anni, «i ragazzi dello zoo di Rogoredo». Figli di persone perbene, come Fabio. Operai, insegnanti, medici, ingegneri e farmacisti. Si avvicinano alla droga con gli amici, a scuola. Perché «se non lo fai sei sfigato», perché «devi» provare. «Poi il passaggio all’eroina è sempre più veloce: nel giro di un’estate si trasformano», dice Simone Feder, responsabile dell’area dipendenze della Casa del giovane di Pavia, l’unica in Lombardia con una comunità per adolescenti con tossicodipendenza certificata. E i dati lo dimostrano. Secondo uno studio del Cnr sono 320 mila gli adolescenti che hanno assunto eroina almeno una volta nell’ultimo anno. In un decennio i giovani consumatori sono aumentati del 36% e l’età media del primo contatto con la sostanza si è abbassata da 18 a poco più di 14 anni.
I post-Millennials della «Generazione Z» non hanno conosciuto gli effetti devastanti dell’eroina negli Anni 70 e 80 e ora rischiano di perdersi. «Ho visto madri in lacrime accompagnare ragazzine a Rogoredo. Genitori disperati che non vedono i figli da giorni e vengono qui ad appendere foto e appelli sugli alberi. Sono mamma anch’io e mi piange il cuore». La voce di Roberta tradisce la sua fragilità. Ha 32 anni, una bambina di 12 affidata alla nonna, si droga da 7. «Vorrei uscirne. Vengo qui una volta al giorno, un paio d’ore, poi vado via». Nel tempo ha visto cambiare la «popolazione» di Rogoredo: «Su 10 che entrano, 4 sono ragazzini. Arrivano con lo zaino di scuola, ascoltano musica, fumano la “roba” con la stagnola, in mezzo allo schifo, come nulla fosse». Trascorrono il tempo quasi come farebbero in un parco normale. Ma a Rogoredo niente lo è. «C’è chi vende ogni cosa per “farsi”. Rubano i vestiti a chi va in overdose. E le ragazzine si prostituiscono per 5 euro».
Ne bastano 2 per una «punta» di eroina. «La droga è tagliata con ogni cosa: stricnina (veleno per topi), paracetamolo e altre schifezze». Si è salvato per miracolo Ivan, 31 anni, la faccia segnata da 14 di tossicodipendenza. Preferisce parlare lontano da Rogoredo. Come molti fantasmi del boschetto trascina la gamba destra: «mi sparavo la roba all’inguine. Sono finito in ospedale con una trombosi, mi hanno detto che rischiavo di perdere la gamba».
È una roulette russa, Rogoredo: 11 morti per overdose a Milano da inizio anno. «Il confine tra la vita e la morte è solo questione di fortuna. Sono i nostri figli, dobbiamo dargli una speranza. Non possiamo arrenderci all’idea che siano perduti. Non possiamo abbandonarli», ripete Simone Feder. Con i suoi collaboratori prova ad avvicinare i ragazzi attorno al parco della morte. «Questo dramma riguarda tutti noi. Non possiamo più voltarci dall’altra parte».

La Stampa14.11.18
“In Italia 1,2 milioni di minori vivono in povertà assoluta”
di Flavia Amabile


In Italia un milione e duecentomila bambini e adolescenti vivono in povertà assoluta. Sono una quota importante della società, in particolare se si considera che su otto minori che stanno crescendo in Italia almeno uno si trova in condizioni di estrema povertà e che questo non potrà non avere conseguenze nel futuro del Paese.
L’Italia degli anni Sessanta sperava di aver posto le basi per una crescita di tutta la società, mezzo secolo dopo il fallimento di quelle premesse è evidente. Secondo i dati contenuti nel nono Atlante dell’infanzia a rischio «Le periferie dei bambini» di Save the Children, pubblicato da Treccani , non sono solo le condizioni economiche del nucleo familiare a pesare sul futuro di una generazione di bambini ma anche l’ambiente in cui vivono.
Anche all’interno della stessa città bastano pochi chilometri di distanza, tra una zona e l’altra, per assicurare riscatto sociale o impossibilità di uscire dal circolo vizioso della povertà.
È il caso dell’istruzione, ad esempio. A Napoli, i 15-52enni senza diploma di scuola secondaria di primo grado sono il 2% al Vomero e quasi il 20% a Scampia, a Palermo il 2,3% a Malaspina-Palagonia e il 23% a Palazzo Reale-Monte di Pietà, mentre nei quartieri benestanti a nord di Roma i laureati (più del 42%) sono 4 volte quelli delle periferie esterne o prossime al Grande Raccordo Anulare nelle aree orientali della città (meno del 10%). Ancora più forte il divario a Milano, dove a Pagano e Magenta-San Vittore (51,2%) i laureati sono 7 volte quelli di Quarto Oggiaro (7,6%).
Anche i dati tratti dai test Invalsi confermano le profonde differenze nell’istruzione tra diverse zone delle stesse città. A Napoli c’è un divario di 25 punti tra i bambini dei quartieri più svantaggiati da quelli che abitano a Posillipo, a Palermo sono 21 quelli tra Pallavicino e Libertà, a Roma 17 tra Casal de’ Pazzi e Medaglie d’Oro, e a Milano 15 punti dividono Quarto Oggiaro da Magenta-San Vittore.
Le differenze sono quasi dei muri anche quando si parla di Neet, ovvero i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano più, sono senza lavoro e non sono inseriti in alcun circuito di formazione. A Milano, in zona Tortona, sono il 3,6%, meno di un terzo di quelli di Triulzo Superiore (14,1%), mentre a Genova sono 3,4% a Carignano e 15,9% a Ca Nuova, e a Roma 7,5% a Casal Palocco e 13,8% a Ostia Nord.
Nelle grandi città i minori vivono soprattutto nelle periferie. A Roma e Genova abitano in aree di periferia il 70% dei bambini al di sotto dei 15 anni, e a Napoli e Palermo il 60%, un numero che scende al 43% a Milano e al 35% a Cagliari. Questo vuol dire che quando bambini e adolescenti delle città più densamente popolate si guardano intorno, ci sono 259.000 di loro (l’11,8%) che vedono strade scarsamente illuminate e piene di sporcizia, non respirano aria pulita e percepiscono un elevato rischio di criminalità.
Sono minori che si ritrovano ai margini dello spazio pubblico: 94 bambini su 100 tra i 3 e i 10 anni non hanno modo di giocare in strada, solo 1 su 4 trova ospitalità nei cortili, e poco più di 1 su 3 ha un parco o un giardino vicino a casa dove poter giocare. Sono ai margini della politica, per effetto di una spesa pubblica che negli anni della crisi economica, pur crescendo in termini assoluti, ha tagliato la voce istruzione e università dal 4,6% sul Pil del 2009 al 3,9% del 2015-16.
I minori che non hanno l’opportunità di navigare su Internet nel Mezzogiorno vivono nei capoluoghi delle grandi aree metropolitane (36,6%), e spesso appartengono alle famiglie con maggiori difficoltà economiche (38,8%). Nelle stesse zone, i minori che non svolgono attività ricreative e culturali raggiungono il 77,1%.

Corriere 14.11.18
Il rapporto
Quei bimbi in povertà e le periferie educative
di Paolo Di Stefano


È già in sé impressionante il divario di competenze scolastiche tra regioni di uno stesso Paese: stiamo parlando ovviamente dell’Italia. Purtroppo si sa che un minore cresciuto a Enna non ha le stesse opportunità di un ragazzo che cresce a Milano. Scandaloso, niente di nuovo anche se inaccettabile. Non nuovo il fatto che su questi squilibri la politica evita accuratamente di farsi domande, figurarsi se si impegna a cercare risposte. Ben altre le cosiddette «emergenze» a cui porre rimedio: quelle, arcinote, che pro-curano immediati consensi elettorali, e possibilità di facili slogan. Altrettanto impressionante è ciò che emerge in tutta evidenza dal nuovo, benemerito, «Atlante dell’Infanzia a rischio» pubblicato da Save the Children (Treccani). Se qualcuno immaginava che il divario più drammatico fosse quello tra Nord e Sud, adesso ha tutti gli elementi per ricredersi. Differenze abissali di apprendimento si registrano anche tra aree urbane molto prossime. Si veda-no, per esempio, i dati Invalsi. A Napoli 25 punti dividono Posillipo dai quartieri più svantaggiati; a Palermo 21 punti tra quartiere Pallavicino e Libertà; a Roma 17 tra Medaglie d’Oro e Casal de’ Pazzi. «È assurdo che due bimbi che vivono a un solo isolato di distanza — osserva Valerio Neri, direttore generale di Save the Children — possano trovarsi a crescere in due universi paralleli». Stesso baratro se valutiamo i titoli di studio nei differenti quartieri. Nel centro di Milano i laureati superano il 50%, ma basta spostarsi a Quarto Oggiaro per precipitare al 7%: una decina di chilo-metri e il mondo cambia. Non per niente la nona edizione dell’«Atlante», curata come sempre da Giulio Cederna, si intitola «Le periferie dei bambini»: le periferie fisiche delle città sono anche «periferie educative» che risentono delle disparità economiche e sociali, oltre che della pessima qualità dei servizi e degli spazi urbani, spesso a due passi dalla ricchezza. In pratica i nostri bambini e adolescenti crescono in un mondo pieno di muri invisibili (e invalicabili) contro cui sbattono di continuo senza saperlo. Chi glielo dice? Nessuno. Probabilmente lo sapranno quando saranno adulti. Cioè troppo tardi. Chi si preoccupa di loro? Quando va bene, i genitori. Già, ma se anche loro sono periferia educativa? Chi glielo dice ai genitori che la vera minaccia per i loro figli non è la presenza degli immigrati ma l’assenza di buone biblioteche pubbliche?

La Stampa 14.11.18
Caso Desirée
Riesame annulla accusa di omicidio per due arrestati
di Edoardo Izzo


Colpo di scena nell’inchiesta sulla morte di Desirée Mariottini, avvenuta nella notte tra il 18 e il 19 ottobre scorso nel quartiere romano di San Lorenzo. Il tribunale del Riesame della Capitale ha «smontato» l’impianto accusatorio della procura, e a cadere sono le due ipotesi di reato più gravi: omicidio e stupro di gruppo. La decisione ha riguardato le posizioni di Chima Alinno di 47 anni e Brian Minthe di 43, due dei cinque arrestati nell’indagine sul decesso della ragazzina di 16 anni. Per i due oltre all’accusa di omicidio è caduta anche quella di violenza sessuale di gruppo in favore del più lieve reato di «abuso sessuale aggravato dalla minore età della vittima». Tuttavia, nonostante la diversa ricostruzione offerta dai giudici del Riesame rispetto a quella dei pm, i due indagati resteranno in carcere.
Oggi la decisione sul terzo uomo
Eppure la decisione di ieri, per la quale il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il pm Stefano Pizza faranno ricorso in Corte di Cassazione, potrebbe avere importanti ripercussioni. Oggi, infatti, il Riesame dovrà esprimersi in merito alla posizione di Mamadou Gara, 27 anni, ovvero il terzo cittadino africano coinvolto nell’indagine sulla tragedia di via dei Lucani, e la decisione appare scontata. Nonostante la bocciatura da parte dei giudici secondo cui i pusher non avrebbero avuto intenzione di provocare la morte di Desirée, la procura non ha cambiato idea. I quattro restano comunque indagati per omicidio volontario e violenza sessuale di gruppo sia per quanto accertato negli interrogatori dei diversi testimoni presenti ai fatti, i quali hanno puntato il dito contro il gruppo di spacciatori, sia per le loro conversazioni captate in questura proprio nei momenti antecedenti alle audizioni. Del resto la tesi dell’accusa era stata pienamente riconosciuta dal gip Maria Paola Tomaselli che, confermando la misura cautelare del carcere, aveva rincarato la dose affermando che i quattro avevano agito con «crudeltà, disinvoltura e senza alcuna remora». Nella giornata di oggi sarà inoltre interrogato il quinto arrestato, Marco Mancini, pusher di 36 anni, ritenuto l’uomo che avrebbe dato a Desirée il devastante e letale mix di farmaci che, abbinato alla droga già assunta, ne avrebbe causato la morte.

il manifesto 14.11.18
Cucchi, il film alla Camera. Senza parlamentari. Fico: «La verità fa sempre bene»
Montecitorio. La proiezione di «Sulla mia pelle» di Alessio Cremonini
La nuova aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio durante la proiezione del film «Sulla mia pelle» di Alessio Cremonini
di Eleonora Martini


L’abbraccio tra Roberto Fico e Ilaria Cucchi, gesto fortemente simbolico di uno «Stato che deve essere vicino alle persone che cercano la verità», come ha affermato il presidente della Camera, è stato stretto davanti a tanti cittadini comuni ma quasi nessun parlamentare italiano. A parte rarissime eccezioni infatti, di rappresentanti politici e istituzionali non vi era traccia, nella sala dei Gruppi parlamentari di Montecitorio dove ieri è stato proiettato il film Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini, che racconta gli ultimi giorni della vita di «un ultimo tra gli ultimi», come Ilaria ha definito suo fratello Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009, una settimana dopo essere stato picchiato da carabinieri che lo avevano arrestato.
La sala della Camera è stata aperta per la prima volta ai cittadini comuni per volere del pentastellato Fico, il quale ha accolto con «molta determinazione» la proposta del deputato radicale dem Roberto Giachetti di proiettare il film nel tempio della democrazia italiana, confidando evidentemente nell’interesse di deputati e senatori. Che invece lo hanno lasciato solo.
«Un film molto toccante, sintetico e chiaro, in cui anche i silenzi parlano», ha commentato Fico al termine della proiezione, dopo aver visto per la prima volta il film. Nel presentarlo insieme a Giachetti, al regista Cremonini, a Ilaria Cucchi e all’avvocato Fabio Anselmo, il presidente Fico aveva spiegato: «La battaglia della famiglia Cucchi è stata una battaglia per la verità. E lo Stato deve essere vicino alle persone che cercano la verità, che non fa mai male e fa sempre bene, anche se scomoda e dolorosa. L’unico modo per diventare uno Stato più maturo è riuscire a guardare nella nostra pancia e a cercare la verità. La verità non fa male ai carabinieri, né alla polizia, né alla finanza o alle forze armate. La fedeltà che io devo allo Stato, per la carica che rivesto, è il dovere di accendere i riflettori dove ci sono le ingiustizie». Poi, rivolgendosi a Ilaria Cucchi, Roberto Fico ha ringraziato quella famiglia che ha tenuto duro per nove anni continuando a confidare nella giustizia: «Grazie per questi anni che sono stati durissimi».
«Ma la battaglia non è ancora finita», ha ricordato Ilaria che ha chiesto al presidente della Camera di non lasciarli soli. È necessario infatti continuare a tenere accesa l’attenzione su un processo, quello in corso che vede imputati cinque carabinieri accusati a vario titolo del pestaggio di Cucchi e del depistaggio delle indagini, e che sta rivelando uno spaccato inquietante sulla catena di comando dell’Arma.
Ma per il ministro dell’Interno Matteo Salvini, invece, «non si può imputare a un sistema di 200mila uomini delle forze dell’ordine, l’errore di un singolo». Intervistato dal quotidiano Leggo, Salvini ha ricordato di aver invitato Ilaria al Viminale e ha aggiunto: «Poi comunque sono qui da cinque mesi, che devo fare? Per me, se vuole venire la porta è aperta».

Il Fatto 14.11.18
Montecitorio vuoto per il film su Cucchi. E Ilaria punge Salvini

“La verità non fa male ai carabinieri, né alla polizia, né alle forze armate. Il mio dovere è quello di mettere il riflettore dove ci sono le ingiustizie”. Così ieri il presidente della Camera Roberto Fico ha commentato la proiezione del film Sulla mia pelle, che racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, nelle sale del Parlamento. All’evento, organizzato dallo stesso Fico, era presente anche famiglia di Stefano: “Questo è un giorno importante – ha detto il presidente – perché la famiglia Cucchi entra alla Camera dei deputati, così come il film di Cucchi per raccontare anche una storia che non ha ancora una verità”. Scarsa, però, l’affluenza dei parlamentari alla proiezione, complice la concomitanza di diverse votazioni nelle Commissioni. Assenza annunciata era invece quella del vicepremier Matteo Salvini, che già due giorni fa aveva declinato l’invito sostenendo di avere altri impegni. “La mia famiglia – ha detto Ilaria Cucchi – si è sempre fidata delle istituzioni, a differenza della guerra in corso che si vuol far credere”. La sorella di Stefano, sollecitata a commentare l’assenza del ministro degli Interni, ha poi specificato: “Fiducia nelle istituzioni? Sì, ma mi riferisco a quella parte sana”.

Il Fatto 14.11.18
L’Ici del Vaticano. Per anni i governi italiani (e pure Bruxelles) hanno coperto i privilegi
risponde Carlo Di Foggia


La Corte di Giustizia Ue ha intimato all’Italia di recuperare l’Ici non versata dalla Chiesa, riaprendo il contenzioso tra Stato e Vaticano in materia di tasse. Mentre i governi passati hanno sempre trovato alibi per non affrontare la questione, l’imbarazzato governo Conte sembra orientato a rinunciare in toto ai miliardi che spettano di diritto alle casse quasi vuote del nostro Paese. C’è l’esigenza di chiarezza e giustizia su una materia delicata, in cui dubbi e incertezze danno luogo a incomprensioni e polemiche, a volte giustificate. Se davvero dobbiamo ragionare in un’ottica di maggiore equità, c’è il dovere politico e morale di superare tutti quelli che possono essere o apparire privilegi ingiusti e immotivati. Dal punto di vista etico, dovrebbe essere il Vaticano a chiedere responsabilmente di pagare il dovuto e non essere ipocritamente disposto a parlare con il governo evitando l’irritante atteggiamento di chi si ritiene esentato da certe regole, le stesse regole, che predica, siano rispettate da altri. “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” sono parole del Vangelo, a quanto pare difficili da recepire, non solo dalle gerarchie vaticane, ma pure da servili governanti che confondono il concetto di fede con il concetto di giustizia sociale.
Silvano Lorenzon

Gentile Silvano, lei ha ragione. Per recuperare quelle somme, che l’Anci stima in 3,6 miliardi, serve una legge apposita, ma il silenzio con cui il governo ha accolto la sentenza non lascia trasparire la volontà di muoversi in questa direzione. Come spesso accade in questi casi, però, all’esecutivo in carica tocca una grana che, per la colpevole ignavia dei predecessori, presenta il conto tutto insieme. Un conto è riscuotere i soldi dovuti anno per anno, un altro è chiedere indietro l’arretrato del 2008-2012 in un colpo solo. È l’epilogo di una storia di connivenze in cui i governi italiani, ma anche Bruxelles, hanno coperto il Vaticano garantendogli un ingiusto privilegio. Prima il governo Berlusconi ha esonerato la Chiesa dal pagare l’Ici sugli immobili, poi il governo Prodi l’ha limitata alle attività “esclusivamente commerciali” (bastava avere una cappella in un albergo per venire esonerati), infine Bruxelles ha dato ragione a Roma che lamentava di non poter recuperare gli arretrati per mancanza di dati. Il governo non sembra voler aprire un nuovo fronte di scontro interno, stavolta con il Vaticano. Che pure – per bocca di Papa Francesco – si era detto disponibile a saldare l’arretrato (solo a Roma vale 20 milioni), senza però dare seguito alle promesse. Alla politica serve un gesto di coraggio, ben sapendo che ha ereditato un disastro del passato.

La Stampa 14.11.18
Recupero Ici sugli immobili religiosi
Il governo studia lo sconto sulle cartelle
Tra le ipotesi lo sconto sugli interessi o l’abbattimento del capitale. In ballo un tesoretto da 4,8 miliardi
di Michele Di Branco


Governo pronto a chiedere alla Chiesa l’Ici non pagata e relativa al periodo 2006-2011. Magari con uno sconto su sanzioni e interessi, come nel caso delle varie rottamazioni in corso. O addirittura anche con un abbattimento del capitale, considerato che il Vaticano, secondo le stime del ministero dell’Economia, sarebbe debitore nei confronti dello Stato italiano di 4,8 miliardi di euro.
Palazzo Chigi, riferiscono fonti del Tesoro, è già al lavoro sul dossier, in collaborazione con la direzione della Concorrenza di Bruxelles e con i comuni (che sono i titolari dell’imposta sugli immobili), ed è pronto a rendere esecutiva, con tanto di cartelle esattoriali da spedire a Vaticano e diocesi, la sentenza di una settimana fa, con la quale la Corte di giustizia Ue ha clamorosamente riaperto il caso dei rapporti tra Stato e Vaticano in materia di tasse.
In che modo l’Agenzia delle Entrate potrebbe reclamare le imposte arretrate relative a sei esercizi finanziari? La questione è complicata e occorre ricordare che, secondo alcune stime, il 20% del patrimonio immobiliare italiano sarebbe in mano alla Chiesa. Nel dettaglio, tra l’altro, figurerebbero 9 mila scuole, 26 mila tra chiese, oratori, conventi, campi sportivi e negozi e 5 mila tra cliniche, ospedali e strutture sanitarie e di vario genere.
La formula forfettaria
Il problema principale, di non facile soluzione, è riuscire a distinguere chi svolge attività commerciale da chi non la pratica. Alle prime attività, lo Stato italiano, attraverso un inevitabile concordato con la Chiesa, potrebbe chiedere l’Ici arretrata attraverso una formula forfettaria, rinunciando appunto a sanzioni e interessi, e applicando un’aliquota fortemente ridotta, come nel caso della Pace fiscale che si sta mettendo a punto con la manovra. Resta un fatto, che l’accordo con il quale il governo Monti, nel 2012, si illudeva di aver chiuso la pratica è ormai carta straccia e ora si riapre un’altra tappa nella lunghissima vicenda delle esenzioni fiscali garantite agli immobili della Chiesa.
Occorre infatti ricordare che i giudici della Corte, annullando la decisione della Commissione del 2012 e la sentenza del Tribunale Ue del 2016 che avevano stabilito «l’impossibilità di recupero dell’aiuto a causa di difficoltà organizzative» nei confronti degli enti non commerciali, come scuole, cliniche e alberghi, hanno intimato all’Italia di recuperare i soldi mai versati affermando che i problemi connessi all’attività di contrasto all’evasione fiscale costituiscono mere «difficoltà interne». Un modo neppure tanto garbato per dire: se non siete stati capaci di farvi pagare è un problema che non ci riguarda ma che non vi esenta dai vostri doveri.
La vicenda è complessa: l’Ici (Imposta comunale sugli immobili, poi sostituita dall’Imu) è stata introdotta nel 1992, esentando dal suo pagamento gli enti non commerciali. Fino al 2004 questa esenzione, di cui non beneficiava solo la Chiesa cattolica, ma tutto il vasto mondo non profit, ha sollevato un contenzioso fino a quando una sentenza della Cassazione, relativa a un immobile di proprietà di un istituto religioso utilizzato come casa di cura e pensionato per studentesse, ha affermato che per beneficiare dell’esenzione sono necessari tre requisiti tra cui quella più importante, e cioè che gli immobili venissero usati a fini non commerciali.
Con il governo Berlusconi
L’esenzione fu però allargata nel 2005 dal governo Berlusconi per includere tutti gli immobili di proprietà della Chiesa, anche quelli a fini commerciali. Questo allargamento fu poi giudicato dalla Commissione europea come un aiuto di Stato, perchè danneggiava le attività commerciali non di proprietà della Chiesa.
Nessuna ingiunzione
A partire dal 2012 l’Ici è stata sostituita dall’Imu. E la Commissione ha riscontrato che questa è conforme alle norme dell’Ue in materia di aiuti di Stato, in quanto limita l’esenzione agli immobili in cui gli enti non commerciali svolgono attività non economiche. La Commissione, però, non ha ingiunto all’Italia di recuperare l’aiuto in quanto Roma aveva dimostrato che il recupero sarebbe stato impossibile.

il manifesto 14.11.18
Perché la Tav non è soltanto un treno
Alta velocità. La «profezia» di giornali e tv: 40mila dovevano essere come al corteo che piegò gli operai della Fiat 40 anni fa, e 40mila sono stati. Senza nemmeno il bisogno di contarli
di Guido Viale


«Ma è solo un treno!», esclamava Luigi Bersani, già segretario del Pd, non riuscendo a capire come intorno alla lotta contro quel «treno» sia cresciuta per 30 anni la più forte, duratura, combattiva, democratica ed ecologica comunità del paese. Proprio mentre il suo partito (“la ditta”), in altri tempi baluardo della democrazia, si stava dissolvendo tra le grinfie di Renzi. In realtà, quello non è «un treno», ma solo un pezzo di treno.
Un binario di 57 chilometri per far correre ad «alta velocità» merci e passeggeri che non ci sono e non ci saranno mai, dentro una galleria scavata in una montagna piena di uranio e amianto, mentre prima e dopo, se e quando la galleria sarà stata fatta, quel treno dovrà accontentarsi delle tratte intasate che la congiungono all’alta velocità Parigi-Lione e Torino-Milano. Perché per far credere che il Tav costi meno la duplicazione di quelle tratte è stata rimandata al dopo: quando ci sarà altro a cui pensare. Perché i cambiamenti climatici provocati dalle tante grandi opere saranno diventati irreversibili.
PER ESIGERE la realizzazione di quel non-treno l’arco delle forze anticostituzionali si è mobilitato sabato scorso a Torino mettendo insieme Salvini, Pd, Forza Italia, Forza nuova e Casapound, con industriali, commercianti, professionisti e sindacati vari, preferendo quell’adunata a una delle 100 manifestazioni delle donne contro il disegno di legge Pillon, che introduce il fascismo nelle famiglie, o al corteo di Roma contro il decreto Salvini, che introduce fascismo in tutto il paese (dandone immediato riscontro con il blocco dei bus che portavano a Roma i manifestanti, con annessa schedatura a futura memoria: quando si tratterà di dar loro la caccia casa per casa?!).
RISULTATO? Una profezia che si avvera: 40mila dovevano essere come al corteo che aveva piegato gli operai della Fiat 40 anni fa, e 40mila sono stati; senza nemmeno il bisogno di contarli. Giornali e Televisioni registrano invece di sfuggita le 100 manifestazioni delle donne, compiacendosi che anche lì siano state loro a prendere l’iniziativa, quasi che gli obiettivi fossero gli stessi.
E SUL CORTEO di Roma, che ha forse doppiato i numeri di Torino, nemmeno uno strillo, amco a cercarlo.
E poi ci si stupisce che Grillo e compagnia diano in escandescenze…così La Stampa (ai bei tempi detta La Busiarda) riempie tutta la prima pagina con una gigantografia dell’adunata (quasi fosse scoppiata la bomba atomica) e un peana al non-treno, cui lega indissolubilmente «responsabilità personale, rispetto del prossimo, istituzioni della Repubblica, legame identitario con l’Europa, forza incontenibile della modernità contro ogni tipo di oppressione».
INSOMMA, la sopravvivenza della civiltà è legata a un filo e quel filo non è l’inversione di rotta per fermare i cambiamenti climatici che stanno distruggendo il paese, il pianeta, e anche il Piemonte, ma un pezzo di treno.
A questa unanimità dei media sembrava fare eccezione IlSole24ore, che ha affiancato a una foto dell’adunata torinese un articolo su «Il grande spreco del Mose di Venezia – 15 anni di lavori 5,5 miliardi di costi». Poi, leggendolo, sembra che alla fine tutto fili liscio lo stesso, nonostante sprechi, ruberie, corruzione inefficienza e scarsa probabilità che il Mose funzioni.
È CHE gli abitanti di Venezia non sono riusciti ad opporsi al Mose (che non salverà Venezia, ma rischia anzi di sommergerla sotto un’onda anomala) o alle grandi navi con la stessa determinazione con cui in val di Susa si sono opposti al Tav, salvando, per ora, sia la valle che parte dei fondi statali: soldi di tutti.
Ben poche delle persone trascinate in piazza a Torino da questa ventata di amore per quel non-treno – che «ci avvicinerà alla Francia e all’Europa»; proprio quando metà dei promotori, neanche tanto occulti, di quell’adunata strilla ogni giorno contro entrambe – hanno cercato di informarsi sullo stato reale di avanzamento dei lavori, sulle ragioni del no, sulle difficoltà tecniche, economiche e soprattutto su quelle sociali e ambientali che continueranno a ostacolarne la realizzazione.
MA LO SPIRITO del raduno, finalizzato soprattutto a far saltare la giunta Appendino (il che non restituirebbe la città a Fassino, ma la consegnerebbe a Salvini), era illustrata da alcuni cartelli ben in vista in quell’evento storico: «No Ztl»; «Libera circolazione!», ovviamente, delle auto.
A LORO di quel treno forse poco importa: vogliono cacciare l’Appendino per tornare ad andare in ufficio o a fare shopping «in macchina». E tutto questo mentre metà del paese sta letteralmente crollando, affogando e scomparendo, travolta da un maltempo che prefigura i futuri disastri dei cambiamenti climatici. Di cui anche uno sprovveduto dovrebbe ormai accorgersi; e scendere in piazza perché si cambi immediatamente rotta, invece di gingillarsi con quel non-treno che non si farà mai.

Il Fatto 14.11.18
Altro che Tav, i veri interessi degli industriali in piazza
Le imprese locali chiedono fondi dopo la crisi dell’auto
di Stefano Feltri


A qualche giorno di distanza dalla manifestazione di piazza di Torino a sostegno del Tav Torino-Lione è sempre più evidente che ci sono due livelli di quella protesta: uno nazionale e tutto politico e uno molto locale. Il treno ad alta velocità c’entra poco con entrambi. Lo dimostra anche la prima reazione del sindaco Cinque Stelle di Torino, Chiara Appendino: la sua mossa di dialogo con la piazza non è stata offrire un compromesso sul progetto della linea ferroviaria, ma andare a Roma a trattare con il ministero dello Sviluppo economico, guidato da Luigi Di Maio, il riconoscimento della città di Torino come “area di crisi industriale complessa”.
Come riporta il bollettino mensile dell’Unione industriali di Torino, l’export di auto che ha trainato finora la ripresa si è fermato. A settembre era dell’8,7 per cento inferiore allo stesso mese del 2017. Cresce ancora l’alimentare (+9,3 per cento), ma pesa la metà dell’automotive nell’insieme delle esportazioni piemontesi. In Piemonte l’azienda più grossa è ormai la Lavazza, ma anche dopo la svolta americana della Fiat-Fca se si ferma il settore auto per l’economia regionale è una catastrofe. E così la Appendino chiede che Torino venga trattata come altre aree di “crisi industriale complessa”: Porto Marghera a Venezia, Fabriano dove la Merloni è in difficoltà da anni, Sestri Ponente a Genova con la sua claudicante Fincantieri. Con il riconoscimento della qualifica di “crisi industriale complessa”, si possono attivare piani di riconversione, di formazione, ammortizzatori sociali straordinari. In una parola: soldi. Fondi nazionali e regionali che arrivano sul territorio.
Altro che corridoi intercontinentali per trasportare merci a grande velocità, quello che l’Unione degli industriali guidata da Dario Gallina e le varie associazioni imprenditoriali del territorio sperano davvero di ottenere è un po’ di quei fondi che ora finiscono in mezza Italia ma non in Piemonte (nel 2018, per esempio, c’erano 169 milioni per la cassa integrazione straordinaria per le Regioni coinvolte). Poca roba, è vero, però concreta, ma che non basta a compensare quel senso di smarrimento di una élite cittadina che, senza gli stimoli provvisori dei grandi eventi come le Olimpiadi, si vede completamente oscurata da Milano. Perfino alla cena di gala del club Bilderberg, a fine maggio dentro il Museo dell’Automobile, il discorso di benvenuto lo ha tenuto il sindaco meneghino Beppe Sala, causa assenza della Appendino. Su queste esigenze molto concrete si innestano anche traiettorie personali. Per esempio quella di Licia Mattioli, che è stata presidente dell’Unione industriali torinese, e oggi è vicepresidente della Confindustria nazionale: “Noi chiediamo che i nostri bisogni, quelli della città che poi sarebbero quelli dell’Italia tutta, vengano soddisfatti. A cominciare dalle infrastrutture, che sono e rappresentano il vero punto di partenza”. La sua impresa di gioielli non avrà mai bisogno dell’alta velocità, ma la battaglia per Torino potrebbe sicuramente aiutare il passaggio della Mattioli dalla compagnia di San Paolo ai vertici di Banca Intesa.
La Confindustria nazionale guidata da Vincenzo Boccia non ha mai fatto grandi battaglie per il Tav, più attenta a incassare benefici e riforme dagli impatti immediati. Ed è rimasta un po’ interdetta dall’evento di sabato scorso. Aveva già programmato un “consiglio generale” (una delle tante ritualità un po’ oscure agli esterni al mondo confindustriale) per il 3 dicembre: un dialogo a Torino con le associazioni territoriali e di settore, anche fuori dal perimetro di Confindustria, come quelle di commercianti e artigiani. Alcuni torinesi dell’associazione – come la Mattioli o Marco Gay – hanno spinto per un impegno sabato, ma non c’è stata l’adesione istituzionale. Boccia però è poi stato rapido a intercettare la eco politica nazionale di quella piazza, cavalcando la linea indicata dai giornali di un gruppo editoriale molto politicamente pesante ma anche molto torinese, Repubblica e Stampa (di John Elkann e Carlo De Benedetti): la piazza come inizio di una rivoluzione silenziosa contro il governo gialloverde e il ritorno dei moderati. “Come è possibile fare sviluppo se chiudi i cantieri?”, dice Boccia. Ma poi quando va in audizione in Parlamento a presentare le sue priorità per la manovra le priorità sono molto diverse dai tunnel alpini: cuneo fiscale, meno tasse, un programma di sostegno agli investimenti.
Perché per la Confindustria nazionale il problema più urgente non sono i no Tav, ma i Cinque Stelle: tra la squadra di Boccia e Luigi Di Maio non ci sono canali di comunicazione. L’associazione degli industriali non ha numeri di telefono da chiamare nel Movimento, giusto qualche presidente di commissione parlamentare. Mentre la Lega di governo è molto più attenta a costruire un rapporto con gli imprenditori a Roma e sul territorio. Ci pensano il lombardo viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia ed Edoardo Rixi, genovese, viceministro dei Trasporti che presidia il dossier del Terzo Valico.
Pure il sottosegretario Armando Siri, con minore esperienza governativa degli altri due, dimostra attenzione.
Perché per l’associazione degli industriali di Viale dell’Astronomia il dialogo con la politica è vitale, altrimenti diventa irrilevante. E non le resterà che affittare i suoi uffici come set: ieri c’era l’attore Patrick Dempsey, l’ex dottore di Grey’s Anatomy nei corridoi a girare la serie I Diavoli. Il Tav, ammesso che qualcuno pensi davvero che si possa ancora fare, con tutto questo c’entra molto poco.

il manifesto 14.11.18
Roma, «100 anni dalla parte giusta»
Roma. La scuola Di Donato festeggia il partigiano Fiorentini
di Fabrizio Rostelli


«Vi hanno raccontato chi sono i partigiani?» domanda una donna al microfono? «Sì» risponde in coro il piazzale della scuola Di Donato di Roma, gremito di bambini e genitori in trepidante attesa. I ragazzi si rincorrono distribuendo delle spillette rosse con scritto «100 anni dalla parte giusta». Quel motto è rivolto proprio a lui, a Mario Fiorentini, che il 7 novembre ha compiuto 100 anni. Intellettuale, partigiano e matematico di fama internazionale: le «tre vite di Mario», come ama definirle lui stesso.
L’associazione dei genitori Di Donato ha organizzato un evento per celebrare la vita straordinaria del partigiano più anziano d’Europa. Qui dobbiamo limitarci nel ricordarlo come uno dei fondatori dei Gap centrali, ideatore ed esecutore di diversi attacchi contro i nazifascisti durante la resistenza romana, agente segreto per l’Oss.
Purtroppo da casa Fiorentini non arrivano buone notizie: Mario non si sente molto bene, l’appuntamento con i ragazzi però è solo rimandato, fa sapere. I festeggiamenti iniziano comunque e Ascanio Celestini apre la serata leggendo dei racconti che contribuiscono ad arricchire il valore simbolico ed evocativo dell’iniziativa. «Credo che le storie di Mario sulla guerra stiano in piedi perché dentro c’è lui, la sua vita» osserva Celestini.
Interviene anche il matematico Ennio Peres, che proprio con Fiorentini ha curato il suo ultimo libro «Zero uno infinito. Divertimenti per la mente». Nella premessa del libro, Fiorentini scrive: «Una delle tante gratificazioni della mia carriera matematica mi è sempre venuta dall’incontro con bambini e ragazzi, particolarmente svegli e intelligenti. Con alcuni di loro sono riuscito ad instaurare un rapporto di grande comprensione e credo di aver loro trasmesso la curiosità e l’amore per la Matematica».

La Stampa 14.11.18
La rabbia delle brigate e delle tribù
“La Libia non si aggiusta con i summit”
di Francesco Semprini


Curiosità mista a pragmatismo, speranze mai sopite, qualche ilarità, e un po’ di delusione che trova forma nell’interrogativo: «E ora che succederà qui in Libia?». C’è un po’ tutto nello stato d’animo di chi, dalla sponda sud del Mediterraneo, ha seguito gli sviluppi della conferenza di Palermo. Ben inteso, i libici non sono rimasti certo col fiato sospeso davanti alle tv per assistere alle gincane di Khalifa Haftar o alle triangolazioni delle diplomazie. Tutt’altro, a Tripoli ad esempio le banche hanno dovuto fare i conti con le consuete file agli sportelli e i negozi coi soliti problemi di fornitura, mentre la macchina amministrativa proseguiva le attività ai ritmi che la contraddistinguono.
«Troppi boss nel Paese»
Certo però che nei caffè e nelle case della capitale, come tra le tribù della Tripolitania e nel resto del Paese, si è teso un orecchio a quello che rimbalzava da alcune centinaia di chilometri di distanza, visto che di Libia si è parlato. «Di conferenze ne abbiamo avute tante, la nostra situazione politica è complicata, sono in troppi a voler fare i boss o a voler diventare presidente. Credo che sia necessario ancora un percorso di maturazione, quindi del tempo. Ecco perché temo che da Palermo non esca fuori molto».
A parlare è Mustafa Barouni, sindaco di Zintan, quella che da alcuni è considerata una città-stato, realtà fondamentale nella storia politica e militare della Libia post-gheddafiana. Barouni mostra un certo disappunto per non essere stato invitato alla conferenza di Palermo. «Senza dubbio i quattro leader che hanno rappresentato il Paese sono personaggi noti e hanno forza sul campo, senza dubbio potevano, anzi possono, dare un contributo alla soluzione della crisi libica, ma non sono gli unici». Un’osservazione che viene mossa da un’altra «città-stato» ovvero Misurata, delusa per il fatto che il suo principale esponente, il vicepresidente Ahmed Maetig, non sia stato invitato di persona e che, come altri, non abbia trovato la collocazione che meritava. In realtà a Zintan si guarda già oltre, a quella sorta di «Costituente» prevista dal piano Onu ai primi del 2019 e di cui il sindaco ha discusso con Ghassan Salamé alla vigilia del vertice siciliano. Sulle elezioni però frena: «Sarebbe bello farle nel 2019, ma non credo sia possibile, non siamo pronti».
Mentre spera che da Palermo emerga la presa di coscienza da parte del governo di Fayez al Sarraj di «dare sostegno alle amministrazioni locali perché sono le uniche garanti del territorio».
La sicurezza di Tripoli
C’è chi dalla conferenza si attende un passo in avanti sulla sicurezza della capitale: «Dobbiamo favorire quanto più possibile la transizione verso una forza regolare e agevolare l’uscita di scena delle milizie». È il pensiero di Saad Hamali, portavoce della 7° Brigata di Tarhuna, i cosiddetti «insorti» che lo scorso agosto hanno innescato la rivolta contro le formazioni di Tripoli. «La situazione era diventata insostenibile, nelle periferie e nelle zone limitrofe mancava acqua, gas e luce a causa dei taglieggiamenti di certe formazioni che controllano Tripoli. Non c’era pane e non c’erano contanti, le milizie hanno umiliato la Libia ed è ora di cambiare le cose». Per Tarhuna ci sono inoltre formazioni che hanno mantenuto rapporti con i trafficanti illegali di migranti e di carburante: «Ecco perché la soluzione del problema è interesse di tutti, anche dell’Italia».
C’è chi evoca il lavoro avviato dal generale Paolo Serra nella veste di consigliere militare della missione Onu (Unsmil), come Houssam al-Najjar detto «Irish Sam» per le sue origini dublinesi, noto combattente (foreign) della rivoluzione del 2011 di cui racconta le vicende nel libro «I leoni della Tripoli Brigade», la sua formazione. «Per combattere il crimine organizzato, bisogna iniziare dal lavoro di Serra e creare forze di sicurezza istituzionali: così possiamo rifondare Tripoli».
C’è chi, sottolineando il Dna etnico-sociale della società civile libica, spiega che nel Paese vi sono almeno 120 tribù, e quattro leader (i soliti noti) non sono in grado di rappresentarle. Ashraf Shah, membro del dialogo politico libico dal quale sono nati gli accordi di Skhirat, sostiene che la linea inclusiva dell’Onu sia giusta «ma il popolo non appoggia quei leader».
La «Costituente»
Così la soluzione «bottom-up», ovvero di legittimazione dal basso, della «Costituente» di inizio 2019, con oltre 200 rappresentanti della società civile libica riuniti assieme, è guardata di buon grado dalle tribù della Libia. Comprese quelle del Sud, ai margini del palcoscenico palermitano, che dalla conferenza si attendono quanto meno lo sblocco dei piani strategici a partire dalla copertura dell’area di Ghat con una base di sorveglianza dei confini. Il progetto è chiave per le dinamiche locali e regionali, perché dal Fezzan vi sono minacce di fazioni degli Awlad Suleyman volte a sovvertire Tripoli, destabilizzando Ubari e l’equilibrio tribale.
«Da mesi e mesi quel progetto, che avrebbe messo in stallo l’azione francese a sud della Libia è sconsideratamente fermo - spiega Agenfor International, fondazione di analisi globali -. Dal sud passano tutti i traffici e vi è una presenza Tuareg da sempre favorevole all’Italia, dunque per l’asse Roma-Tripoli è un asset più che strategico».

il manifesto 14.11.18
«Valori traditi», Amnesty scarica Aung San Suu-Kyi
Rohingya e Myanmar. E all’Asean a Singapore contro la Lady anche il premier malese Mahatir
di Emanuele Giordana


È una giornata difficile da dimenticare quella che ha visto ieri protagonista, in negativo, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi cui ogni giorno qualcuno chiude la porta in faccia. E ieri la porta in faccia gliela hanno chiusa un primo ministro, un Alto commissariato Onu e Amnesty International. Proprio la più famosa organizzazione di difesa dei diritti umani e della libertà di espressione – che per anni ha battagliato per farla uscire dagli arresti domiciliari – ha deciso di revocarle il premio «Ambasciatore della coscienza», conferitole nel 2009.
LA DECISIONE è stata presa alla luce – spiega un comunicato della sezione italiana – «del suo vergognoso tradimento dei valori per i quali una volta si era battuta». «Come Ambasciatrice della coscienza ci aspettavamo da Lei che continuasse a usare la sua autorità morale per prendere posizione contro le ingiustizie ovunque le scorgesse, a iniziare dal Suo paese. Oggi – sostiene il segretario generale Kumi Naidoo – proviamo profondo sconcerto per il fatto che Lei non rappresenti più un simbolo di coraggio, di speranza e di imperitura difesa dei diritti umani. Amnesty International non può più valutare il Suo comportamento come coerente al riconoscimento assegnatole ed è pertanto con grande tristezza che ci accingiamo a revocarlo».
IN SOSTANZA AMNESTY le rimprovera il fatto che, a metà del suo mandato e otto anni dopo la fine degli arresti domiciliari, la Nobel non abbia usato la sua autorità politica e morale per salvaguardare i diritti umani, la giustizia, l’uguaglianza e la libertà di espressione in Myanmar. Il riferimento ovvio è sia alla questione delle minoranze, tra cui quella musulmana dei Rohingya, espulsi in massa nell’agosto scorso in Bangladesh, sia all’arresto e alla condanna di due reporter locali della Reuters, attirati in una trappola dai militari per impedire loro di divulgare le notizie relative agli eccidi commessi dall’esercito contro i Rohingya. Nello stesso giorno in cui Amnesty decide di levare il riconoscimento – seguendo una strada già intrapresa da altri ma non ancora dal Comitato dei Nobel – la de facto premier birmana riceve un altro schiaffo politico da un suo omologo nel Sudest asiatico. Si tratta di Mahathir Mohamad, l’inossidabile protagonista della vita politica malaysiana tornato a essere nuovamente primo ministro all’età di 93 anni.
Ieri i due si sono visti alla 33esima sessione dell’Asean Summit a Singapore. Mahathir ha scelto quella platea (che riunisce la maggior parte dei Paesi dell’area) per dire come la pensa. Rispondendo a una domanda sulla questione rohingya il vecchio politico malese ha detto che Suu Kyi starebbe «cercando di difendere l’indifendibile».
Fu del resto il suo predecessore, Najib Razak, il primo a usare la parola «genocidio». L’Asean ha una tradizione di «non ingerenza» negli affari interni dei partner ma questa volta sta facendo pressioni perché si faccia luce sulle responsabilità degli eccidi commessi nel Rakhine, il territorio della paura da cui i Rohingya sono stati espulsi ma dove hanno paura di tornare.
CHE NON POSSANO TORNARE perché non ci sono le condizioni di sicurezza adeguate per un rimpatrio sicuro lo ha detto ieri l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, che ha chiesto al Bangladesh di sospendere i piani per il rimpatrio di oltre 2.200 rifugiati rohingya: rimpatri che violerebbero il diritto internazionale per i rischi che correrebbero i rimpatriati che infatti temono per la loro incolumità se dovessero ora far ritorno nel Myanmar.

il manifesto 13.11.18
Giovani, marxisti e con gli operai ma il Pcc li reprime
Cina. In Cina spariscono altri attivisti che insieme ai lavoratori di Shenzhen da mesi chiedono di poter creare un sindacato
Gli studenti solidali con i lavoratori: «Liberate subito gli operai della Jasic arrestati ingiustamente»
di Simone Pieranni


Le teorie di Marx sono «totalmente corrette», aveva detto Xi Jinping durante le celebrazioni del bicentenario della nascita di Karl Marx. Ma se a confermare questo giudizio del presidente sono operai e studenti cinesi, che si professano maoisti e marxisti e che chiedono la possibilità di dare vita a un sindacato indipendente, non va bene. E anzi, vengono repressi, arrestati, o picchiati e fatti sparire.
È LA NUOVA ERA DI XI Jinping, periodo nel quale la proiezione internazionale della Cina ha finito per offuscare la visibilità esterna di quanto accade all’interno. Con Xi Jinping – che di recente ha cancellato il limite del doppio mandato alla carica da presidente e centralizzato ogni forma di controllo sul partito – la repressione su ogni forma di opposizione non sembra conoscere limiti e la vicenda degli studenti e degli operai della Shenzhen Jasic Technology lo dimostra.
Proprio nei giorni scorsi almeno dodici attivisti sarebbero spariti: presumibilmente rapiti dal consueto gruppetto di teppisti assoldato dal partito o dai sindacati per mettere a posto problemi imbarazzanti. Le scomparse sarebbero avvenute a Pechino, Canton, Shanghai, Shenzhen e Wuhan. Uno dei rapiti si chiamerebbe Zhang, e secondo le informazioni ottenute stava conducendo la ricerca di attivisti e lavoratori detenuti nei mesi precedenti. Un testimone – secondo l’Afp – «avrebbe detto che gli uomini che hanno arrestato Zhang avrebbero anche picchiato alcuni testimoni e impedito loro di scattare foto».
DURISSIMO IL COMUNICATO del gruppo Jasic Workers Solidarity: «L’Università di Pechino ha acconsentito al rapimento. Questo è un altro crimine che le università hanno commesso contro gli studenti progressisti e la comunità di sinistra». La protesta dei lavoratori della Jasic di Shenzhen, fabbrica che produce macchinari industriali per la saldatura, aveva ottenuto un suo momento di visibilità lo scorso agosto, a seguito dell’arresto dei leader della lotta. Alcuni gruppi di studenti che si definiscono «marxisti e maoisti» avevano portato la loro solidarietà scrivendo anche una lettera a Xi Jinping nella quale specificavano di non essere una «forza straniera». Ma la nuova era di Xi si sta caratterizzando per la repressione verso tutto quanto contrasta con la linea ufficiale. I lavoratori della Jasic avevano ottenuto il via libera da parte del sindacato cinese a creare organizzazioni di base, ma poi da parte dell’Acftu c’è stato il dietrofront. E puntualmente sono arrivati arresti, sparizioni, minacce.
NELLA CINA che comincia a sentire i colpi della guerra dei dazi con gli Usa – calo dei consumi e aumenti dei prezzi benché sotto controllo cominciano a preoccupare il partito – la protesta di lavoratori e studenti rappresenta un’ulteriore minaccia per la leadership e il mantra tutto pechinese del «mantenimento della stabilità».
Certo colpisce un fatto: Xi Jinping che si è assai prodigato a lodare Marx e recuperare alcuni aspetti del maoismo – come la «linea di massa» – ora si ritrova a confrontarsi con attivisti che si definiscono marxisti. Contraddizioni di questo strambo animale politico che è la Cina? La spiegazione appare proprio nelle parole dei ragazzi e degli operai in lotta: la crescita cinese ha tenuto indietro troppe persone, soprattutto i lavoratori, e altre sono deputate a soffrire in futuro, basti pensare ai «lavoratori digitali». La lotta di classe in Cina , come dicono attivisti e operai, non è mai stata attuale come oggi.

La Stampa 13.11.18
In Ucraina il campo dove i bambini imparano ad amare le armi da fuoco
di Nadia Ferrigo


Capelli lunghi e maglietta rosa, pantaloni mimetici e kalashnikov. Così ancora non si va alla guerra, ma si impara a sparare. Per uccidere. Felipe Dana, fotografo brasiliano di Associated Press tra i vincitori del World Press Photo, racconta con i suoi scatti il campo estivo nascosto in una foresta vicino a Ternopil, nell’ovest dell’Ucraina. A organizzarlo è il partito nazionalista Svoboda, anche grazie ai soldi del governo. Il ministero della Gioventù e dello Sport a inizio anno ha stanziato quattro milioni di grivna - circa 150 mila dollari - per finanziare alcuni dei campi giovanili di estrema destra. Il più anziano dei campeggiatori ha diciotto anni, il più giovane appena otto. Secondo il ministro, armare la gioventù ucraina vale come «educazione nazionale patriottica». Si alternano esercitazioni pratiche e teoria, con due obiettivi: addestrare le nuove generazioni a difendere il Paese dalla Russia di Vladimir Putin e diffondere l’ideologia nazionalista.

il manifesto 13.11.18
A Michele Giorgio la Colomba d’oro per la pace 2018
Archivio Disarmo. Il riconoscimento assegnato quest'anno al nostro corrispondente da Gerusalemme «per la capacità di diffondere un’informazione indipendente, critica e insieme rispettosa di tutti gli attori coinvolti nel conflitto» israelo-palestinese


l premio Colombe d’oro per la pace 2018, riconosciuto ogni anno dal 1986 da Iriad (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo), è stato assegnato al giornalista de il manifesto Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme per il Medio Oriente. Accanto al nostro collega la Colomba, opera di Pericle Fazzini, è stata assegnata anche alla giornalista freelance Sara Manisera, al documentarista Pietro Suber e al fotografo Steve McCurry.
Da 33 anni Archivio Disarmo premia personalità dell’informazione che raccontano i conflitti, la non violenza, il ruolo della società civile; a giornalisti che con il loro lavoro hanno dato un contributo alle cause della pace e del disarmo. Non è la prima volta che il manifesto viene premiato: nel 2005 la Colomba fu assegnata a Giuliana Sgrena per il suo impegno nella copertura delle vicende mediorientali e nel 1992 a Stefano Chiarini, storico giornalista della nostra testata che ha raccontato per anni la questione palestinese.
E quest’anno, di nuovo, la giuria composta da Fabrizio Battistelli, Dora Iacobelli, Riccardo Iacona, Dacia Maraini, Andrea Riccardi e Tana de Zulueta ha voluto riconoscere l’identico impegno verso la copertura della «drammatica realtà del Vicino Oriente» nel lavoro quotidiano di Michele Giorgio «da oltre 20 anni inviato da Gerusalemme per seguire il conflitto israelo-palestinese. Il premio gli riconosce la capacità di diffondere un’informazione indipendente, critica e insieme rispettosa di tutti gli attori coinvolti nel conflitto», si legge nella motivazione.
Menzione speciale al Progetto Presidio Caritas Ragusa, che dal 2014 garantisce assistenza ai braccianti nella provincia siciliana. Archivio Disarmo organizza il premio Colombe d’oro per la pace con il sostegno delle Cooperative aderenti a Legacoop. La premiazione si terrà a Bologna il 30 novembre e il primo dicembre.

Repubblica 14.11.18
Il dibattito
“Una città non vive solo di turismo”
Se una città d’arte perde la residenza perde anche cò che la rende attraente per i visitatori
Residenti fuggiti e sostituiti da Airbnb. Il destino dei centri storici può essere lasciato in balia del mercato?
Dopo Cervellati e Cacciari, interviene Alessandro Leon
Intervista di Francesco Erbani


Una città che vede spopolate le aree centrali, i nuclei storici, è una città meno efficiente e più costosa.
E le conseguenze del mal funzionamento si propagano in tutto l’organismo urbano. Parola dell’economista Alessandro Leon, presidente di Cles, centro studi che in oltre trent’anni ha accumulato una cospicua mole d’indagini su cultura e sviluppo, sui beni culturali e dunque sul valore di una città storica.
Quali sono i costi dello spopolamento?
«Una città densa garantisce servizi migliori. Una città che si svuota nelle sue aree centrali deve invece rincorrere brandelli che si sparpagliano nel territorio e non può assicurare la stessa qualità ai propri abitanti. Pensi a quanto costa un sistema di trasporti costretto a raggiungere insediamenti lontani per garantire a tutti il diritto alla mobilità».
Questa è una delle conseguenze del calo di residenti di una città storica?
«Certamente. Spesso non si riflette sull’esito delle espulsioni: dove va ad abitare chi lascia i centri storici? È andato a star meglio o peggio? E quali sono i costi che la collettività sopporta per queste migrazioni?»
Ma dal suo punto di vista, quali sono le cause del calo di residenti?
«La rendita urbana nelle aree storiche è cresciuta. E chi non ce la fa a sopportare questo aumento è costretto ad andar via. Lasciare che siano solo le regole del mercato a determinare l’assetto di una città è un errore politico e strategico. E gli effetti sono verificabili a livello economico e sociale perché la vita di una città va in affanno. Una città storica abitata favorisce la ripresa del commercio, evita che prevalga la specializzazione turistica, stimola la varietà dei servizi offerti, impedisce che si chiudano cinema e teatri».
Lei parla di specializzazioine turistica. Fra le cause di questo fenomeno molti indicano proprio il turismo. È d’accordo?
«Il turismo è uno dei fattori. Incide in maniera cospicua sulla residenza, perché assicura rendite molto elevate. Non attribuirei al turismo tutte le responsabilità. Il turismo è una delle più grandi industrie planetarie, garantisce ricchezza in molte circostanze, nelle città medio-piccole, ad esempio. È certo però che il turismo va regolato, non può assumere una posizione dominante».
Perché?
«Perché se una città storica perde la residenza, perde una delle caratteristiche che la rendono attraente. E dunque il turismo rischia di veder deperita la risorsa che lo alimenta. È il pericolo che corre Venezia, un caso estremo in questo senso».
Lei parlava dei costi dello spopolamento. Ma le città storiche si spopolano anche perché sono elevati proprio i costi. Quelli di manutenzione, per esempio.
«È vero, ma qui deve intervenire la mano pubblica. Accertata la convenienza che le città storiche non si svuotino, si deve agire con politiche che favoriscano il ripopolamento.
Non è facilissimo, ma occorre essere ambiziosi».
Quali politiche si possono
adottare?
«Qualcosa già si fa, ma è necessario garantire contributi per il risanamento, per il restauro e poi per ridurre i consumi e per migliorare la resa energetica. Credo anche che si possa ricostruire in una città storica e non solo recuperare quelle antiche.
Inoltre si può agire con la leva fiscale favorendo massicciamente l’affitto in centro storico ai giovani che vogliono risiedervi: nelle città storiche allo spopolamento si affianca l’invecchiamento dei residenti».
Ma il mercato è alterato da quello turistico.
«E allora si riduca al minimo la convenienza di affittare per uso turistico. Sto parlando di misure concrete. Un’occasione la vedo anche nella discussione sul reddito di cittadinanza: perché non si converte il contributo monetario in un’agevolazione a riabitare la città storica, invece di limitarsi a un sussidio?».
Sono sufficienti le politiche abitative o c’è bisogno anche d’altro?
«Leggo dichiarazioni troppo rassegnate di politici o di amministratori, che inanellano solo tentativi fallimentari di riportare funzioni pregiate nelle città storiche. Mi pare però che manchino riflessioni ragionate. Per esempio su quel che potrebbero fare le università, con le loro attività di ricerca. Oppure le imprese: quanti servizi non strettamente legati alla produzione possono tornare o essere collocati in centro. Penso alle strutture di commercializzazione, di comunicazione, di design. Insomma a tutto quello che viene prima e dopo la produzione. Purtroppo è carente il governo di questi fenomeni».
Chi dovrebbe esercitarlo questo governo?
«Si tratta di scelte urbanistiche connesse a politiche industriali. Ma spesso le decisioni risalgono alle Regioni o anche allo Stato centrale. I sindaci lasciano fare oppure si affidano a consorzi e quindi si perdono di vista le ricadute territoriali di queste decisioni».