martedì 16 ottobre 2018

Sul pianeta oggi ci sono più schede Sim che persone: 7,8 miliardi di sottoscrizioni alla telefonia mobile contro i 7,5 miliardi di abitanti. Noi italiani siamo i terzi al mondo per diffusione capillare del cellulare, con più di otto persone su 10 che ne hanno uno. Lo smartphone è qualcosa che ci rassicura, che ci tranquillizza e ci rende meno ansiosi. Le persone si svegliano durante la notte e per prima cosa guardano il telefonino. Poi si tranquillizzano e si rimettono a dormire. Il punto, dicono i neuroscienziati, è che stiamo allenando il nostro cervello a pensare esattamente nella stessa maniera in cui utilizziamo lo smartphone. Saltiamo da un pensiero all'altro così come saltiamo da un link all'altro. Tutto è diventato cliccabile, downloadabile. Ma quali sono le conseguenze sulla nostra capacità di capire davvero quello che leggiamo, di memorizzare? Cosa sta succedendo al nostro cervello?
quihttps://www.raiplay.it/video/2018/10/Presa-Diretta-Iperconnessi-a5d6226e-1fd2-450d-a8e7-ecd622413b20.html


Verso un nuovo Fascismo. Analfabetismo e propaganda - Presadiretta 16.10.18 from SEGNALAZIONI.BOX on Vimeo.



Repubblica 16.10.18
I Mondiali di pallavolo
Giovani, amiche e terribili il volo delle sorelle d’Italia
di Cosimo Cito


Con la vittoria sul Giappone padrone di casa, la Nazionale azzurra ha conquistato il passaggio alle semifinali. Età media 23 anni, si tengono per mano e sono cresciute insieme nel club vivaio
Davanti, adesso, c’è davvero il mondo, c’è Yokohama col vulcano già innevato, la semifinale e certamente una delle due finali, anche se, lo dice il ct Mazzanti che ieri ha festeggiato il compleanno più sofferto della sua vita, « le ragazze hanno messo una bella torta in frigo, ma hanno in serbo ancora la ciliegina » . Vinta solo al quinto set e all’ultimo punto ( 15- 13) la proverbiale resistenza giapponese, dopo due ore e dieci di barricate, le azzurre potranno tornare sul treno superveloce, addio Nagoya, troppa storia c’è ancora da scrivere sotto il monte Fuji, troppi palloni dovrà ancora catapultare oltre la rete Paola Egonu, 36 punti ieri, a un passo dal record in azzurro, 39, già suo. Le ragazze che « stanno facendo uno strepitoso Mondiale » , parola del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si guardano, si stringono, si tengono per mano. Più volte Egonu e Sylla, l’anima afroitaliana di questa nazionale del presente e del futuro, si sono tenute la mano sottorete, prima del servizio di una compagna. Si cercavano, si sono trovate, in questo Mondiale infinito che non finirà prima di sabato e durerà chissà quanto ancora, nella memoria. « Ci teniamo » dice la padovana di origini nigeriane Egonu, «per dimostrarci la nostra forza, la nostra unione, lo facciamo dalla prima partita, da sempre » . « La stretta di mano » aggiunge la palermitana di genitori ivoriani Miriam Sylla, «ci fa sentire che c’è presenza, che ci siamo. Non solo con Paola, ma con Lia, con Anna, con Moki, con Cristina ».
Un’Italia multietnica che è multietnica come l’Italia che sta guardando, tifando, che sta soffiando da lontano sui palloni, da dieci partite funziona, dieci vittorie su dieci, e non basta ancora. Egonu, Sylla e Malinov, genitori bulgari, ma anche l’italotedesca Sarah Fahr e la lecchese di origini nigeriane Sylvia Nwakalor, 5 su 14 delle azzurre ( età media della squadra di poco superiore ai 23 anni, spinta in su solo dalle veterane Ortolani e De Gennaro) hanno origini diverse dalla maggior parte dei loro connazionali, una sola è nata all’estero (Fahr), tutte amano l’azzurro e cantano l’inno tenendosi abbracciate. Tutte, sorridendo e abbracciando Doraemon, il pupazzone portafortuna, hanno spalancato le dieci dita e poi hanno unito le mani, come a dire «si vola». «Le emozioni vissute contro il Giappone che difendeva tutto, serviranno » sottolinea Mazzanti, «la paura di perdere qualcosa di importante e non averlo perso ci fa capire che non possono farci niente».
Tanto di questa squadra è stato costruito nel tempo, nel Club Italia, la struttura nata da un’intuzione di Velasco, una sorta di nazionale baby che gioca in campionato e alimenta il movimento, finalizza i risultati delle rappresentative azzurre giovanili, riconosce il talento nelle storie multicolor e negli occhi di ragazze che fanno pallavolo per motivi diversi, perché molto alte, perché appassionate, perché il papà (è il caso di Malinov e di Bosetti) giocava o allenava, perché nelle scuole italiane l’unica eccezione allo spazio inesistente assegnato allo sport è proprio la pallavolo.
Stamattina la Serbia, in quello che sembra l’anticipo di una finale, loro hanno voluto subito le azzurre per non ritrovarsele in semifinale. Vincendo o scegliendo di perdere, ci si abbinerà alla Cina o all’Olanda, venerdì. E oggi almeno scenderà la frequenza cardiaca di Mazzanti, ieri a livelli spaziali: « A un certo punto ho pensato “ non ho più l’età”. È stato bellissimo». È, sarà bellissimo.

Repubblica 16.10.18
Vorrei un’italia indifferente alle origini e alle radici
di Fiona May


Ragazzi, guardiamoci negli occhi, non se ne può più.
Siamo nel 2018. E ancora dobbiamo metterci qui a distinguere? La pelle, il colore della pelle? Ma stiamo scherzando. Siamo veramente l’unico paese al mondo in cui ti chiedono: da dove vieni? Ma che te ne importa da dove vengo. Viviamo insieme in questo luogo. Dovrebbe bastare per avere una dignità pari e una pari forza. Eppure non è così. Non qui in Italia, almeno, dove esiste ancora la necessità di dover dimostrare di “appartenere”. È come se per essere italiani dovessimo ogni volta esibire la nostra carta d’identità. Non succede in nessun altro posto al mondo. Se vado in Francia, Germania, Belgio, dico per dire, ebbene in ognuna di queste nazioni nessuno si domanda alcunché: io sono italiana. Punto. La colpa è della paura che è una melassa che ti si appiccica addosso, la paura di tutti quelli che non riescono ad accettare che il mondo sia un mondo fatto di moltitudine, un mondo in cui sono le diversità che scompaiono il vero patrimonio, la straordinaria occasione di arricchimento.
Non il contrario. I media spesso non aiutano. Capita di leggere ancora parole antiche che delimitano il campo, che tagliano a fette la realtà, perché in fondo dividere fa sempre comodo a qualcuno, o distinguere, precisare, l’atleta di colore, la famiglia di origini nigeriane. E che diamine.
Basta. Alla fine sembra normale tutto questo, ma non lo è. Siamo arretrati. E io sono veramente stufa di dover sempre ritornare sullo stesso argomento, come un disco rotto. Dirò di più: rispetto a quando sono arrivata qui in Italia, la situazione è anche peggiorata. È imbarazzante.
L’Italia sta vivendo un momento davvero particolare. Purtroppo sono le vecchie generazioni che marchiano a fuoco con la loro paura i temi sociali e impediscono l’arrivo dell’aria sana. Chi ha paura non vuole conoscere i fatti, la realtà diventa la prima nemica. Per fortuna la maggior parte dei giovani non ha di questi crucci. Loro non si pongono neppure certi problemi: semplicemente non esistono. E sono loro la speranza che di queste cose non si parli più, magari già da domani. Del resto più indietro di così davvero non si può andare. Sarebbe terribile e non so quanto pericoloso.
Penso alle ragazze della pallavolo. Stanno facendo delle meraviglie eppure sono tutti più concentrati sul fatto che in campo ci siano “colori diversi” trascurando così il valore sportivo della loro impresa, dietro la quale c’è un lavoro tremendo, dedizione, fatica. Spero di non dover più trattare quest’argomento.

Il Fatto 16.10.18
I giovani in piazza hanno solo ragione
di Roberto Faenza


Non è un nuovo ’68. Ma hanno ragione da vendere questi ragazzi a sfilare contro il governo gialloverde, accusato di non pensare al loro futuro. Quando scendevamo in piazza noi cinquant’anni fa, mio Dio quanto tempo è passato!, la contestazione era contro il mondo degli adulti, imputati di soffiare sulla repressione e combattere in Vietnam. Eravamo indottrinati dalle letture di Marcuse e Don Milani e le grida che si alzavano erano per inneggiare a Lenin, Marx e Mao Tse Tung.
I giovani di oggi di quelle vicende sanno poco o nulla. Non sono ideologizzati e non chiedono rivoluzioni. Ce l’hanno col governo perché nel contratto 5 Stelle-Lega i fondi per scuola e università sono così scarsi che non serviranno neppure a riparare i soffitti che crollano. Sto realizzando un documentario sui nuovi movimenti giovanili filmandoli dal nord al sud del Paese e colgo l’occasione per offrire ai lettori del Fatto qualche spunto. Non so se avete visto i loro volti nei vari Tg, che nei commenti hanno esibito la solita superficialità. Sono ragazzi e tantissime ragazze, animati da una carica che genera entusiasmo. Nel ’68 sfilavano soprattutto universitari e liceali. Oggi invece è sceso in piazza un numero sorprendente di giovanissimi dei primi anni delle superiori, contando sull’astensione di molti docenti che non hanno fatto lezione per favorire le manifestazioni. Sono ragazzi che, per fortuna, non sono guidati da alcuna dottrina, né da alcun maître à penser. Hanno in odio i partiti, nessuno escluso. A Torino hanno bruciato le effigi di Salvini e Di Maio, il che mi ha colpito perché molti di loro hanno votato 5 Stelle. Uno dei ragazzi intervistati ha detto che a dare fuoco erano giovani del Pd. Ho i miei dubbi che esistano dei giovani che ancora militino nelle fila di quella moribonda accozzaglia. I sociologi, presi alla sprovvista, si sono affrettati ad approntare una nuova mappatura del mondo studentesco. Non sapendo fare di meglio, si sono limitati a scrivere di una nuova gioventù “liquida”, cercando di definirne l’identikit. Troppo comodo citare il sociologo-filosofo polacco Zygmunt Bauman, che ha usato le metafore di liquido e solido, per circoscrivere l’universo adulto, immerso in una quotidianità senza punti fermi. Sicuramente i ragazzi di oggi non vivono la sessualità come gli adulti. Infatti la loro identità potremmo definirla più che liquida “plurima”, aperta a esperienze alternative. È il caso di una quindicenne di Milano, la quale ha chiesto di riprenderla di spalle per non essere riconosciuta. Ha raccontato che da due anni è innamorata, corrisposta, della sua compagna di classe. L’ha confessato alla madre, che l’ha pregata di non dirlo al padre perché non la capirebbe. “Mio padre è uno stronzo”, ha concluso. Ed è volata via. Dietro di lei un gruppo di ragazze ha alzato un cartello contro il Papa, reo di aver tuonato contro l’aborto: “Sicario sei tu!”. Se dunque è vero che questi giovani non seguono ideologie, è altrettanto vero che sono dichiaratamente antifascisti e antirazzisti. Il loro bersaglio preferito è il neo-Duce, lo chiamano così, Matteo Salvini. Ne sanno qualcosa gli studenti del liceo Tasso di Roma, che pochi giorni fa sono scesi in strada per impedire di entrare a un gruppetto di estrema destra, pronto a menar le mani e a distribuire volantini. Un diciottenne di Napoli, con in mano una copia del Manifesto (cosa rara perché la stragrande maggioranza dei giovani, abituati a navigare, non legge i giornali), esibisce la prima pagina, dove è scritto che il reddito di cittadinanza è in realtà un “reddito di sudditanza”. Gli chiediamo cosa voglia dire.
Risponde che la pretesa di aiutare la povertà sarà accompagnata da un sistema di controllo degno della Stasi, la polizia segreta della Germania dell’est. Se la prende con il governo, che dovrà schedare gli aventi diritto per verificare che non ci siano truffatori. Il tema della povertà è molto sentito, come pure la critica all’alternanza scuola-lavoro della “Buona scuola” voluta dal Pd. La maggioranza di questi ragazzi sa che non vivrà nell’agio delle generazioni precedenti. Precarietà e mancanza di occupazioni degnamente retribuite è il futuro che li aspetta. Ecco perché sono così arrabbiati. Siamo di fronte alla nascita di un movimento antiautoritario e positivamente anche un po’ anarchico, che ha sete di esperienze collettive e si batte contro le disuguaglianze. Lo dimostra la passione con cui si sono radunati a vedere il documentario su Stefano Cucchi, inveendo contro la brutalità dei carabinieri, simile a quanto accadde nel 2001 nella tristemente famosa caserma di Bolzaneto. Quando alla fine della proiezione viene annunciato che i colpevoli finalmente pagheranno si è alzato un applauso scrosciante. Qualcuno ha anche pianto.

Il Fatto 16.10.18
Niente asilo già per 5 bambini. E la sindaca non cambia linea
Non hanno portato da Benin, Togo ed Ecuador le carte chieste dal Comune finendo per dover pagare 570 euro. Ad altre 11 famiglie chiesti gli “arretrati” dell’anno passato
di Davide Milosa


L’anno scorso suo figlio non è stato preso al nido perché era troppo piccolo, quest’anno nemmeno, perché il costo della retta con tariffa massima (570 euro) era troppo alto e così ha dovuto rinunciare. Non solo, davanti all’impossibilità di portare i documenti richiesti dal nuovo regolamento scolastico imposto dalla giunta leghista di Lodi, la madre ha anche dovuto firmare una rinuncia al posto in graduatoria, perdendolo definitivamente. Candide è nata in un villaggio del Benin, ma in Italia ci sta da 26 anni, lei che di anni ne ha 27. Parla italiano e suo figlio è nato in Italia. A Lodi è arrivata da poco. Prima ha studiato a Bologna, dopodiché a Milano. All’Accademia delle belle arti di Brera ha fatto la scuola specialistica in terapeutica artistica. Il suo compagno è originario del Togo, lui è operaio a Sant’Angelo Lodigiano in un’azienda locale. Candide invece è disoccupata.
“Nello Stato del mio compagno c’è una guerra in corso – spiega Candide –. E anche per me è impossibile trovare documenti di quel tipo in Benin”. Insomma, una situazione ideale per ottenere l’accesso alla tariffa minima e invece il nuovo regolamento ha estromesso suo figlio. E come questo bambino, a Lodi ce ne sono altri quattro, che hanno perso per tutto l’anno il diritto di poter andare al nido pubblico. Esclusi e discriminati, senza la possibilità di tornare indietro. Sì perché se anche il regolamento dovesse cambiare, le graduatorie per i nidi pubblici sono chiuse.
Prima dell’inizio dell’anno scolastico, il Comune doveva valutare 73 domande per una cinquantina di posti al nido. Su venti bambini che hanno fatto domanda e sono rimasti fuori, di circa 15 si sono perse le tracce (in sostanza hanno rinunciato all’iscrizione ben sapendo di non poterla pagare), altri cinque, invece, resteranno fuori perché impossibilitati a fornire i documenti accessori. “Quando sono andata in Comune – spiega Candide – mi è stato chiesto di mandare una rinuncia scritta, perché non potevo pagare la retta massima. Ma io quei documenti non posso produrli. Sono nata in un villaggio e da noi le cose sono ben diverse”.
Stessa trama per Mariela originaria della Bolivia, mentre suo marito è dell’Ecuador. E se Candide ha inviato una rinuncia via email, lei ha firmato un modulo in Comune. Per la sua bambina niente nido. L’anno scorso, però, non c’erano stati problemi. Quest’anno, invece, c’era la caccia ai documenti di non possesso di beni immobili. Così Mariela che non può permettersi un viaggio in Bolivia, ha provato ad appoggiarsi alla madre. Un documento è stato trovato. Spedito in Italia e presentato al Comune di Lodi è stato respinto. “Non è abbastanza”, le è stato detto. Non lo è perché la regola del comune vuole che l’attestazione non sia solo nella città di nascita ma in tutto lo Stato.
Insomma si sfogliano storie quasi in fotocopie, con famiglie radicate in Italia, figli nati qua e redditi minimi. Al nido come alla scuola per l’infanzia fino alla primaria. Niente documenti, niente mensa (e scuolabus) salvo che si accetti di pagare la tariffa massima.
Opposizioni e associazioni in queste settimane hanno lavorato molto fino a raccogliere 60 mila euro di donazioni. Il sindaco Sara Casanova però tira dritto e ancora ieri ha spiegato: “Il regolamento non si cambia, la legge deve valere per tutti”. Posizione che Matteo Salvini, nonostante i dubbi interni alla maggioranza espressi ieri dal presidente della Camera Roberto Fico (“Bisogna chiedere scusa ai bambini e riammeterli”), certifica e rilancia: “Andrò a Lodi per dare solidarietà al sindaco. Stop a chi vive alle spalle degli altri”. Eppure sulla vicenda rischia, ora, di aprirsi un altro fronte. Il Comune non solo stringe le maglie sull’anno scolastico in corso, ma, a quanto risulta al Fatto, ha intenzione di andare all’incasso del pregresso che riguarda una decine di famiglie e altrettanti bambini. Per capire bisogna tornare all’ottobre del 2017, periodo in cui la delibera viene approvata. La modifica dovrebbe ricadere sull’anno successivo, ma ora scopriamo che non è così. In quel periodo circa una decina di bambini viene iscritta a scuola per l’anno scolastico 2017-2018. L’iscrizione avviene sulla base del regolamento precedente. Nessuno in Comune li avverte che le regole sono cambiate.
Alcuni si iscriveranno con la tariffa minima, altri con la tariffa calcolata secondo il reddito. Si arriva così al settembre scorso, quando i funzionari li avvertono che a breve il Comune invierà loro delle notifiche per avere pagato anche il pregresso dello scorso anno. Ovvero la differenza di denaro calcolata seguendo le indicazioni del nuovo regolamento. E questo nonostante nessuno del comune, in quell’ottobre 2017, comunicò loro del cambiamento di regolamento.

La Stampa 16.10.18
Un nuovo caso in Veneto: bonus libri a rischio per 7 mila extracomunitari
di Andrea Zambenedetti


La cieca burocrazia, che spesso ha messo i bastoni tra le ruote agli italiani, usata per rendere la vita impossibile agli extracomunitari. Discriminandoli e minando il diritto, inviolabile, all’istruzione. A puntare il dito contro la maggioranza leghista che guida la Regione Veneto sono i consiglieri del Pd che denunciano un nuovo caso Lodi. Alessia Rotta (già in segreteria all’epoca di Renzi) si spinge oltre e parla apertamente di «foga razzista». La replica è affidata a Elena Donazzan, assessore veneto all’Istruzione, che non solo rivendica le disposizioni ma rincara la dose: «Abbiamo solo applicato le norme, i discriminati erano gli italiani».
Andiamo con ordine. A scatenare la bagarre sono state le «istruzioni per il richiedente» rilasciate il mese scorso dalla Regione e destinate a chi intendesse richiedere il contributo regionale per acquistare i libri di testo. Termine ultimo: ieri. Tra gli incartamenti, oltre alle certificazioni Isee, i cittadini non comunitari devono allegare anche un certificato che dichiari l’eventuale possesso di immobili o di altri redditi all’estero. Un documento non indicato sul bando di accesso ai contributi. Buoni che lo scorso anno sono stati percepiti in Veneto da 26 mila studenti, 7 mila dei quali non comunitari e quindi costretti ora a integrare la domanda con il nuovo documento. A stabilirlo proprio quelle istruzioni comparse all’improvviso e che ora rischiano di far perdere il contributo a chi in così poco tempo non è riuscito a procurarsi la carta bollata, attraverso la propria ambasciata. «C’è una norma della Regione che attua il testo unico sull’immigrazione - spiega Elena Donazzan - non c’è nessuna discriminazione. Anzi, prima ad essere discriminati erano gli italiani che a differenza dei non comunitari dovevano dichiarare tutto».
Il caso è ormai esploso. «Dopo l’odiosa discriminazione di Lodi per l’accesso alle mense arriva l’altrettanto odiosa per i contributi ai libri scolastici» sottolinea il deputato di LeU, Stefano Fassina. Il Pd in Regione con Claudio Sinigaglia chiede intanto una proroga per il deposito degli atti e parla di una disposizione che «rischia di violare il diritto fondamentale all’istruzione». Sponda nelle file dei 5 Stelle. «Il diritto allo studio non si tocca - tuona Erika Baldin - ancora una volta questa Regione dimostra di essere più interessata al ritorno politico delle sparate che al bene dei cittadini».
Nel frattempo l’Anci chiarisce che la disposizione sui buoni scuola è solo l’inizio. «La misura attiene non solo al buono-libri ma a tutti i sussidi di carattere economico. Si cercherà di predisporre note operative - rileva una circolare inviata a tutti i municipi - che facilitino le funzioni di verifica dei Comuni e diano certezze ai soggetti legittimamente beneficiari. In modo particolare, si cercherà di fornire indicazioni sulle modalità applicative delle convenzioni internazionali vigenti nel nostro Paese». La burocrazia, è risaputo, a volte non è solo cieca ma può essere infernale.

Il Fatto 16.10.18
Salvate “Save the children” dagli insulti
di Elisabetta Ambrosi


“Avete voluto la bicicletta? Andate a pedalare sulle ossa dei bambini”. “Non provo alcuna pena, non sono io che li obbligo a procreare anche quando i figli sono destinati a morte certa, quindi non me ne può fregare di meno di quello che gli succede a questi bambini”. “Non si porta avanti una gravidanza, se non si mangia e beve! Anoressiche incinte non ce ne sono! Ci avete martellati con la storia che stavano morendo tutti di fame, ma la forza di scopare e procreare dove la trovano?”.
Difficilmente si potrebbe indovinare che la causa di tanti commenti pieni di odio sia un semplice rapporto di un’organizzazione non governativa, Save The Children, pubblicato ieri dai giornali online. Rapporto che non conteneva nessuna opinione, ma solo fatti: e cioè che ogni minuto, nel mondo, 5 bambini sotto i 5 anni muoiono per malnutrizione (7.000 al giorno). Che 50 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta dovuta a una improvvisa carenza di cibo e nutrienti. Che 1 bambino su 4,151 milioni è malnutrito cronico e rischia di subire fortissimi ritardi nella crescita. Non importa che il rapporto parlasse anche di altri Paesi, come la Siria e l’India, e non importa soprattutto che la Ong spiegasse con chiarezza le cause di questa situazione allucinante: e cioè, oltre alla povertà, conflitti armati uniti a disastri naturali provocati dai cambiamenti climatici. L’unico assillo dei commentatori era proporre per l’Africa la pianificazione delle nascite semi-coatta, unita alla colpevolizzazione delle vittime, qualificate senza appello come bestie irresponsabili.
“In Africa più sono poveri e più procreano, comportandosi come gli animali”. “Chi fa figli e non ha la possibilità di farli sopravvivere è lui stesso colpevole delle morti”. “Occorre barattare aiuti in viveri e medicinali con un programma di vasectomie e legature delle tube”. “Sprechiamo risorse per tappare falle aperte da partorienti ignoranti perennemente incinte”. “Figliano allegramente incuranti delle conseguenze”. “In Africa servono tonnellate di preservativi e poi abbandonarli”. “Fornire aiuti, cure, cibo, vaccini è un danno enorme, si impedisce il loro sviluppo”.
L’Organizzazione è stata attaccata anche direttamente: “Finché non avrò certezza della vostra estraneità al business immigrazionista, non vi darò nulla”. “Con ogni probabilità se Save The Children avesse speso per questi bambini i soldi che ha impegnato per traghettare in Europa gli Africani oggi la mortalità sarebbe ridotta”. Allarmante ritrovare in queste parole echi diretti di dichiarazioni politiche considerate, anche da chi non le condivide, spacconate ideologiche tutto sommato innocue. E se è vero che l’Italia è anche il Paese dove si raccolgono 60.000 euro in 48 ore per bambini immigrati rimasti senza mensa, fa impressione che il commento quasi unanime a chi muore di fame – anche se a scrivere sono gli odiatori di professione – sia l’accusa di essere animali che copulano senza ritegno.
Dal canto suo, Save The Children getta acqua sul fuoco: “Certamente è necessaria la pianificazione familiare, ma è proprio quella che noi facciamo”, dice il portavoce Filippo Ungaro. Ma la Ong ci tiene anche a chiarire alcuni aspetti: “Abbiamo messo soldi sulle navi perché abbiamo ritenuto un dovere umanitario quello di supplire all’assenza di politiche di salvataggio europee, non solo nazionali. Il problema del sottosviluppo è cruciale, non servono né falsi miti né politiche di tipo propagandistico elettorale: se non si interviene, e oggi ci sono tutti gli strumenti anche tecnologici, i problemi tornano indietro, vedi il caso Libia. Eppure, quasi nessun Paese europeo dà lo 0,7 per cento del Pil come dovrebbe e l’Italia si ferma allo 0,29. Noi, che non abbiamo la forza di un governo, nel solo 2017 abbiamo aiutato 33 milioni di bambini in tutto il mondo”.

La Stampa 16.10.18
Stretta sui clochard
Finisce in carcere chi dorme in strada
di Monica Perosino


Il reticolo di sottopassaggi del centro di Budapest ieri era completamente deserto. Accanto ai piloni dei ponti, e vicino ai marciapiedi solo i resti di giacigli provvisori, qualche rifiuto, i bidoni usati come stufe ormai fredde. Le decine di clochard che qui trovavano rifugio sono improvvisamente scomparse.
Dopo la stretta sui migranti, sui media e sulle ong, nel mirino di Orban sono finiti i senzatetto: da ieri in Ungheria chiunque venga sorpreso a dormire per strada sarà arrestato. È l’effetto della modifica dell’articolo 22 della Costituzione voluta dal governo, approvata dal parlamento di Budapest, e fortemente criticata dagli attivisti dei diritti umani come «crudele». Già a giugno l’esperta di housing dell’Onu, Leilani Farha, l’aveva definita «incompatibile con la legge internazionale per i diritti umani». Il provvedimento dà la possibilità alla polizia di arrestare i senzatetto che vengono scoperti tre volte in 90 giorni a dormire all’aperto. La polizia, dopo tre «avvertimenti», avrà la facoltà di portarli in carcere e distruggere tutti i loro averi. A meno che i clochard non siano in grado di pagare una multa che, secondo le ong, «nessuno di loro potrà pagare».
L’obiettivo è «assicurare che i senzatetto spariscano dalle strade e che i cittadini possano fare uso dello spazio pubblico», ha dichiarato Attila Fulop, segretario di Stato per gli affari sociali, mentre Bence Rétvári, viceministro delle Risorse umane, ha spiegato che «salverà vite umane con l’approssimarsi dell’inverno».
Si stima però che in Ungheria esistano 11 mila posti nei rifugi statali, mentre sarebbero 20 mila i senzatetto. Gabor Ivanyi, che guida il gruppo Oltalom (Shelter) che gestisce rifugi con 600 posti letto a Budapest, ha detto che «questa legge ha lo scopo di spaventare i senzatetto per spingerli a fuggire», e che «ora hanno paura, e non possiamo prevedere cosa succederà».

Corriere 16.10.18
Le sedie vuote dei due alleati per nascondere i contrasti
di Massimo Franco


Intanto c’è il contratto. E dove non arriva il contratto, subentra la politica della «sedia vuota»: l’assenza di uno dei vicepremier, Luigi Di Maio o Matteo Salvini, per marcare il disappunto per un provvedimento o un altro che risultano sgraditi. Una sedia vuota per il reddito di cittadinanza grillino, un’altra per la «pace fiscale» leghista; ma solo per qualche ora. Il trucco salva l’anima ai contraenti, oltre che salvare il governo, velando le contraddizioni. Con questo doppio registro, Movimento Cinque Stelle e Lega sono pronti a marciare uniti e divisi fino alle Europee; a fare il pieno di potere, di voti virtuali dei sondaggi e alla fine, chissà, di voti veri.
Fino a maggio, insomma, la maggioranza sembra sicura di reggere. Il giorno dopo, invece, dopo avere misurato le rispettive consistenze elettorali, Di Maio e Salvini decideranno se deve rimanere Giuseppe Conte a Palazzo Chigi; oppure se esistono nuovi equilibri che richiedono un’altra fase, e magari elezioni politiche. La primavera, tuttavia, è lontana. Non si riesce a capire quale strana manovra economica sarà consegnata all’Europa: «Non ci sentiamo vincolati dalle norme sul deficit pubblico decretate da Bruxelles», ribadisce Salvini. Su questo sfondo nessuno scommette che nell’esecutivo non cresca la tentazione di uno strappo per andare al voto, se tutto precipita.
In teoria, le elezioni non convengono a nessuno. Nel patto con i Cinque Stelle, Salvini ha quasi raddoppiato i consensi del 4 marzo: almeno quelli virtuali. E può sventolarli per accumulare potere senza bisogno di verificare le vere percentuali con l’azzardo delle urne. Per lui significherebbe rifare i conti con una Forza Italia che sta svuotando, e con Fratelli d’Italia che sono già un satellite leghista. Quanto a Di Maio, fino a che il Movimento non perde troppi consensi a vantaggio della Lega, la convivenza può proseguire.
La fronda «di sinistra» del presidente grillino della Camera, Roberto Fico, è considerata innocua. Al vicepremier del Movimento basta continuare un gioco delle parti che prevede punzecchiature alla Lega quando «strizza l’occhio ai grandi evasori», come dice Di Maio; e a Salvini, basta attaccare il reddito di cittadinanza, perché «il lavoro non si crea per decreto». Sono contrasti potenzialmente inconciliabili, ma ritenuti componibili nel contratto: almeno per ora. Il premier Conte rappresenta una garanzia di non ingerenza che permette ai vicepremier di regolare i conti senza preoccupazioni.
E la «spina» del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ormai è stata spezzata. Non si parla più di sostituirlo. La possibilità che gli subentri il ministro agli Affari europei, Paolo Savona, è diventata ancora più remota dopo le rivelazioni del Corriere sul suo ruolo nel fondo di investimento inglese Euklid. Ma soprattutto, Di Maio e Salvini sanno che almeno a breve termine potranno marciare nel deserto di opposizioni in disarmo, a destra e a sinistra. È una situazione ideale per governare senza nemici veri; oppure per trovare un pretesto e tornare alle urne in qualsiasi momento, sicuri di godere di una posizione di rendita.

il manifesto 16.10.18
Lucano: «Il nuovo Sprar lo costruiamo noi e sarà autogestito»
Intervista a Domenico Lucano. «La solidarietà ricevuta mi inorgoglisce e mi spinge a non arretrare di un passo»
di Silvio Messinetti


RIACE Dopo 14 giorni di arresti domiciliari, Mimmo Lucano è stremato. Sente sulla sua pelle la manovra a tenaglia che il Viminale gli sta tendendo. È giù di morale per la circolare del 9 ottobre. Ma è combattivo più che mai. Oggi il tribunale del Riesame di Reggio Calabria si pronuncerà sulla richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Alle 18 è previsto un sit-in a piazza della Prefettura indetto dai movimenti antirazzisti e dalle reti di solidarietà per Riace.
Oggi l’udienza del riesame. È fiducioso?
Per niente. Dopo tutto quello che mi hanno fatto sono pessimista. Sono vittima di un disegno ben preciso che parte da lontano e che prescinde anche dalla magistratura.
La manovra è tutta politica ed è bipartisan, riguarda il vecchio e il nuovo inquilino del Viminale. Il primo di essi (Minniti, ndr) è un signore che aspira oggi incredibilmente a fare il segretario del Pd.
Ma sai che io non dormo la notte a pensare la fine che fanno i migranti rinchiusi nei campi libici dopo gli accordi firmati proprio da Minniti con le milizie di Tripoli? C’è un nostro ospite qui a Riace, Kasai, che ripetutamente mi rammenta le ore di inferno passate in quei lager e mi chiede incredulo come sia possibile che l’Italia cooperi con questi aguzzini libici. A me contestano un matrimonio che hanno definito «combinato» anche se di combinato non c’è nulla, ma a Minniti perché non viene mai contestata l’ecatombe di migranti in Mediterraneo o la deportazione di africani nei campi di tortura libici? La risposta io ce l’ho: perché noi siamo gli ultimi, e non contiamo nulla. Ma verrà il tempo in cui questi ultimi, questi «zero» come mi ha affettuosamente definito Salvini, si ribelleranno.
Il ministero degli Interni ha puntualizzato che non ci saranno trasferimenti coatti ma le «uscite» avverranno solo su base volontaria. La rassicura?
Dal Viminale ho avuto solo delusioni in questi mesi. La procedura degli Sprar è falsata. Contro di me c’è stata una vendetta di alcuni ispettori e di alcuni pezzi grossi del servizio Sprar. Io non mi sono voluto adeguare ai loro metodi e loro hanno contraccambiato diffamando l’esperienza di Riace, buttando fango e fiele. Ci sono due relazioni della prefettura reggina assolutamente schizofreniche, che nel giro di pochi mesi dicono l’una il contrario dell’altra. La seconda, che io definisco un inno all’accoglienza altro che sociologia come l’hanno chiamata nella circolare del 9 ottobre, smonta punto per punto le obiezioni. della prima Nella circolare non hanno fatto altro che copiare e incollare la prima relazione. Ora confidiamo nel Tar e i miei legali dell’Asgi, Gianfranco Schiavone e Lorenzo Trucco, si dicono molto ottimisti. D’altronde, il giudice Emilio Sirianni, che insieme a me nel maggio scorso volle fare un’ispezione campione sui punti controversi, ha detto, e lo ha scritto anche sulle pagine del vostro giornale, che era tutto ineccepibile.
Salvini ha persino postato in rete un video di un pregiudicato che diffama spudoratamente Riace e il suo sindaco. Crede che sia ossessionato da Riace?
Lui è ossessionato da tutto ciò che è umano, prendiamo la crociata contro quelli che lui spregevolmente definisce negozi etnici oppure pensiamo al caso delle mense scolastiche. Con lui c’è una regressione della coscienze. La barbarie non è mai stata così vicina come con questo governo.
È più forte la solitudine che impone la custodia domiciliare o l’affetto del popolo che si è riversato in questi giorni a Riace?
La detenzione ti prova tantissimo e io mi sento come un leone in gabbia. Ogni tanto conto i passi della mia casa e mi sento fermo e impotente di fronte alle brutture che accadono qui fuori. La solidarietà ricevuta mi inorgoglisce e mi spinge a non arretrare di un passo. Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini. Da padre Alex Zanotelli a tutti i missionari comboniani, da Agazio Loiero al presidente della Regione Oliverio. E mi hanno molto colpito gli attestati di vicinanza da oltreoceano, dal Canada agli Usa, quelli dei sindaci di Barcellona, Madrid, Ginevra. Questa è la forza dell’utopia, un urto dirompente che permette a un paesino di 1.500 abitanti di parlare al mondo intero.
Senza lo Sprar esisterà ancora il «modello Riace»?
È ora di cambiare marcia. Insieme a tutti i solidali e coloro i quali scelgono di ‘restare umani’, per citare un nome caro al manifesto, come Vittorio Arrigoni, creeremo un nuovo Sprar, autogestito e autosufficiente. Pagheremo prima i debiti che a causa di questo sistema farraginoso abbiamo contratto e poi ognuno per la sua strada. Se il Viminale non ha fiducia in noi, l’accoglienza la facciamo da soli, con il crowfunding, con la solidarietà. A Lodi hanno in una settimana racimolato i soldi, negati da Salvini, per le mense dei bimbi dei rifugiati, questo è l’esempio. È necessario ritrovare l’entusiasmo ma il modello Riace sopravviverà, nessuno sarà obbligato ad andarsene. Metteremo a sistema tutte le strutture che abbiamo costruito – il frantoio, la fattoria didattica, l’albergo solidale, le imprese zootecniche. A prescindere dai finanziamenti Sprar.

il manifesto 16.10.18
Cambia il clima in Baviera, successo dei Verdi in 10 punti
I Grünen conquistano il 17,5% con un programma di finanziamenti al sociale, energia pulita, mobilità sostenibile, api e nuovi alloggi popolari. La leader Katharina Schulze, 33 anni: «Nelle urne si vince non seguendo la destra»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Il giorno dopo lo tsunami elettorale che ha travolto l’argine del monopolio Csu, a Monaco arriva l’esito del conteggio definitivo del voto di domenica. Il dato finale conferma lo strepitoso boom dei Verdi che ha fatto sprofondare i cristiano-sociali al 37,2% e colato a picco i socialdemocratici fino a quota 9,7%.
Le urne della Baviera restituiscono, ora ufficialmente, il 17,5% conquistato dai Grünen che coincide con il clamoroso record raggiunto nelle città con oltre 100 mila abitanti, dove gli ecologisti hanno convinto un elettore su tre con un programma europeista, pro-migranti e in difesa dell’ambiente.
Un risultato sintomatico: dal punto di vista politico dimostra – al di qua e al di là delle Alpi – che nelle urne «si vince non seguendo la destra» come riassume la candidata-governatrice, Katharina Schulze, 33 anni, volto della nuova “rivoluzione” verde. Insieme al co-leader Ludwig Hartmann (classe 1978) ha costruito i «Dieci punti per la Baviera» che li hanno condotti al successo. Un decalogo incardinato su finanziamenti al settore sociale, estensione delle aree protette, energia pulita e mobilità sostenibile. Oltre alla promessa di 50 mila nuovi alloggi popolari piaciuta non poco alle migliaia di ex elettori di sinistra: il 42% di loro, fino a sabato scorso, aveva votato per la Spd che domenica è precipitata al 9,7% (dal 20,6 del 2013) facendo registrare un’emorragia di voti perfino più copiosa della Csu.
Ma il vero segreto del successo dei Verdi è legato all’intransigenza sul tema in grado di condizionare le elezioni in Baviera anche più del voto federale che un anno fa fece vacillare Angela Merkel. Per i Grünen i migranti – nonostante gli attentati in Baviera, i sondaggi dell’opinione pubblica e l’agenda-setting suggerita dall’informazione – non sono mai stati il terreno minato che ha letteralmente fatto saltare in aria la politica europea di Merkel quanto la «solidarietà» promossa dalla Spd. Mentre l’emergenza-profughi ha condizionato tutto e tutti, gonfiando i fascio-populisti di Alternative für Deutschland fino alla storica entrata in Parlamento (sull’onda del 10,2% raccolto alle urne che si traduce in 22 deputati, esattamente quanti la Spd) e spaccando la sinistra fra internazionalisti e sovranisti: domenica la Linke non è riuscita a superare il 3,2% che pure rappresenta l’1,1% in più delle scorse elezioni ma non basta a superare la soglia di sbarramento al Parlamento.
Come annota Der Spiegel, i Verdi non si sono lasciati ingabbiare dal problema e soprattutto «non hanno mai perso l’ottimismo». Così «il “Possiamo farcela” scandito nel 2015 dalla cancelliera Angela Merkel, agli elettori è apparso davvero possibile solo a loro. Del resto si tratta di una sfida non meno epocale di quella sull’ambiente, che certo non scoraggia i Grünen».
Per lo stesso motivo, nel segreto dell’urna, sono riusciti a intercettare anche i delusi dalla Csu che non hanno messo la croce su Afd (altro approdo del 10,6% di voti in fuga cristiano-sociali). Probabilmente non credono alla «Baviera aperta e cosmopolita» immaginata dai Verdi, ma si sono convinti a dare fiducia all’unica credibile alternativa al modello del premier Csu Markus Söder.
Allo stesso tempo i bavaresi si sono dimostrati più sensibili del previsto al cambiamento climatico, “cavallo di battaglia” della coppia Schulze-Hartmann. Non ha pesato solo il Dieselgate che coinvolge i marchi locali ma anche questioni-chiave come la minaccia di estinzione delle api che in altri tempi avrebbe fatto sorridere.
L’opposto dell’idea di sviluppo della Csu ma anche il contrario dell’industria del carbone difesa dalla Spd e ben distante dal liberismo “ambientale” di Fdp, che domenica ha conquistato comunque il 5,1% dei voti (+2,6 dal 2013) ritagliandosi, dietro ai “Liberi elettori”, il ruolo di interlocutore nelle consultazioni per il governo.
Ma l’ideologia dei Verdi collima con la visione pratica, al punto che addosso a Katharina Schulze la stampa ha già cucito l’abito di «pragmatica»: altra caratteristica che una volta contraddistingueva la cancelliera. «Dare coraggio invece di fare paura» è il suo leitmotiv, così lontano-così vicino alla xenofobia di Seehofer e all’odio di Afd, affidato ai 38 deputati eletti.

Repubblica 16.10.18
L’exploit elettorale
Perch brilla il verde di Germania
Diritti, rifugiati e più Europa la lezione dei Verdi tedeschi
Pragmatismo, piccole e grandi battaglie, fiducia nell’immigrazione e in un Paese multiculturale. Così l’ex partito-movimento degli anni ‘70 ha trionfato in Baviera
di Tonia Mastrobuoni


L’ambientalismo è un fenomeno tedeschissimo come spiega “Imperium”, lo straordinario romanzo di Christian Kracht che racconta le spericolate vicende di August Engelhardt, l’ultravegetariano tedesco che alla fine dell’Ottocento fondò in Guinea una colonia di adoratori di noci di cocco. Il naturismo degli anni Venti confluì, purtroppo, nel nazismo e il nudismo divenne, nella Germania comunista, una sorta di religione di Stato. Ma è sufficiente l’amore romantico per la natura a spiegare la nascita e il successo dei Gruenen in Germania, negli anni Settanta, e soprattutto la loro resurrezione in Baviera ad opera di due sorridenti trentenni? Soprattutto: questo neo-boom degli ambientalisti, che si nutre anche del drammatico declino dei socialdemocratici, può essere un modello per altri Paesi e far sperare nella rinascita di una politica solidale, comunitaria, europeista, cosmopolita, in una parola, di sinistra?
«Siamo la nuova Csu» scherzava qualcuno domenica sera alla festa elettorale dei Verdi. Una battuta che non scandalizzerebbe nessuno, nel partito, e che già risponde alla domanda se possa considerarsi un fenomeno di sinistra. È riduttivo. La forza dei Verdi sta proprio nel loro orgoglio post-ideologico. Nell’avere individuato la loro missione, sin dagli esordi, nelle singole battaglie e non nella realizzazione delle “magnifiche sorti” di un progetto politico complessivo. Dal movimento degli anni Settanta che si batteva contro le piogge acide, le centrali nucleari e la pace nel mondo, si arriva dritto dritto alla battaglia dei leader bavaresi dei Gruenen, Katharina Schulze e Ludwig Hartmann, contro la cementificazione dei villaggi di campagna - 14 ettari al giorno il ritmo del cosiddetto Flaechenfrass nel Land più ricco della Germania - e la morìa delle api.
Il secondo motivo del loro successo sono proprio le loro grandi e piccole battaglie, che nei decenni sono diventate mainstream. I Verdi, insomma, hanno spesso avuto ragione. E oggi chi pensa che l’inquinamento, i cambiamenti climatici, l’alimentazione bio, la cementificazione o la parità tra sessi siano delle istanze radicali o sbagliate appartiene a un’arrabbiata minoranza. Tanto che in Germania è stata proprio la ragionevolezza e la fondatezza scientifica del loro impegno a costringere i partiti tradizionali ad assorbirne via via le istanze. E a decretarne il declino. Negli ultimi anni i Verdi erano precipitati ai minimi storici e qualcuno aveva cominciato a teorizzare che fossero ormai superflui perché la società si era talmente imbevuta delle loro istanze da costringere persino Angela Merkel a costruirsi un’identità da “Klimakanzlerin”, da cancelliera ecologista.
Sono risorti in Baviera, invece, facendo appello, in tempi di razzismo dilagante e chiusura nazionalista, all’Europa quasi come metonimia di un cosmopolitismo e un’apertura al mondo che li caratterizza da sempre. In totale solitudine, causa afonia e balbettìo dei partiti tradizionali, i Gruenen hanno coniato per la campagna elettorale bavarese slogan come “Scegli il cuore al posto dell’odio” e hanno rivolto continui appelli pro-Europa e pro-migranti mentre la Csu rincorreva la destra populista e la Spd taceva imbarazzata cercando di dirottare l’attenzione su temi come il caro-affitti. E sono stati i Verdi a risvegliare molti bavaresi dalla bolla di odio e di paura verso i profughi in cui la Csu aveva precipitato una delle regioni più ricche del mondo. È sufficiente citare un dato per fotografare l’assurdità del malumore alimentato da Seehofer e compagni: la disoccupazione, in Baviera, è poco sopra il 2%.
Inesistente.
Una grande lezione ad altri Paesi, Italia in primis, arriva poi dalla storica capacità dei Verdi di non spaccarsi mai e di coniugare perfettamente le due correnti classiche, i ‘fundis’ e i ‘realos’ - da noi si direbbe l’anima “di lotta” e “di governo”. La loro forza propulsiva sta nei temi ecologici che affiorano via via ma anche nella capacità, dimostrata da molto tempo, al livello comunale, regionale e federale, di governare. Nessuno considera oggi lunare l’ipotesi che i Verdi possano guidare la Baviera con l’ultraconservatrice Csu. Tanto per dirne una, nella ricchissima e industrializzatissima Baden-Wuerttenberg, sede di molti colossi dell’auto come Daimler, sono arrivati primi alle ultime elezioni e amministrano con la Cdu. E a Berlino chiunque sa che da anni il sogno segreto di Angela Merkel sarebbe stato quello di governare con loro. I negoziati per la coalizione Giamaica, nello scorso autunno, fallirono non certo per la distanza tra Cdu/Csu e i Gruenen. Si arenarono perché i Liberali staccarono la spina. I Verdi, a quel tavolo di livori incrociati tra Merkel e Lindner e Seehofer, fecero la figura dei più assennati.

Repubblica 16.10.18
Invece
La crisi del pd senza nessuna speranza verde
di Stefano Folli


Due interrogativi figli delle elezioni in Baviera e riferiti all’Italia. Il primo: ha ragione o torto il Partito democratico a dichiararsi compiaciuto — nelle parole di Paolo Gentiloni — per l’exploit del partito ecologista (quasi il 18 per cento)? Il secondo: perché non si è ancora manifestato nel nostro Paese un fenomeno analogo, ossia l’ascesa di una forza non tradizionale capace di acquisire il consenso che sta abbandonando i partiti storici, compreso il Pd?
I quesiti sono intrecciati tra loro, come è evidente. Difficile non vedere che la resurrezione dei Verdi è la conseguenza diretta della crisi della Spd, espressione antica della sinistra moderata tedesca, antagonista e talvolta alleata di governo della Cdu-Csu (come in questi anni). Ma se la socialdemocrazia in Germania è al tramonto, come del resto il partito socialista in Francia, è un po’ presto per concludere che i Verdi ne hanno preso il posto. Sicché tutto continua come prima, anzi meglio perché gli ecologisti appaiono più moderni, innovativi ed europeisti della vecchia Spd consumata dal potere.
In realtà, i Verdi, almeno in Germania, rappresentano una forza che già in passato ha avuto un peso elettorale non indifferente e poi è quasi evaporata. È un partito suggestivo, in anni in cui i temi legati all’ecologia sono centrali nelle società avanzate. Ma ha dimostrato anche di essere un partito effimero. O “leggero”, se si preferisce. Come punto di riferimento della sinistra continentale si è rivelato incostante per la fragilità della sua base. E allora il Pd si considera più vicino alla socialdemocrazia, benché tramortita, con le sue radici sociali, ovvero prova a salire sul carro verde perché in questo momento è quello che lascia intravedere una possibilità di successo?
Chi guarda nonostante tutto alla socialdemocrazia, come Zingaretti e in genere la sinistra, punta ancora sulla forza residua e ben ramificata nella società del partito che ha incarnato la storia del Novecento. Chi invece dà per morta la socialdemocrazia (ad esempio Gozi) guarda con favore al grande rimescolamento di carte e spera che la resurrezione tedesca sia un miracolo in grado di ripetersi anche in Italia. Del resto, è già avvenuto in Francia, quando la vittoria di Macron mascherò il collasso del socialismo di Hollande. Solo che Macron e i Verdi tedeschi sono diversi fra loro ed entrambi sono altra cosa rispetto al Pd in Italia. Che non a caso sembra invece essere il terzo lato di un triangolo in cui si iscrive la crisi della sinistra tradizionale. Una crisi che marcia di pari passo con l’analogo affanno del centrodestra incalzato dai nuovi partiti anti-establishment.
Vero è che il Pd evita di riconoscersi fino in fondo nella famiglia socialista europea. Ma finora non è sfuggito al destino che sta piegando i partiti cugini, se non fratelli, in Germania e Francia. Quanto ai Verdi, rappresentano un fenomeno che andrà capito, ma sono di un’altra pasta rispetto a tutte le forze inserite nel “sistema”, Pd incluso, proprio perché hanno l’ambizione di segnare una rottura con il passato: nel modo di fare politica e nelle classi dirigenti. Questo spiega le ragioni per cui in Italia non nasce un fenomeno simile a quello bavarese. I Verdi italiani, molto ideologici, hanno vivacchiato per anni come una variante dell’estrema sinistra e poi sono rimasti ai margini. Sopravvivono in miniatura, ma non esprimono né una nuova politica né una diversa classe dirigente. Per cui il Pd è solo con sé stesso e i suoi fantasmi, mentre 5S e Lega hanno per il momento facile presa sull’opinione pubblica.

il manifesto 16.10.18
I partiti tradizionali travolti da una frana
Germania. La lunga crisi dei tradizionali partiti di massa nella Repubblica federale premia gli ecologisti, una formazione composita e sfaccettata il cui successo è il segnale di una lenta metamorfosi
di Marco Bascetta


Non tanto un terremoto quanto una frana che scivola inesorabilmente verso il basso è l’immagine più adatta a descrivere la lunga crisi dei tradizionali partiti di massa nella Repubblica federale. Che comunque hanno tenuto ben oltre quelli italiani della prima repubblica o quelli francesi finiti con il regno di Macron, ma che sempre meno riescono a tenersi al riparo dallo smottamento che li sgretola. Le elezioni di domenica scorsa in Baviera confermano un simile quadro. Nonostante la pesante emorragia di voti il partito cristiano sociale conserva nelle sue mani le leve del potere con una percentuale di consensi più adeguata ai tempi dell’anacronistico monopolio che conservava dagli anni ’60. Anche la società bavarese, cattolica e conservatrice, si è fatta più complessa e il suo orizzonte culturale non è più quello chiuso e tetragono dei tempi di Franz Joseph Strauss. Non esistono più da un pezzo, le masse operaie sindacalizzate che votavano Spd, contrapposte all’alleanza tra il conservatorismo rurale e una borghesia liberista attenta a mantenere l’equilibrio tra innovazione e stabilità sociale. Ma se la Csu riesce, malgrado la crescente insofferenza, a mantenere un cospicuo radicamento sociale e un largo vantaggio sugli altri partiti, la Spd viaggia ancor più rapidamente sul piano federale verso l’insignificanza. Ormai del tutto incapace di capire e far capire quale sia il suo compito e il suo orizzonte, prigioniera di una Grande coalizione che doveva scongiurare il peggio. Questo peggio (l’«onda nera») però non si è manifestato nelle proporzioni temute. Contro la destra estrema esistono in Germania non pochi anticorpi ben più diffusi della declinante Spd che, senza un ruolo definito e visibile, ha continuato a perseguire la sua strategia di «responsabilità» suicida. È su questo versante, semmai, che la coalizione guidata da Angela Merkel rischia di infrangersi.
Molti si chiedono se la batosta subita dalla Csu abbia indebolito la Cancelliera, colpendo anche questo suo alleato di governo. Ma, a ben vedere, il fatto che la mazzata si sia abbattuta sulla testa di Horst Seehofer, il ministro degli interni e leader dei cristiano sociali che più di ogni altro ha tentato di far deragliare la politica migratoria della Cancelleria e l’impostazione europeista del governo di Berlino, è piuttosto un punto di forza. A maggior ragione tenendo conto del fatto che la mazzata in questione non proveniva prevalentemente da destra e dunque non giustificava la campagna della Csu contro i rischi di un presunto eccessivo spostamento dell’asse politico democristiano verso sinistra sotto la guida di Angela Merkel. Le elezioni bavaresi dimostrano che nello scontro con Seehofer era la Cancelliera ad avere ragione.
I verdi non sono un partito popolare di massa e probabilmente non lo diventeranno mai. Il loro stesso impianto culturale rende arduo questo tipo di evoluzione. Ma proprio questa circostanza, pur non trattandosi di un partito «nuovo», li protegge e li avvantaggia in una fase in cui i grandi aggregati politici omogenei vanno disarticolandosi. Il loro successo può essere letto come il segnale di una lenta metamorfosi. La Germania, forte dei suoi successi economici e di una radicata cultura della stabilità non procede per brusche rotture, per improvvisi ribaltamenti. Ma è indubbio che qualcosa stia cambiando e che una formazione composita e sfaccettata come quella ecologista possa meglio di altre cogliere i segni del cambiamento.
Alcuni commentatori sottolineano che, per loro grande fortuna, l’exploit dei Gruenen in Baviera non li mette di fronte alla scelta di entrare in una eventuale coalizione con la Csu.
Quest’ultima li relegherebbe infatti in una condizione di subalternità tale da determinarne il progressivo logoramento. Condannandoli a un destino non dissimile da quello della socialdemocrazia. A Monaco si delinea un meno problematico accordo con i Freie Waehler di Hubert Aiwanger, partito municipalista e conservatore, più vicino alla Csu, ma ostile agli eccessivi appetiti del liberismo bavarese. Ma, è cosa nota, tra simili la spartizione del potere non propende per le buone maniere. Per un po’ la Csu dovrà occuparsi più delle faccende di casa propria che della politica federale.

Corriere 16.10.18
La sconfitta della Spd, l’amaro risultato di molti gravi errori
di Donatella Di Cesare


Non è esagerato affermare che queste ultime elezioni regionali siano le più importanti per la Germania del dopoguerra . Confermano la fine di un capitolo, dominato da Angela Merkel, e annunciano una nuova costellazione politica ancora indefinita. Quel che colpisce è anzitutto il congedo dalla stabilità, così cara ai tedeschi, che per decenni è stata rappresentata in Baviera dalla Csu. I loro voti sono andati in parte all’estrema desta e in parte ai verdi. Ma ancor più eclatante è l’ennesima amara sconfitta della Spd, un partito che, prima e dopo l’unificazione, sembrava allo stesso tempo salvaguardare l’equilibrio della democrazia, resuscitata da un lugubre passato, e garantire un sistema sociale attento ai diritti dei più deboli. La crisi della Germania è oggi la crisi della socialdemocrazia. E non è difficile prevedere gli effetti per tutto il contesto europeo. Gravi sono gli errori dell’Spd che non ha mai saputo confrontarsi davvero con il lascito dell’ex Ddr e che ha inseguito continuamente le politiche neoliberiste. Questa inarrestabile corsa a destra ha avuto esiti paradossal i. È stato dimenticato, anzi rimosso, un patrimonio politico e culturale, mentre ha avuto la meglio un conformismo ben poco audace. Nessun rinnovamento, nessuna capacità di leggere i nuovi fenomeni. Nei mesi estivi del 2015, quando Merkel apriva le porte ai profughi (decisione contestatissima), quasi per distinguersi l’Spd ripiegava su un sovranismo sempre più marcato, invocando criteri per governare i flussi. Il che vale anche per una parte della Linke.
La scelta dei Verdi è stata diametralmente opposta e il coraggio della loro contro-narrazione è stato premiato dagli elettori . Dopo il successo ottenuto in Baviera, è possibile che, divenuti l’argine all’estrema destra, assumano un ruolo guida nel Paese. In che modo, però, sapranno farsi carico non solo dei diritti umani, ma anche dei diritti sociali? Non è certo che la socialdemocrazia, nel modo in cui l’ha conosciuta la Germania, talvolta quasi inconsapevolmente, sopravviva al tramonto di un partito che ha fatto un’epoca.

Repubblica 16.10.18
Quei diritti da difendere
di Nadia Urbinati


Il successo di opinione di questo governo va oltre il gradimento sovranista per il pugno duro alle frontiere. Le dichiarazioni di esponenti della Lega contro il “ gender” o le decisioni di alcuni Comuni di boicottare la legge 194 (come quella recente del Consiglio comunale di Verona di dare sepoltura ai feti senza l’autorizzazione delle donne che hanno scelto l’interruzione volontaria di gravidanza) stimolano una riflessione che ci porta oltre la congiuntura di questi giorni e di questo Paese. Le democrazie occidentali hanno ricostruito la vita civile sulle macerie del dispotismo monopartitico, e stabilito un ordine costituzionale che ha predisposto una batteria di freni al potere delle maggioranze con lo scopo di garantire il diritto alla scelta libera e responsabile delle persone. Molte delle libertà, contro le quali oggi vediamo con orrore l’assalto, non furono, però, godute da subito.
Contemplate nella Costituzione, sono state applicate grazie alla pressione dell’impegno civile e popolare. Prima degli anni Sessanta e Settanta, non avevamo molti dei diritti che oggi sono sotto attacco. La democrazia costituzionale non è nata piena di diritti, ma piena di promesse. Non è nata, per esempio, con il diritto al divorzio, all’interruzione volontaria di gravidanza, alla parità di diritti e doveri tra i coniugi, alle unioni civili. Insomma, quando denunciamo l’assalto a queste libertà dobbiamo pensare che la democrazia costituzionale non ce le ha regalate: ci ha dato l’opportunità di conquistarle. Questa riflessione ha almeno due significati.
Prima di tutto: i diritti non sono mai sicuri, neppure quando scritti nero su bianco nei codici. Le carte dei diritti ci danno la cornice di riferimento, la possibilità di avere un’ampia gamma di libertà riconosciute. In conseguenza di ciò, la lotta per i diritti non si ferma con la loro conquista formale. La reazione attuale contro alcuni diritti fondamentali, soprattutto quelli che riguardano alcune fasce di cittadinanza (principalmente le donne, i minori, gli omosessuali), ci lascia attoniti ma non ci deve sorprendere. La scrittura di questi diritti nei codici ha aperto, non chiuso, la partita dei diritti, come sabato scorso ci ha ricordato la manifestazione promossa a Verona da “ Non una di meno”. La mobilitazione della società è un serbatoio di energia critica formidabile contro le semplicistiche assicurazioni sui diritti acquisiti.
E veniamo così al secondo significato. La democrazia costituzionale non è nata piena di diritti civili. Del resto, nell’accusare chi oggi li attacca non possiamo andare indietro, alla cultura civile del Dopoguerra, poiché il mondo che ha generato quei documenti straordinari che sono le Costituzioni e le dichiarazioni dei diritti era tutt’altro che allineato a quelle grandiose promesse. La cultura morale e politica degli anni Cinquanta era stretta e angusta come un sentiero sterrato pieno di ostacoli e di difficile percorrimento. Altro che democrazia liberale trionfante! La democrazia liberale ( definizione spesso usata in quegli anni in alternativa alla democrazia popolare di tipo sovietico) si appoggiava su società che erano molto poco bendisposte ad applicare quelle libertà dichiarate. Ciò significa che ci può essere una democrazia costituzionale senza il godimento effettivo di quei diritti.
Come per alcuni anni non avemmo “ancora” quei diritti, così è possibile oggi non averli “ più”. Senza questa consapevolezza storica restiamo attoniti di fronte a un Salvini di turno. Il fatto è che i diritti civili ( quelli oggi sotto tiro) si possono perdere senza necessariamente fuoriuscire dalla democrazia costituzionale. Arretrare alle prime fasi della nostra storia democratica è possibile. La contro- rivoluzione dei diritti è possibile ed è in corso. Un insegnamento che ci viene dai grandi padri della cultura liberale (che non è per nulla identica al liberalismo economico) è proprio questo: la storia delle libertà non è una marcia trionfale. Il processo storico è fatto anche di regressioni: un monito a non essere fatalisti o ingenuamente progressisti o illusi sul fatto che i diritti siano ormai acquisiti.

il manifesto 16.10.18
Comunali in Belgio: successo Ecolo, exploit dei marxisti del Ptb
Elezioni amministrative. Al voto 8 milioni di cittadini, una chiamata nazionale che ha visto il crollo dei partiti tradizionali, una progressione dei partiti della sinistra radicale nel sud del paese, di lingua francofona, e dei partiti d’estrema destra e nazionalisti nel ricco nord, di lingua fiamminga
di Gabriele Annicchiarico


BRUXELLES Sono i partiti radicali e alternativi a uscire vincitori dalla tornata elettorale che in Belgio ha coinvolto la quasi totalità dei comuni. Una chiamata nazionale (8 milioni i votanti) che anticipa le possibili tendenze delle prossime elezioni federali, in agenda a primavera, dove si attende una progressione dei partiti della sinistra radicale nel sud del paese, di lingua francofona, e dei partiti d’estrema destra e nazionalisti nel ricco nord, di lingua fiamminga. In calo tutti i partiti tradizionali: socialisti, liberali e moderati registrano una diminuzione dei consensi in tutto il paese, con qualche eccezione. I socialisti si confermano infatti primo partito nella capitale Bruxelles (nonostante gli scandali di corruzione che ne avevano minato la credibilità nel 2017) e a Charleroi (riconferma per Paul Magnette, l’eroe dell’opposizione al Ceta, trattato di libero scambio fra Ue-Canada).
I vincitori sono senza dubbio i verdi (Ecolo-groen) che registrano un risultato a doppia cifra nelle città-quartiere della capitale Bruxelles e nella maggiori città del centro-sud (Bruxelles, Ixelles, Namur, Leuven) e ad Anversa (bastione dei nazionalisti d’estrema destra). In molte città francofone i verdi giocheranno un ruolo di primo piano per la formazione dei governi locali, annunciando la volontà di imporre scelte coraggiose in materia d’ecologia.
Il vero exploit è quello del Partito dei lavoratori belgi (Ptb) di chiara ispirazione marxista. Un successo che si concentra soprattutto nella capitale Bruxelles, in particolare a Molenbeek (al centro delle cronache mondiali legate al terrorismo di natura islamista), e nelle pricipali città francofone come Liegi e Charleroi (bastioni socialisti), dove potrebbero entrare nella maggioranza dei rispettivi governi locali.
In leggero calo la N-va, partito nazionalista fiammingo d’estrema destra, dalla retorica anti-migrazione e principale azionista del governo federale, che però conferma il proprio presidente, Bart de Wever, sullo scranno di sindaco di Anversa, la più ricca città del Belgio. Progressione della formazione xenofoba e indipendentista fiamminga, Vlaams Belang, che registra un aumento dei consensi nel nord del paese e che potrebbe esprimere il primo sindaco della sua storia, nella città di Ninove.

il manifesto 16.10.18
Collegio militare, il luogo della vergogna
16 ottobre 1943. Il rastrellamento degli ebrei a Roma. Un'intervista con lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, collaboratore scientifico della Fondazione Museo della Shoah
di Lia Tagliacozzo


Nel 1943, settantacinque anni fa, a Roma era un’alba piovosa. Era sabato e c’era la distribuzione delle sigarette – non si trovavano in tempo di guerra – per questo qualcuno era uscito presto per mettersi in fila dal tabaccaio. Nelle vie della città, di tutta la città, camion tedeschi si muovevano indisturbati. Arrivati presso alcune abitazioni, i soldati entravano e consegnavano un biglietto: adesso ha il colore giallo della carta vecchia, eppure quando lo si vede – esposto per esempio al museo ebraico a Roma – fa venire i brividi.
POCHI PUNTI SCRITTI in un italiano essenziale: «1) Insieme alla vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti». Seguivano altre istruzioni: portare con sé denaro, gioielli, cibo, documenti. Poi il punto cinque, la beffa: «Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo».
Non sapevano dove li avrebbero portati né cosa sarebbe successo: degli ebrei catturati quel giorno 1022 finirono ad Auschwitz. Alla fine della guerra sarebbero tornati in 16. A settantacinque anni di distanza fa ancora riflettere, almeno alcuni, e le iniziative sono molte. Oggi alla Camera dei Deputati e poi alla Festa del Cinema di Roma sarà presentato il documentario La razzia – Roma, 16 ottobre 1943 diretto da Ruggero Gabbai e scritto da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto.
IERI SERA UNA CAMMINATA silenziosa ha percorso le vie del vecchio quartiere ebraico e, nel pomeriggio, si è tenuta una cerimonia in uno dei luoghi simbolo della deportazione del 16 ottobre: il grande cortile del Collegio Militare a Piazza della Rovere, in pieno centro città. È lì che vennero condotti i razziati: un luogo che fino allo scorso anno era stato dimenticato dalle celebrazioni senza però essere scomparso dalla memoria degli ebrei romani. «Il Collegio militare – spiega Amedeo Osti Guerrazzi, collaboratore scientifico della Fondazione Museo della Shoah di Roma – ha svolto un ruolo fondamentale perché gli ebrei vi rimasero prigionieri fino alla mattina del 18 ottobre. Ma, e questo non lo si ricorda volentieri, è anche un luogo di vergogna: in quei giorni nessuno ha cercato di fare qualcosa per le persone catturate. Chi si salvò furono solo i convertiti al cattolicesimo, coloro che vennero catturati per errore o le coppie così dette miste. Gli altri rimasero nelle mani dei nazisti, senza alcun tentativo da parte di nessuno di liberarli».
MA QUAL È IL RUOLO dei luoghi della memoria nell’identità di una città? «Sono assolutamente fondamentali. Noi ricordiamo la deportazione del 16 ottobre come ’la razzia del ghetto’ ma dobbiamo fare attenzione alle parole: ghetto significa un luogo chiuso, che non fa parte della città, la razzia invece si è svolta in tutta Roma, ben oltre i confini dell’antico quartiere ebraico. Quindi ricordare la deportazione usando l’espressione ’la razzia del ghetto’ è come cancellare il fatto che tutta la città ha assistito e in questo modo assolverla dal non aver reagito: perché tutta la città fu indifferente. È anche con le parole che si agisce la cancellazione della memoria: è come se Roma, chiudendo l’episodio nell’ex ghetto, abbia voluto rimuovere l’avvenimento stesso. Come se, in quanto italiani non ebrei, la razzia non ci riguardi».
Eppure ci furono anche storie di solidarietà. «Certo, il pericolo della rimozione è proprio questo: volendo cancellare ciò che è successo di brutto si finisce col dimenticare anche ciò che di straordinariamente positivo è avvenuto».
Il rischio di non esercitare una memoria consapevole rende uguali pure le scelte: sia di chi si adoperò per la salvezza che di coloro che aiutarono la razzia, sia dei Giusti che dei delatori. E azzera il valore della responsabilità. «Ci sono stati alcuni conventi che hanno accolto gli ebrei in fuga mentre alcuni si sono salvati semplicemente salendo sui tram, rimanendovi per ore, se non per giorni, coperti dai tramvieri che avevano capito benissimo ciò che stava succedendo e che hanno dato una prova straordinaria di solidarietà».
A ROMA OGNI SINGOLA famiglia conserva memoria di quel giorno. Chi si salvò lo dovette a volte al caso, altre alle conoscenze: qualcuno in convento, qualcuno al bordello. Alcuni vicini di casa fecero la spia, altri aprirono la porta e aiutarono la fuga. Gli ebrei del 16 ottobre del ’43 dopo due giorni vennero condotti alla stazione Tiburtina e partirono verso nord. «Io tanti anni fa – racconta ancora Osti Guerrazzi – ho parlato con il ’frenatore’ del treno del 18 ottobre e l’unica cosa che mi ha saputo dire è stata: ’Che ci potevo fare? C’erano i tedeschi’. Me lo disse prima ancora che avessi modo di chiedergli altro: chissà quanto ci ha pensato, visto che erano già passati tanti anni».
Allora, infatti, «c’erano i tedeschi». «Oggi – ha affermato uno dei familiari dei deportati del 16 ottobre alla cerimonia al Collegio militare – non è più tempo di lutto, ma di ricordo, commemorazione e, soprattutto, di riflessione. Io credo, e mi sento di farlo, di poter chiedere e pretendere da tutti voi, qui presenti, proprio perché qui presenti, un impegno. Un impegno ad agire, a fare tutto ciò che potete, in futuro, nel quadro delle vostre possibilità, delle vostre attività e delle vostre responsabilità, in modo che simili abbandoni, come quello dei giorni al Collegio militare, non avvengano mai più».

Corriere 16.10.18
La Chiesa russa dà l’addio a Costantinopoli
di Fabrizio Dragosei


È senza dubbio la rottura più importante di questi ultimi anni, paragonata addirittura al grande scisma che nel 1054 divise la chiesa d’Occidente e quella d’Oriente. Non solo: la separazione da Costantinopoli decisa ieri dal patriarcato di Mosca dopo un rapido sinodo tenuto a Minsk in Bielorussia, rischia di avere ripercussioni gravissime in Ucraina dove si temono frizioni e scontri tra fedeli. Il pomo della discordia tra i due grandi patriarcati dell’ortodossia è costituito infatti proprio dall’autonomia della chiesa ucraina, posta sotto la giurisdizione di Mosca dalla fine del Seicento. È dallo scioglimento dell’Urss del 1991 che Kiev preme perché la sua struttura venga riconosciuta indipendente, «autocefala», come si dice. La guerra nel Donbass e l’annessione russa della Crimea hanno fatto precipitare le cose in questi ultimi anni. Così nei giorni scorsi il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che è la guida spirituale dell’intera ortodossia («primus inter pares», primo fra uguali) ha accolto le richieste ucraine, suscitando l’ira di tutta la Russia. Il patriarca Kirill ha protestato e poi ha parlato con i suoi vescovi e metropoliti a Minsk per arrivare all’annuncio della rottura. Sarebbero vicine alla posizione di Mosca undici delle quindici chiese ortodosse nel mondo, compresi gli antichissimi patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia.
Il Cremlino, naturalmente, si è subito schierato con il suo clero e questo preoccupa non poco Kiev. Le due chiese di Ucraina (quella autonoma e quella che era invece rimasta sotto Mosca) dovrebbero ora unificarsi, ma già si sa che molti, soprattutto nel Donbass, non vorranno cedere. Cosa succederà alle tante proprietà delle due chiese? Il presidente ucraino Poroshenko ha già messo le mani avanti, assicurando che tutto verrà risolto pacificamente. Ma se così non sarà (e molti ne dubitano), allora il Cremlino potrebbe anche cogliere l’occasione per intervenire. Vladimir Putin ha sempre detto che tra i suoi compiti c’è anche quello di difendere i russi ovunque essi siano sottoposti ad angherie, maltrattamenti o altro. La motivazione che ha giustificato il «sostegno» agli abitanti della Crimea che si sono dichiarati indipendenti e poi hanno chiesto di entrare nella Federazione Russa.

Corriere 16.10.18
La storia esce allo scoperto
Da oggi in libreria un volume (Rizzoli) che rilancia la dimensione pubblica di una disciplina spesso trascurata
Recuperare il senso del passato, anche in tv: l’impegno civile di Paolo Mieli
di Aldo Grasso


I lampi che guizzano nel cielo della storia non servono solo a rischiarare questo o quel periodo. Spesso sono scintille che si sprigionano all’improvviso, fiamme che divampano per ustionare le nostre convinzioni, incendi che bruciano la complessità del passato e ci lasciano soli con le nostre semplificazioni. Nel suo ultimo libro, Lampi sulla storia. Intrecci tra passato e presente (Rizzoli), Paolo Mieli non ha paura del fuoco, anzi lo affronta con la convinzione di chi paventa che i pregiudizi nascano soprattutto dalla perdita del senso della storia. O il passato lo facciamo nostro, interrogandolo e spiegandolo, ma, beninteso, senza anacronismi e alterazioni deformanti, o la storia e il bisogno di essa non hanno più alcun senso.
Fra le varie discipline scientifiche, la storia è quella più soggetta a un principio epistemologico fondamentale: se cambia l’angolo visuale, cambia anche l’interpretazione del periodo analizzato. E come può, per uno storico, cambiare il punto di vista? Mieli elenca alcune di queste distorsioni. Sia ben chiaro: se un ricercatore scopre un documento inedito, è giusto che molte cose vengano messe in discussione: la storia è viva proprio perché si compone e si ricompone nel tempo. Ma se la deformazione nasce da una moda, come quella del «politicamente corretto»? L’America della political correctness ha deciso di rimuovere le statue dei generali sudisti. È capitato a Charlottesville, in Virginia, dove gruppi suprematisti hanno poi dato vita a tragiche proteste. Anche Cristoforo Colombo è simbolo di divisione razziale per il trattamento riservato ai nativi. Le sue statue vengono abbattute dalla «cultura del piagnisteo». Così Robert Hughes definiva già nel 1993 quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto il potere a formule verbali o comportamenti che deformano in modo grottesco ciò che è.
Per non parlare delle forzature. Mieli ricorda i conti che Papa Francesco ha dovuto fare con le controversie generate dall’intreccio tra passato e presente per la beatificazione di un gesuita nato a Maiorca nel 1713, Junípero Serra. Oggi quel prete viene dipinto come un genocida, un edificatore non di anime ma di campi di concentramento. Ma il traviamento più grande per uno storico è usare, per il passato, categorie che appartengono al presente. La storia, sostiene Mieli, richiede un grande esercizio di sottigliezza fra ragione critica e verifica documentaria, senza prefigurare, nella ricostruzione critica del passato, corsi e ricorsi prestabiliti. Se mai, per circoscrivere l’incendio delle «revisioni», bisognerebbe far ricorso con finezza intellettuale alla «legge dell’oblio» («Il ricordo è per quelli che hanno dimenticato», sosteneva Plotino).
Scrive Mieli: «Oblio che non deve equivalere a una sciatta dimenticanza che metta torti e ragioni del passato sullo stesso piano, bensì a non far riproporre quei torti e quelle ragioni nelle contese del presente. Si deve saper rinunciare a mettere la propria comunità in condizione di riaprire antiche ferite. È un esercizio complicato quello di tenere fermo il giudizio sul passato, anzi di renderlo ogni giorno più denso di valori e, a un tempo, di imparare a rispettare il passato stesso in tutta la sua complessità. E c’è una sola strada per raggiungere questo obiettivo: consegnare la storia agli storici, cioè a coloro che sono interessati esclusivamente ad analizzarne le dinamiche e a scriverne nuove pagine».
Il libro raccoglie vari saggi disposti secondo tre grandi categorie: «Dentro le apparenze» (niente è come appare, ci sono personaggi o fatti storici che sembrano composti unicamente di facciata, come case non finite o come il set di un film); «Forzature e deformazioni» (ci sono zone di confine, non solo della storia ma anche della riflessione sulla storia, dove oscillano verità altrimenti negate); e infine «La storia capovolta» (anche la storia a volte è colpita dallo smacco dell’assurdo: «Cosa vuol dire capovolgere la storia? Spesso significa porsi gli interrogativi giusti. E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire?»).
I libri e i personaggi che entrano con eleganza nel laboratorio di Mieli sono molti e disparati, ma tutti raccordati da un filo rosso concettuale. La perdita del senso della storia, in un’epoca come la nostra ossessionata dall’informazione dei social media, sta per trasformarci in arroganti prigionieri di un linguaggio pietrificato: crediamo facilmente solo a ciò di cui abbiamo bisogno di credere. Ed eccola la galleria di personaggi illustri con cui misurarsi, una quadreria che va da Robespierre a de Gaulle, dal giovane Gramsci al maresciallo Pétain, da Federico II di Svevia a Caterina de’ Medici, da Cesare Beccaria a Pio XI, da Giustiniano a Bernardino da Siena, solo per citarne alcuni.
Accanto alla produzione saggistica, Mieli unisce una solida presenza televisiva. Quante volte lo abbiamo apprezzato come conduttore de La Grande Storia, un programma che in Italia ha trasformato la televisione da semplice evocatrice di memoria a strumento di narrazione storica. Ma la vera svolta avviene nel 2017 con la rubrica quotidiana Passato e presente. Il programma si occupa di fatti storici e ha una struttura dialogica (un professore invitato in studio è interpellato da tre giovani studenti universitari) fondata su un principio ormai minoritario: l’autorevolezza. Cultura in tv, come viene interpretata dalla conduzione di Mieli, non significa riempirsi la bocca di date e di nomi, significa invece creare suggestioni, stabilire connessioni (connettere vuol dire unire cose distanti, produrre un pensiero), affidarsi alla competenza.
Ma c’è un passo ulteriore, ancora più decisivo. Attraverso la struttura dialogica di Passato e presente, Mieli introduce in Italia il concetto di public history, che non è soltanto divulgazione o comunicazione della storia, è anche formazione degli individui (dottorandi, masterandi, giovani ricercatori) che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici, è anche interrogarsi su quale sia l’utilità e la funzione della storia nella sua nuova dimensione pubblica. Lo sappiamo, spesso la storia è fatta soprattutto da persone che dentro l’università scrivono non pensando troppo alla diffusione, alla scambievolezza con i pubblici più vasti e diversi. Quello che invece la public history intende fare è reinventare un ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è l’elemento civile della public history: la capacità di portare verso il pubblico una riflessione e un metodo rigorosamente storico, ma che l’accademia ha concentrato nella figura non di rado fantasmatica della «comunità scientifica» (magari solo a fini concorsuali).
Nel contesto statunitense, per esempio, la public history ha recentemente acquisito un suo statuto dignitario, entrando di fatto nei curricula universitari con l’intento di formare professionisti della comunicazione storica. La stessa idea di public history supera la vecchia categoria di divulgazione: se, da un lato, il concetto sta nominalmente a indicare una vera e propria invasione della storia nella sfera pubblica, dall’altro esso indica il cammino verso un pubblico non specialista, ma sempre più esigente, globalizzato e tecnologicamente avanzato.
Questo sta facendo Paolo Mieli, sul «Corriere», su Rai Storia e su Rai3.

La Stampa TuttoSalute 16.10.18
“Niente esercizio”, è il cervello a spingerci sul divano
di Paola Mariano


Siamo pigri di natura: il cervello è inesorabilmente «settato» per evitare sforzi. Svolgere attività fisica, o il pensiero di farlo, richiede energie in più che le reti di neuroni tentano a tutti i costi di risparmiare, trattenendoci svogliatamente sul divano.
A rivelarlo è uno studio internazionale: condotto tra Belgio, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Canada e coordinato da Matthieu Boisgontier della University of British Columbia a Vancouver e Boris Cheval dell’Università di Lovanio, è stato pubblicato su «Neuropsychologia». Il lavoro contribuisce a sciogliere un annoso enigma, il «paradosso dell’esercizio»: nonostante la società ci incoraggi a fare esercizio fisico, e sebbene sia risaputo che lo sport fa bene a corpo e psiche, le statistiche mostrano che stiamo diventando via via più pigri. Tutta colpa della nostra natura, sostengono i ricercatori intervistati da «TuttoSalute».
Lo studio ha coinvolto 29 giovani, alcuni attivi e altri sedentari. Tutti dovevano giocare con un avatar al pc. Sul video comparivano oggetti in movimento paradigmatici della pigrizia (poltrone, divani, amache, letti) oppure dello sport (racchette da tennis, scarpe da corsa, scale, palloni...). L’avatar doveva evitare il più rapidamente possibile gli oggetti che richiamavano la pigrizia e dirigersi verso i simboli del movimento. I partecipanti indossavano il caschetto per l’elettroencefalogramma, così da registrarne l’attività cerebrale: ogni volta che l’avatar doveva evitare i simboli della pigrizia il cervello del giocatore - indipendentemente dalle proprie attitudini - si «accendeva» più intensamente, consumando maggiori quantità di risorse.
Evitare la sedentarietà, quindi, ha un prezzo in termini di energie. «In particolare - spiegano Boisgontier e Cheval - sono due le aree della corteccia cerebrale ad attivarsi più intensamente, se tentiamo di sfuggire alla sedentarietà. Una è la corteccia frontale mediale, che ha un ruolo nella risoluzione dei conflitti interni e serve a risolvere il dissidio tra un’intenzione volontaria (come voler fare sport) e una modalità inconsciamente radicata (la sedentarietà). L’altra è la corteccia fronto-centrale, un’area a funzione inibitoria che spegne i comportamenti automatici inconsci».
I risultati - sottolinea Boisgontier - «mostrano che il cervello è, nel profondo, attratto da comportamenti statici». Per sfuggire al loro richiamo ci si deve impegnare. E allora la domanda è se sia possibile «riprogrammare» questa propensione innata. «Ogni automatismo è difficile da inibire, anche se lo vogliamo, perché avviene inconsciamente, al fuori dal nostro controllo - rileva Boisgontier -. Ma riconoscerlo è già un passo avanti».
Il meccanismo ha una ragione: da un punto di vista evolutivo è più conveniente risparmiare risorse cerebrali ed energetiche. «È stato un comportamento essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati, che dovevano procurarsi cibo e riparo ed evitare i predatori». Ma oggi il freno all’attività fisica non serve più e, anzi, nuoce alla salute. «Ora - concludono gli studiosi - sappiamo perché le politiche contro la sedentarietà non hanno funzionato».

Corriere 16.10.18
Ovidio il valore dell’eros
L’amore come simbolo del destino instabile così augusto punì il suo essere diverso
Una mostra a Roma celebra il grande poeta che pagò con l’esilio la visione della vita espressa nelle Metamorfosi
di Nicola Gardini


Ci sono poeti che dalla storia ricevono il dono del bifrontismo. Guardano indietro e guardano avanti, riepilogano una tradizione e ne iniziano una. A simili poeti capita di vivere in tempi di mutazioni radicali e alla loro opera, motivata dalla paura della disgregazione, di raccogliere e di contenere il più possibile, sistematizzando ed enciclopedizzando. Un caso emblematico è quello di Dante, nei primi secoli del secondo millennio dopo Cristo. Altrettanto emblematico, sulla soglia del primo, quello di Ovidio, che di Dante – guarda un po’ – è un alter ego.
Era finita dopo quasi cinque secoli la repubblica e Roma rinasceva nel principato di Augusto, riformulando istituzioni e propaganda. Ovidio reagì con un esibito disimpegno. Veniva da Sulmona, dove era nato nel 43 a. C. e dove il padre aveva progettato di avviarlo all’avvocatura. Nella capitale elevò il suo nome scrivendo d’amore, come già altri. L’amore, però, sotto la sua penna si raffinò da emozione in progetto. Perse di naturalezza, ma acquistò in autocoscienza. Gli istinti, perfino la fame di sesso, sono costruzioni; sono esercizio dell’intelligenza: ecco la lezione degli Amori, dell’Arte dell’amore, delle Lettere d’eroine.
Ovidio impersonò il libertino, l’intrigante, il dissoluto (e ancora, a torto, per molti la sua essenza si riduce a tale ruolo), senza badare alle moralizzazioni che stavano a cuore ad Augusto. Scherzava, si divertiva, divertiva, attribuiva al maschio e alla femmina uguale diritto al piacere, e intanto, dissidente suo malgrado, sfidava la legge, derideva gli stessi dei, adattava i luoghi del potere alle proiezioni del desiderio. Fu il primo Don Giovanni del mondo occidentale; bramoso, insoddisfacibile, votato a ripetere incessantemente l’impulso a possedere. Sarebbe diventato il poeta delle metamorfosi fisiche, ma la sorte del trasformarsi la scoprì e definì prima di tutto nella pratica dell’eros, perché il voglioso che parla nelle sue poesie non smette di rimodellarsi sull’oggetto voluto, sempre diverso. La voglia non è volontà; e senza volontà non hai identità. Fu una rivoluzione.
Arrivò, dunque, al grande poema, le Metamorfosi. Sembrava un salto nel buio. Di fatto, in quel cosmo trasportava la luce di precedenti invenzioni, una volta di più e tanto più stupendamente dimostrando che non esiste differenza tra corpo e psiche. Qualcosa di nuovo, senza dubbio, nacque: un intreccio di miti e personaggi che costituivano molta memoria antica e che avrebbero costituito un archivio di archetipi per secoli a venire, giù giù fino a noi; e una rappresentazione della natura che, pur continuando Lucrezio e Virgilio, metteva in scena l’universo in maniera inedita, con una capacità di osservazione che aveva del miracoloso. Ai suoi lettori e probabilmente anche a sé stesso dava a intendere che pure lui, Ovidio, finalmente era approdato all’epica, come Virgilio.
Ma che epica poteva essere un poema che della narrazione distesa faceva non un percorso provvidenziale, non il progredire della gloria romana verso un apice inviolabile, non la missione di un eroe, ma una continua esemplificazione dell’alterità? Che epica poteva essere l’esaltazione del transeunte, dell’instabile, del perituro, la distruzione di qualunque fede nell’eternità dell’impero e nell’assolutezza del romanocentrismo? Come poteva ormai Augusto non disapprovare apertamente? E infatti Augusto disapprovò e tanto apertamente che se lo tolse dai piedi una volta per tutte.
Le ragioni della cacciata rimangono incerte. Certo è che Ovidio dovette lasciare il carissimo caput mundi subito dopo aver completato le Metamorfosi. Non potremo mai capire fino in fondo lo sgomento e la disillusione che lo presero. Si ritrovò senza meriti, consapevole di aver cambiato la mente dell’umanità. Era l’8 d. C. Si smarrì a Tomi, sul mar Nero, la Costanza dell’odierna Romania, e lì morì, nel 17 d. C., nell’abbandono più umiliante. Laggiù, tra geli e minacce continue, come raccontano i Tristia e le Epistole dal Ponto, scoprì un’estrema alterità: la sua. A Tomi Ovidio comprese che ora lo straniero, l’altro, era lui: il civis Romanus. Fu l’ultimo, il più vitale dei suoi insegnamenti.
Nicola Gardini, professore di Letteratura italiana e comparata a Oxford, è autore di «Con Ovidio. La felicità di leggere un classico» (Garzanti, 2017)

Corriere 16.10.18
Il rapporto con l’altro sesso
Amava (anche) le donne E fu il primo a parlare di orgasmo simultaneo nei versi dell’Ars Amatoria
di Eva Cantarella


Con le donne Ovidio aveva un rapporto speciale, per alcuni aspetti molto diverso da quello dei suoi concittadini. Da un canto, infatti, come tutti i maschi romani, egli riteneva normale avere rapporti sessuali con altri uomini — sempre che, quantomeno teoricamente, questi non fossero uomini liberi: il maschio romano, per definizione dominatore, doveva essere il partner attivo del rapporto, il partner passivo doveva essere schiavo.
E Ovidio dichiara di subire anche il fascino maschile: a ispirare la sua poesia, scrive infatti, poteva essere tanto una donna quanto un ragazzo (Amores I, 1, 20). Sin qui, dunque, era come gli altri. Ma a differenza di questi preferiva le donne. E ce ne spiega la ragione: il piacere doveva essere reciproco, e le donne, per lui, provavano maggior piacere degli uomini, soprattutto se assecondate nei loro desideri (cosa che non manca di raccomandare caldamente ai suoi concittadini di fare). In un mondo nel quale il rapporto tra generi era fondamentalmente predatorio per lui, dunque, dell’amore dovevano godere anche le donne, e scriveva: «il piacere concesso per dovere non mi è grato/ compiacenza di donna non la voglio» (Ars amatoria II, 687-688).
Cosa addirittura impensabile all’epoca, poi, assicurava che il piacere era maggiore se l’uomo e la donna raggiungevano contemporaneamente l’orgasmo, ammonendo: «non sorpassarla, con le tue vele al vento/ e non lasciarla andare innanzi a te./ Guadagnatela insieme, quella meta: solo allora/ quando ugualmente vinti giacciono/ la donna e l’ uomo, pieno è il piacere» (Ars amatoria II, 724-728). Ma come raggiungerlo questo piacere, come sedurre? Per Ovidio l’amore era un gioco che allietava la vita, ma quel gioco era un’arte: quella di godere solo degli aspetti positivi del rapporto, eliminando le inutili sofferenze che questo spesso comportava. Risultato non facile, raggiunto grazie a una guerra spietata in cui il fine giustificava i mezzi, consentendo menzogne e simulazioni, nel corso della quale ciascuno dei combattenti usava le armi tipiche del proprio sesso. E poiché come tutte le arti anche quella di amare richiedeva un’educazione, nell’Ars amatoria (la più celebre delle sue opere) Ovidio assume il ruolo del precettore, insegnandola ai suoi concittadini (nei primi due libri dell’opera alle donne, e nel terzo agli uomini).
Insegnamenti diversi, ovviamente, a seconda dei sessi (che hanno peraltro in comune l’idea che la conquista fosse affidata all’inganno), descritti ricorrendo a metafore, tra le quali quella della caccia: come il cacciatore, chi ama deve studiare la preda, deve conoscerne i gusti e le abitudini, perché solo così potrà tendere trappole efficaci e sfruttare ogni possibile occasione. Ma attenzione, la vittoria, l’oggetto della conquista non è l’amore, è il piacere sessuale. L’allievo-amante non deve mai farsi coinvolgere sentimentalmente, se vuol continuare a reggere le redini del gioco e dopo aver vinto la prima battaglia della conquista vincere la guerra. A questo punto, ce n’è quanto basta per capire come la sua poesia (purtroppo per lui) fosse in contrasto con la politica di Augusto, in quegli anni impegnato in una grande opera di moralizzazione (peraltro destinata a fallire) contro quella che egli riteneva una generale dissolutezza causata dalla perdita dei valori familiari.
Caduto in disgrazia nell’8 d.C., Ovidio venne relegato nella lontana Tomi (oggi Costanza), sulle coste del Mar Nero, e ivi morrà, nel 17 o 18 d.C. A nulla valsero i tentativi degli amici e della moglie, rimasta a Roma, per ottenere che il bando venisse revocato. Nei Tristia, l’opera scritta negli anni dell’esilio, Ovidio scriverà che a causare la sua disgrazia erano stati un errore e un carmen. Quale fosse l’errore è cosa discussa, quale il carmen è invece evidente: è l’Ars amatoria.

Repubblica 16.10.18
Ma che bello smarrirsi tra centinaia di titoli
di Marco Belpoliti


A cosa servono i libri? A trovar lavoro, sembrerebbe. Lo dice la ricerca della sociologa australiana. Ha misurato il rapporto tra la presenza di libri nelle case delle persone e la loro affermazione professionale. Un tempo gli adulti ci dicevano: leggi se vuoi capire te stesso e il mondo intorno. Come poteva essere altrimenti, dati i limiti di tempo e di spazio: la famiglia in cui eri nato, la città, la cerchia di amici, le scuole frequentate? Il libro era il veicolo più sicuro per entrare in contatto con altre vite e altri mondi evadendo dal proprio. Era un modo per iniziarsi alla vita e ai suoi segreti, che né i genitori né gli insegnanti t’indicavano con facilità. Il libro era la porta che introduceva all’altrove, un altrove a pochi centimetri da te.
Poiché oggi sono più le persone che guardano di quelle che leggono, il libro sembra arretrare nella sua funzione di addestramento all’esistere, sia in senso materiale che spirituale.
Ma non è così. La metrica della sociologa australiana una cosa suggerisce: la competenza intellettuale è mediata ancora dai libri, dalla loro presenza fisica, non dalla immaterialità degli e-book. In un paese come il nostro, dove si legge così poco, è perciò evidente il decadimento del livello culturale: 75 libri, media italiana, sono un ripiano e qualche decimetro nella libreria Billy di Ikea. Molto poco, ma sufficiente ad avanzare nella vita, o almeno a non restare indietro.
Dopo il 350 libri — sette ripiani e mezzo — la sociologa non si spinge ad altre considerazioni. Lì cominciano i maniaci della lettura, quasi una nevrosi; tra 500 e 5.000, ci dicono, non c’è poi tanta differenza. Lì siamo nei pressi degli intellettuali, specie in via di estinzione, perché da quel punto in poi, come ha spiegato una volta Gianni Celati, i libri servono a sviluppare il senso critico, a nutrire dubbi e persino a sperdersi, perché più si sa più si rischia di smarrirsi nel labirinto della cultura. Ma ve l’assicuro, da lì in poi cominciano piaceri che non è sempre facile descrivere.
Certo, il piacere della lettura si può raggiungere sia con un solo libro che con 1.000, ma è la ripetizione quella che conta.
Rifarlo è il massimo.

Repubblica 16.10.18
Bravo chi legge
Almeno 80 libri la biblioteca perfetta dei sedicenni
Uno studio australiano collega il numero di volumi che si hanno in casa da ragazzi alle prestazioni da adulti
di Giuliano Aluffi


Avere, da adolescenti, uno scaffale domestico ben fornito di libri dà una marcia in più nella vita: i ragazzi che hanno avuto almeno 80 libri in casa oggi hanno competenze linguistiche, matematiche e tecnologiche superiori alla media. Lo suggerisce uno studio, pubblicato su Social Science Research, che riguarda 160 mila adulti da 31 nazioni, con dati raccolti dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies dell’Ocse.
«Nel 2010 avevamo visto, con dati da 27 Paesi, che crescere in una casa fornita di libri aiuta i giovani ad avere tre anni in più di studi rispetto a chi cresce senza libri, indipendentemente dalla cultura e classe sociale dei genitori. In un secondo studio abbiamo visto che, indipendentemente dall’istruzione scolastica, chi cresce in un ambiente domestico ricco di libri, avrà un lavoro più remunerato» spiega la prima autrice dello studio, Joanna Sikora, sociologa dell’Australian National University di Canberra.
«Rimaneva da verificare l’effetto del crescere tra i libri sulle competenze in età adulta: l’abbiamo trovato, con risultati del tutto simili tra i vari Paesi».
Lo scaffale domestico, secondo lo studio, non aiuta soltanto ad acquisire abilità cognitive aggiuntive rispetto a quelle fornite dalla scuola, ma anche a sviluppare una passione che dura per tutta la vita. «Non è importante soltanto l’atto del leggere, ma anche apprezzare i libri come oggetti, discuterne in famiglia o con gli amici, e soprattutto identificarsi nella lettura: pensare a sé stessi come persone che amano i libri». È una sorta di “imprinting” con i libri, che deve avvenire preferibilmente nel periodo della vita in cui si decide chi si è e chi si vuole essere. «Sappiamo che chi ha molti libri in casa avrà maggiori probabilità di leggere saggi, in particolare di divulgazione scientifica, narrativa e poesia» spiega Sikora. «Ma in realtà qualsiasi tipo di coinvolgimento con il libro è utile per aumentare il proprio vocabolario e le proprie abilità cognitive. C’è anche un aspetto di scelte future legate all’identità personale: se ti vedi come un amante dei libri, ciò ti porterà a preferire, nella vita, certe attività rispetto ad altre: nel tuo stile di vita includerai il piacere e lo stimolo intellettuale della lettura». Anche al di là della formazione istituzionale: «I dati raccolti ci dicono che chi non è riuscito ad andare all’università, se ha avuto una quantità sufficiente di libri in casa a sedici anni, da adulto non sarà meno competente di un laureato che ha avuto pochi libri attorno a sé da ragazzo». Lo studio riguarda chi è stato adolescente tra il 1950 e il 1995, quando il libro esisteva in sola forma cartacea. Avremo lo stesso effetto positivo anche per generazioni di nativi digitali «È vero che oggi gli adolescenti consultano una pluralità di media diversi, con una preferenza per lo smartphone», ammette la sociologa australiana, «ma credo che continuerà a esserci una differenza di competenze e di opportunità tra chi cresce in mezzo a libri cartacei e gli altri».

Repubblica 16.10.18
Psichiatri a congresso
Così la depressione peggiora gli esiti di infarto e cancro
di Valeria Pini


TORINO La depressione, quando legata o conseguenza di altre malattie, è spesso sottovalutata. Eppure infarto, ictus, diabete, patologie neurologiche e oncologiche sono in grado di far ammalare di più: se il dato dei pazienti depressi è del 5% nella popolazione generale, sfiora il 40% in caso di comorbidità. Ma vale anche il processo inverso: soffrire di depressione maggiore, soprattutto se ricorrente, come avviene nel 60% dei casi, è sicuramente un fattore di rischio di sviluppo delle stesse patologie: aumenta, ad esempio, la probabilità di infarto di circa tre volte rispetto a persone che non ne sono affette. Sono questi i dati presentati al Congresso nazionale della Società italiana di psichiatria (Sip), in corso a Torino.
« La depressione aumenta il rischio di cardiopatia ischemica anche attraverso meccanismi legati al comportamento: eccessi dietetici, troppo fumo o sedentarietà. Ci si ammala anche dopo un infarto, accade nel 20- 30% dei casi nelle prime settimane. Diversi studi dimostrano che la presenza di depressione aumenta di tre- quattro volte la mortalità», spiega Bernardo Carpiniello, presidente Sip.
La presenza di più patologie accorcia i tempi di sopravvivenza. Nei pazienti con tumore, ad esempio, aumenta il rischio di suicidio. Si diventa più fragili per la riduzione delle difese immunitarie, e anche perché il paziente depresso tende a non curarsi. Esiste inoltre un problema di genere. «Per quanto riguarda, ad esempio, le patologie cardiovascolari – spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze al Fatebenefratelli- Sacco di Milano – sappiamo che sono la causa di oltre un terzo delle morti fra le donne. Già nel 2020 la comorbidità fra depressione e malattie cardiovascolari sarà la prima causa di disabilità al mondo e le donne affronteranno un rischio doppio».

Repubblica 16.0.18
Medici in piazza: al governo non interessa la salute degli italiani
di Michele Bocci


La prima categoria di lavoratori ad andare in piazza contro il governo giallo-verde è quella dei medici ospedalieri. Non sono bastati i tentativi della ministra alla Salute Giulia Grillo di convincere i camici bianchi che i soldi per il loro contratto e più in generale per la sanità verranno trovati, il suo impegno a battersi per ottenere fondi dal Mef e una più generale disponibilità a stare dalla loro parte. Domani i sindacati che rappresentano medici e veterinari del servizio sanitario pubblico si troveranno di fronte a Montecitorio per fare una manifestazione. Più avanti ci saranno due giorni di sciopero: il 9 novembre si fermano tutte le sigle sindacali e il 23 novembre quella degli anestesisti.
La protesta, spiega Carlo Palermo segretario della realtà con più iscritti, l’Anaao, «è intanto per il mancato aumento del fondo sanitario nazionale, limitata allo striminzito miliardo in più rispetto al 2018 che già aveva previsto Gentiloni». Si tratta proprio di quel miliardo che aveva fatto gioire Grillo, la quale ha annunciato con enfasi nei giorni scorsi che per l’anno prossimo il fondo avrebbe avuto un incremento grazie proprio al nuovo Governo. In realtà quei soldi erano già attesi e così nessuno nel mondo della sanità (Regioni e lavoratori) gioisce per il loro arrivo. La stessa Grillo quando si trovava all’opposizione criticava il governo di centrosinistra se annunciava un aumento del fondo già previsto come se fosse una novità.
«Ci vogliono più soldi, in pratica si continua con il definanziamento», sintetizza Palermo. Del resto i medici hanno aperto la questione del loro contratto, il cui rinnovo costerebbe un altro miliardo, che non si vuole far pesare sul fondo sanitario nazionale quindi avrebbe bisogno di risorse dedicate. «La ministra ci ha incontrato - dice Palermo - è stata gentilissima ma per ora effetti non se ne vedono.
Oltretutto, visto quello che sta uscendo della manovra, non si capisce nemmeno se quel miliardo in più sarà mantenuto. Oltretutto la misura dei 100 anni per la pensione svuoterà i reparti.
Qui è a rischio tutto il sistema, colpire la sanità vuol dire colpire prima di tutto la salute dei cittadini». I camici bianchi non si fidano e vanno in piazza.