Corriere 10.11.18
L’umanità di Mozart
Muti: «il suo punto di vista siamo noi e ci guarda con un sorriso triste»
Il
maestro apre la stagione del San Carlo di Napoli con «Così fan tutte»,
unico suo impegno operistico della stagione in Italia. La regia è della
figlia Chiara. «La persona giusta per portare in scena il mondo di
Amadeus con rispetto»
di Valerio Cappelli
Un
gioco di inganni che richiede adesione intellettuale, il titolo più
controverso della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte. Riccardo Muti
dice che Così fan tutte , insieme con il Falstaff , è l’opera che
porterebbe sull’isola deserta. È l’apertura di stagione del San Carlo di
Napoli, il 25; è al momento l’unico impegno operistico del grande
direttore in Italia; è la terza volta che lavora con sua figlia Chiara
alla regia.
Maestro, è il suo quinto «Così fan tutte»: il primo?
«Nel
1979, mentre ero in tournée in Usa con la Filarmonica di Londra. Un
giorno alle sette del mattino mi telefonò Karajan per propormi il Così
fan tutte da fare tre anni dopo al Festival di Salisburgo. Ero
titubante, non l’avevo mai diretto ed era un’opera legata ad anni di
trionfo di Karl Böhm. Gli risposi: è un suo invito, sua la
responsabilità. Accettò. Quel successo diede una spinta straordinaria
alla mia carriera internazionale. C’erano in giro i giganti del podio,
un’opera che si riteneva di proprietà culturale austro-germanica, spesso
non si coglievano le sottigliezze del libretto di Da Ponte. Io partii
dalle parole, che danno la scintilla alla musica e non viceversa. Lo
stesso percorso lo aveva fatto molti anni prima Guido Cantelli alla
Piccola Scala».
Lo si considera un testo «matematico», difficile.
«Da
Ponte raggiunge vette di alta poesia, pensiamo soltanto a “Soave sia il
vento, tranquilla sia l’onda”. Il testo è difficile per chi non capisce
la lingua italiana, o per il cittadino italiano che non approfondisce i
giochi di parole. C’è una lettura “ufficiale” che si presenta nel suo
candore, ma le stesse parole possono significare altre cose e diventano
piene di allusioni erotiche. Quando Fiordiligi e Dorabella riconoscono
gli amanti, e di aver commesso un grave errore, dicono: Il mio fallo
tardi vedo. Oppure Don Alfonso: Folle è quel cervello che sulla frasca
ancor vende l’uccello. Non è che il testo abbia volgarmente questi doppi
sensi, è un gioco di estrema leggerezza ed eleganza, il segreto è di
comprendere il sublime che nasce da situazioni apparentemente banali.
Per questo è l’opera più misteriosa ed enigmatica di Mozart. Penso alla
finta partenza dei due giovani che diventa un fatto profondo, e cioè la
partenza dalla vita. Il finale è una considerazione negativa
sull’umanità».
Come nel Falstaff.
«Esatto, sono occhi
critici sulla condizione umana, su chi siamo veramente. Non c’è niente
di misogino, avrebbe dovuto chiamarsi “Così fan tutti”, perché tutti e
quattro i giovani sono colpevoli e alla fine gabbati, come dirà Verdi
concludendo la sua esistenza. Le due opere hanno in comune questo triste
sguardo sull’umanità, espresso con un sorriso lieve. Senza Mozart non
ci sarebbe stato Verdi, e senza “Così fan tutte” non ci sarebbe stato
“Falstaff”».
Ci sono citazioni di Metastasio e Sannazaro.
«E
prese in giro di certi autori. Mozart non amava Gluck, che parla di
miti e mondi epici, lo trovava retorico. Il punto di vista di Mozart,
come di Verdi, è l’uomo: siamo noi, uomini che si specchiano negli
uomini. È un’opera che irritò Beethoven, che era un moralista, e Wagner,
il che è curioso».
Si dovette aspettare il ’900 e Strauss per rivalutarla.
«Mozart
muore nel 1791, la Scala fu inaugurata nel 1778. Mozart non ebbe mai il
piacere, in vita, di vedere rappresentata l’opera alla Scala».
Lavorare con sua figlia?
«Da
tempo sognavo di fare un’opera con la regia di Chiara, che ha studiato
alla scuola di Strehler, da cui ha assorbito il concetto della Bellezza e
conosce a memoria il testo. Essendo il titolo meno prorompente dal
punto di vista immediato, è quello che si presta a soluzioni registiche
le più improbabili e infami. Chiara è la persona giusta per creare un
mondo mozartiano che sia moderno e rispettoso».
È una coproduzione con l’Opera di Vienna.
«Tornerò
alla Staatsoper nel 2020, a dodici anni proprio dal “Così fan tutte”. I
teatri di Stato hanno il vantaggio di avere un grande repertorio, per
cui si possono mettere in scena una sessantina di titoli dall’oggi al
domani, e si va all’opera come al cinema. Lo svantaggio è che certe
vecchie produzioni, senza essere provate, diventino fatalmente routine.
Ma parliamo di Vienna, e di una grande realtà culturale».