giovedì 11 ottobre 2018

il manifesto 10.10.18
I lemmi viventi della discordia
Per Gramsci non esisteva solo la classe operaia. Nato lontano dalle fabbriche torinesi, egli pensava a un blocco storico del proletariato industriale e contadino con gli intellettuali.
«per Gramsc il populismo è un atteggiamento culturale-politico inadeguato all’emancipazione delle masse popolari ma egli vede nel populismo elementi di interesse nella misura in cui si tratta pur sempre di una forma di avvicinamento degli intellettuali al popolo, in un panorama socio-culturale italiano storicamente deficitario in questo senso.
di  Salvatore Cingari


Per Gramsci non esisteva solo la classe operaia. Nato lontano dalle fabbriche torinesi, egli pensava a un blocco storico del proletariato industriale e contadino con gli intellettuali. Se questo per il giovane Asor Rosa di Scrittori e popolo (influenzato da Mario Tronti e su questo tema anche da Rosaro Romeo) era il peccato mortale che dissipava le conquiste «operaiste» del Biennio rosso, per Ernesto Laclau si trattava invece dell’eredità dei Quaderni del carcere più feconda per la post-modernità: la soggettività popolare non si identifica con una singola classe, ma con un’articolazione di diverse istanze da unificare con uno sforzo di tipo simbolico-comunicativo. In tal senso Laclau ritiene di poter ancorare al pensiero gramsciano la sua riattivazione del termine populismo in una piattaforma politica di sinistra: anche in questo caso veniva capovolta la valutazione di Asor Rosa che invece, nel suo testo del 1965 (ma già nel decennio successivo la sua posizione sarebbe stata sensibilmente diversa), denunciava proprio il «populismo» di Gramsci sussumibile nel paradigma moderato-trasformistico e modernizzatore-conservatore dell’Italia post-unitaria.
In questo senso Asor Rosa chiamava in causa anche la nozione gramsciana di nazionale-popolare, che in seguito avrebbe legittimato persino tentativi di appropriazione del pensatore sardo da parte della cultura di destra. Ma il termine nazionale-popolare in Gramsci non significa ciò che noi ormai indichiamo (elidendo impropriamente una e) come «nazional-popolare», cioè certa cultura di massa, né il folklore, bensì le produzioni artistiche profondamente legate a un contesto storico-culturale nazionale, che però assumono un significato paradigmatico di valenza universale (la tragedia greca, il romanzo russo, l’opera lirica italiana …). Il russo Narodnost, da cui deriva il gramsciano nazionale-popolare, o popolare-nazionale, non è insomma un calco dal tedesco Volkstum o – come voleva Romeo – un’idea ispirata dal populismo russo.
TUTTAVIA, se sembra problematico il rimando di Gramsci a un immaginario «populista» in senso puramente romantico (la «spontaneità» deve sempre andare insieme alla «direzione»: il senso comune da valorizzare politicamente non è quello già dato), anche La ragione populista di Laclau appare forzare il concetto di egemonia in una visione di tipo linguistico-libidinale che rimuove la sostanza storico-materialistica dei Quaderni. Di fronte a queste diverse interpretazioni nasce la domanda: quale fu l’effettivo utilizzo che del lemma «populismo» fece Gramsci? Innanzitutto bisogna distinguere fra gli scritti pre-carcerari e quelli posteriori all’arresto. Fra il 1919 e il 1926 Gramsci utilizza il termine in linea con la semantica bolscevica e leniniana e con riferimento all’omonimo movimento politico russo. Venati di utopismo e di intellettualismo, i populisti russi mettevano al centro della rivoluzione la sola classe contadina e come i menscevichi tendevano al compromesso con la borghesia.
NEI QUADERNI Gramsci non utilizza spesso il termine, nella sua forma aggettivale o sostantiva, anche se lo fa più volte di quanto risulti dall’indice dei temi dell’edizione Gerratana. Emerge una valutazione negativa, ma non in toto. Cioè da un lato Gramsci fa riferimento al populismo in modi che appaiono molto lontani dall’utilizzo del termine da parte di Laclau: per Gramsci, cioè, il populismo è un atteggiamento culturale-politico inadeguato all’emancipazione delle masse popolari. Dall’altro, egli vede nel populismo elementi di interesse nella misura in cui si tratta pur sempre di una forma di avvicinamento degli intellettuali al popolo, in un panorama socio-culturale italiano storicamente deficitario in questo senso.
Non sfugge che l’arricchimento semantico che l’utilizzo del termine populismo segna nei Quaderni rispetto agli scritti giovanili è da attribuirsi al diverso quadro di motivazioni politiche e interiori che muovevano il pensiero gramsciano: era necessario, negli anni del carcere, spiegare il perché della sconfitta del movimento operaio ed elaborare una visione alta della politica, capace non solo di sviluppare antagonismo, ma anche di comprendere il nucleo di verità affermato da avversari e nemici.
Nei Quaderni 3, 8 e 15, in realtà, Gramsci resta nella sfera semantica leniniana, assimilando ai populisti il trasformismo di certi settori del socialismo italiano del primo Novecento e i limiti del pensiero di Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane. Ma nel Quaderno 6 possiamo vedere come il comunista sardo inizi a usare il termine anche per definire fenomenologie «borghesi» e di «destra», anticipando il significato che oggi si conferisce più diffusamente alla parola.
Criticando un articolo di Arrigo Cajumi su Giovanni Cena, ad esempio, riferisce il termine a un atteggiamento che vorrebbe essere popolare ma che non riesce a esserlo, mantenendo una scissione elitaria con il «popolo» stesso; e, dall’altro, a uno scrittore che – nota Gramsci – nel suo miscelare orientamenti socialisti ad aperture al nazionalismo anticipava il fascismo.
SEMPRE nel Quaderno 6 Gramsci parla di una «andata al popolo» di alcune correnti letterarie francesi come segno del tentativo della borghesia di rilanciare la sua egemonia sulle classi popolari assorbendo una parte dell’ideologia proletaria. Per lui tale movimento non era da sottovalutarsi, dato che si trattava pur sempre di una tendenza a superare il democratismo «formale» in forme più sostanziali.
Nel Quaderno 23 si sarebbe spinto oltre nell’utilizzo in positivo del termine parlando del De Sanctis realista nell’ambito di tendenze populiste che nel secondo ottocento si ponevano il problema delle classi popolari andando oltre il limite «poliziesco» dell’idea di Nazione della borghesia post-risorgimentale. E nel Quaderno 15 si dissociava dalla posizione del comunista Paul Nizan che opponeva la «verità rivoluzionaria» alla «verità umana», criticando i tentativi populistici di alcuni scrittori francesi. Per Gramsci la ricerca di radicamento nel contesto storico-sociale era necessaria a una letteratura in cui potesse scorrere la vita: e, come sappiamo, tale dimensione era in contrapposizione con il cosmopolitismo delle élites intellettuali slegate dalla base sociale, ma non certo con un universalismo concreto, di cui doveva sostanziarsi la liberazione internazionalista (niente a che fare, quindi, con identitarismi e nazionalismi italici).
ECCO PERCIÒ che si può dire che Gramsci non utilizzasse il termine populismo come uno stigma, e fosse anzi attento a cogliere in esso, come prassi o come rappresentazione culturale, gli elementi da sviluppare in una politica di emancipazione. Questo atteggiamento di apertura è alla base anche del suo giudizio sui fenomeni che al tempo di Gramsci ancora non venivano definiti come populisti dal lessico politico, e che oggi ne costituiscono invece paradigmi considerati classici, come ad esempio il boulangismo, per non dire delle note pagine sul cesarismo e bonapartismo. Analizzando tali fenomeni Gramsci era lungi dal gridare alla catastrofe irrazionalistica, provocata dalle capacità illusionistiche del potere, ma cercava di comprendere la loro razionalità interna, che riusciva a comporre gli interessi della classe dominante con alcune esigenze dei subalterni. Capire ciò sarebbe utile anche per ricostituire oggi le basi di una politica che sia appunto, gramscianamente, popolare e non populistica, secondo il significato che il termine ha assunto nel secondo Novecento.

Venerdì a Roma Tre
Dalle 14.30 alle 19.30, a Roma Tre, presso il dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo (di via Ostiense 236, aula Matassi, piano terra), avrà luogo il seminario della Igs Italia, «Gramsci e il populismo». Coordina Guido Liguori. Relatori: Salvatore Cingari, «Gramsci e il populismo: una introduzione», Raul Mordenti, «Popolo e populismo nei Quaderni», Pasquale Voza, «Gramsci e il populismo secondo Laclau». Interventi di Manuel Anselmi, Francesco Campolongo, Martin Cortes, Eleonora Forenza, Chiara Meta, Michele Prospero.

il manifesto 6.10.18
Il populismo, il totalitarismo e il lavoro
di Sarantis Thanopulos


Comunque lo si interpreti, il populismo origina dalla disgregazione della società civile.
La causa è una crisi economica e etica che destabilizza gli organismi e le istituzioni di rappresentanza culturale, sindacale e politica dei cittadini e distrugge progressivamente i loro legami solidali. L’onda populista è un’organizzazione collettiva sostitutiva che esalta i bisogni frustrati dei cittadini “comuni”, percepiti in modo generico, impreciso, spesso ingannevole. L’appagamento di questi bisogni (resi “popolari” da una vasta adesione) è ideato, in modo avulso da un progetto complessivo di costruzione, per una massa di utenti a cui fornire prestazioni.
La massa è tenuta insieme da legami impersonali che dànno, tuttavia, la sensazione di una coesione e di una forza incorruttibili. La forza eccita in senso antidepressivo, la coesione calma l’ansia della disgregazione.
Lasciato a sé il populismo degenera nel totalitarismo. Non lo si ferma denunciando le sue false promesse. Attaccare un’illusione, che ha funzione stabilizzatrice, offrendo in cambio disperazione, provoca solo rabbia e rigetto. Inoltre, il populismo se si trasforma in regime totalitario, è in grado di offrire un coerente modello di appagamento dei bisogni e inventarne forme nuove, pervertendo i desideri. Può costruire un circuito di domanda e offerta del tutto funzionale al proprio mantenimento. Il problema non sta nelle promesse non mantenute, ma nella natura alienante del modo di impostarle e di realizzarle che, passivizzando i cittadini, li priva della condizione di soggetti politici.
Contrastare un futuro di totalitarismo e il suo effetto alienante nel campo dei valori fondamentali (la trasformazione dei cittadini da soggetti liberi e paritari in monadi assoggettate a un potere anonimo) è necessario.Tuttavia questi valori non resteranno vivi, e difenderli sarà vano, senza le condizioni psichiche, culturali, materiali che li rendono riconoscibili e realizzabili. Resistono tuttora, perché persiste la memoria vivente di una vita civile decente, ma puntare su ciò che resiste non è sufficiente.
Lo scontro che deciderà l’avvenire è sul lavoro, l’epicentro della disgregazione. Tra le due sue concezioni: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, come sancisce la nostra Costituzione; “Il lavoro rende liberi”, la scritta, per nulla beffarda, campeggiante in molti campi di concentramento nazisti. La prima parla del lavoro come realizzazione personale e collettiva della creatività: non si lavora per produrre mezzi di sussistenza, ma una vita significativa degna di essere vissuta che fonda la democrazia.
La seconda è la propaganda, un’idea diventata azione, che invita a sbarazzarsi dei pensieri e delle emozioni, a vivere come automi, a sprofondare anesteticamente in uno stato di disincarnazione, in cui il corpo scheletrico delle vittime, oggetto di una sperimentazione, riflette l’ideale anoressico degli aguzzini.
Combattere in tempo la prospettiva del totalitarismo nel populismo, richiede un processo di bonifica fondato sulla dignità al lavoro. Questa dignità, l’ultimo degli obiettivi dell’amministrazione europea della spesa pubblica, non coincide con il “posto fisso” e men che mai con la “flessibilità”. In un mondo dominato dalla robotizzazione della produzione e dei servizi e dalla meccanizzazione della forza lavoro umana, costretta a compiti protocollari, impersonali, ripetitivi, la libertà di gestione della propria esperienza lavorativa è un miraggio. La centralità della creatività umana, la sua affermazione in ogni campo del vivere, dovrebbe essere la colonna portante di una politica del lavoro democratica.


Repubblica Le idee
La democrazia ferita dalla paura dell’uomo nero
di Massimo Recalcati


Partendo dal "caso Macerata" e dalla folle caccia alle persone di colore, Ezio Mauro costruisce nel nuovo libro un’inchiesta che allarga la cronaca a un’indagine su una mutazione culturale. Quella dell’Italia e della deriva razzista
La democrazia non è per forza liberale», dichiara Zoltan Kovacs, ideologo del premier neoconservatore e reazionario Orbán.
Una mutazione profonda sta investendo il nostro concetto di democrazia. È questa la posta in gioco dell’ultimo libro di Ezio Mauro intitolato L’uomo bianco. Se Pasolini negli anni Settanta aveva segnalato la mutazione che stava stravolgendo il volto dell’uomo, con questo libro Mauro intercetta quella in corso che sta stravolgendo il volto della democrazia. Il suo punto di partenza è un fatto di cronaca politica. Il 9 febbraio 2018 un uomo bianco, Luca Traini, spara in una città italiana contro uomini sconosciuti, colpevoli solo di avere la pelle nera, ferendone sei.
Il suo intento è quello di vendicare Pamela, una ragazza violentata e fatta a pezzi da un nigeriano. Ha tatuato sul collo la parola "Lupo".
È così che si fa chiamare ed è così che si sente essere: un lupo solitario, un giustiziere che, come in un videogioco, è solo contro tutti. Prima di essere arrestato alza il braccio nel saluto romano gridando "Viva l’Italia!".
Ezio Mauro eleva questo triste ed inquietante episodio a sintomo di una mutazione culturale. Se Bauman, Byung-Chul e Fisher hanno indagato con intelligenza critica le ultime metamorfosi del capitalismo e le sue conseguenze sociali, Mauro si sofferma invece sulla dimensione della politica. In quell’episodio razzista egli non vede la manifestazione isolata di follia, ma l’affermazione di un "nuovo egoismo", "di una cultura svilita a strumento esclusivo di selezione e di separazione" che sta modificando sensibilmente il nostro concetto di democrazia.
Questo "nuovo egoismo" sorge nel cuore dell’Europa e invoca muri e i fili spinati. Si tratta di un movimento regressivo che fa scivolare la nostra nozione di identità verso un primitivismo arcaico che trasfigura il colore della pelle in una insegna culturale. Follia e barbarie che scompaginano le conquiste più elementari della democrazia: gli esseri umani hanno uguale dignità qualunque sia il colore della loro pelle, il loro credo, la loro estrazione sociale. In un tempo smarrito come il nostro la spinta regressiva fa saltare queste conquiste rivestendo l’"elemento ancestrale della pelle" di un significato identitario che esclude ogni forma di contaminazione.
L’apertura a mondi differenti e plurali offerta dalla democrazia, viene richiusa bruscamente da una spinta pulsionale securitaria che vorrebbe riportare la Cultura alla Natura.
In questo modo il richiamo reazionario a "pelle, vene, carne e sangue, rifugio e linfa del cuore" agisce come una sorta di "antidoto atavico e improvvisamente modernissimo" di fronte "al timore oscuro della dispersione identitaria". Al rischio della contaminazione con lo straniero – alla fatica di una politica della traduzione e della integrazione –, si preferisce l’evocazione del suolo, della patria, del confine sicuro. Al lavoro difficile della democrazia, si preferisce la brutale regressione impolitica ai corpi, al sangue, alla terra.
La psicoanalisi già nell’epoca dei totalitarismi novecenteschi aveva isolato con precisione il nesso che unisce lo smarrimento di un popolo alla ricerca autoritaria di un padrone. Basti ricordare, tra tutte, la celebre analisi di Reich sulla psicologia delle masse del fascismo: il problema – dichiarava – non è perché le masse abbiano sopportato senza reagire l’oppressione della dittatura fascista, ma perché abbiano potuto desiderare il fascismo!
Di fronte alla congiuntura insidiosa che stiamo vivendo, Mauro sembra ricollegarsi indirettamente a quella stagione di riflessioni critiche sulla psicologia delle masse.
Come allora anche oggi assistiamo allo sgretolamento dell’umanismo e delle sue espressioni politiche – "la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale" – sotto i colpi di un populismo insieme aggressivo e regressivo. In evidenza è la pietosa impotenza della democrazia di fronte al richiamo irresistibile della pulsione securitaria. È quello che accade, commenta Mauro, quando "gli istinti prendono il potere", "quando tutto torna agli elementi primordiali", alla "sostanza biologica primitiva". Il peccato dello straniero non è di classe, ma di sangue; è un "peccato d’origine". Di qui il meccanismo del capro espiatorio che addossa le ragioni dell’angoscia a chi si trova a vivere senza diritto sul nostro territorio.
Non si tratta più di governare politicamente il transito difficile imposto dai processi della globalizzazione, di preservare la lenta costruzione della convivenza democratica, ma di purificare il più rapidamente possibile dai germi dello straniero il corpo della nazione. Non si può non avvertire qui la risonanza spaventosa di quello che l’Europa ha già vissuto nella sua stagione più infame. Quando l’istinto si separa dalla storia, quando i cittadini invocano la loro sicurezza in cambio dei loro diritti, quando il concetto di razza torna a circolare nel dibattito politico, la democrazia stessa è messa in crisi nel suo fondamento. In gioco non è tanto il rischio di un ritorno politico del fascismo, ma di un desiderio di ordine, di disciplina e di sicurezza che destabilizza la dimensione vocazionalmente aperta della democrazia. Non è un caso che le due parole d’ordine del fascismo della prima ora, ovvero la necessità di assicurare la protezione dei cittadini e la ribellione contro il sistema, siano divenuti i capisaldi ideologici dei due movimenti politici che nel nostro Paese incarnano la regressione populista. Da un lato la capitalizzazione del rancore generata dal sentimento di abbandono e di insicurezza vissuto dalle classi più povere, dall’altro l’aggressione alle istituzioni democratiche vissute come parassitarie ed avariate. Da una parte i fautori del muro e della segregazione, dell’universo indigeno, fatto di terra, sangue, confini rigidi e colore della pelle, e dall’altra, i mistici dell’uno vale uno che trasformano "l’incompetenza anonima del singolo in virtù del popolo", che inneggiano all’ignoranza come se fosse la prova suprema di innocenza e verginità ideale.
"Predicatori della fine del mondo", li definisce Mauro. La spinta a ricominciare da zero contrassegna, infatti, storicamente lo spirito di ogni totalitarismo. È il mito di una rigenerazione, di un cambiamento che non lascia sopravvivere nulla di ciò che è stato. Nemmeno la memoria. È il nucleo della psicologia delle masse fascista: il vincolo solidale si spezza nel nome di una difesa della propria identità contro ogni forma di imbastardimento. La forma liquida dei legami di cui ha parlato Bauman deve allora essere integrata con questa nuova tendenza alla regressione identitaria, da questa spinta verso una solidità securitaria che esclude il differente. È il successo dei predicatori dell’odio come sono Trump, Le Pen e il nostrano Salvini: la chiusura prevale sull’apertura, la paura sulla fiducia, l’odio sul dialogo. Ma non si tratta di semplice analfabetismo politico come una certa sinistra elitaria ha voluto interpretare. La psicoanalisi lo conferma: l’istinto fascista che il populismo ha rianimato concerne una inclinazione fondamentale dell’umano più che la sua disumanizzazione.
La richiesta di sicurezza, di protezione, di riparo viene dalla dimensione più profonda della vita pulsionale. Il baratto tra la libertà e la schiavitù accompagna da sempre come un’ombra spessa la vita dell’uomo. Gli uomini possono desiderare ardentemente le loro catene piuttosto della loro libertà. Il libro di Ezio Mauro pone questo grande tema al centro dell’avvenire della democrazia nel nostro Paese e in Europa. La sua tesi è che l’emancipazione legata all’acquisizione dei diritti non può essere disgiunta dall’"emancipazione dal bisogno, dalla paura, dalla solitudine e dalla precarietà dell’esistenza".
Mostrare la centralità di questo nesso dovrebbe costituire il primo passo per una rinascita di una sinistra riformista. Senza questa alternativa al populismo, la nostra democrazia, come sottolinea Mauro al termine del suo incisivo libro, rischia di assomigliare alla vita di una conchiglia sulla spiaggia che mentre conserva ancora la sua bella forma sta, in realtà, irreversibilmente morendo.«a volte ritornano»

Il Fatto 11.10.8
Nanni Moretti ricomincia da “Tre piani” (e da Freud)
di Federico Pontiggia


Il nuovo, misterioso e segretissimo film di Nanni Moretti ha un titolo, Tre piani. Non è detto però che sarà quello con cui arriverà sul grande schermo, perché per la prima volta nella carriera del regista non è suo. Tre piani (in ebraico Shalosh Qomot, 2015) è il titolo del quinto romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, edito in Italia da Neri Pozza nel 2017: Moretti ha deciso di adattarlo per il cinema, traslando la storia dai sobborghi di Tel Aviv a Roma.
Il suo tredicesimo lungometraggio non parte dunque da un soggetto declinato in prima persona singolare, o al più plurale: un unicum in 42 anni spesi dietro la macchina da presa, sicché Nanni è pronto a sfatare la premessa-promessa dell’esordio Io sono un autarchico (1976).
Firmato dall’autore, nato a Gerusalemme nel 1971, del fortunato Simmetria dei desideri, Tre piani mutua la propria architettura poetica da una palazzina borghese, associando ad altrettante famiglie le istanze intrapsichiche freudiane, ovvero Es, Io e SuperIo. Paure e rimossi, colpe e dolori, amore e fragilità, Nevo mette la penna nelle relazioni, senza esprimere giudizi e senza rinunciare all’ironia, svelando le realtà sottaciute dalla quiete dei pianerottoli: chi ci sta dietro quelle porte? Che cosa nasconde la calma apparente degli spazi condivisi? Quali inconfessabili verità si eludono nel decoro di aiuole e parcheggi?
Ancor più perché inedita, non sappiamo quale fedeltà, quale attaccamento alla lettera di Eshkol avrà la trasposizione di Moretti, ma in originale i tre nuclei familiari sono così composti: al primo piano, il giovane Arnon, unito ad Ayelet, che teme la figlia Ofri sia stata abusata dall’anziano vicino Hermann, malato di Alzheimer; al secondo piano, Hani, madre di due bimbi e “vedova” dell’assente Assaf, che non esita a ospitare il redivivo cognato Eviatar in fuga dai creditori; al terzo, la giudice in pensione Dovra, che complice la segreteria telefonica appartenuta al defunto marito cerca il figlio Arad e la possibile espiazione. A parte la traduzione spiccia, quale sarà il voltaggio dell’adattamento? Rimandi, echi e simmetrie nel corpus morettiano non mancano, da La stanza del figlio a Pâté de bourgeois, passando per La messa è finita.
Prodotto come i precedenti Mia madre (2015) e Habemus Papam (2011) da Domenico Procacci per Fandango, Tre piani – o quel che sarà: un titolo alternativo potrebbe essere La mia strada – è in fase di preparazione avanzata: dalla ricerca della location al casting, per cui il cinema Nuovo Sacher di Moretti aprirà il 13 e 27 ottobre alla selezione di bambine dai 5 ai 13 anni e di ragazze dai 16 ai 18 anni.
Nulla più trapela, ma se la scelta di adattare un testo altrui è ipso facto sorprendente, l’evoluzione artistica di Nanni, che il 19 agosto scorso ha festeggiato 65 anni, appare del tutto coerente. Nel 2006 s’è dedicato all’anamnesi politica del Paese con Il Caimano, cinque anni più tardi con Habemus Papam ha saputo preconizzare nell’abbandono di Michel Piccoli le dimissioni di Benedetto XVI: un uno-due di ampio respiro, prospettiva globale, valore non negoziabile. Dopodiché ha sterzato nell’intimità familiare di Mia madre, interpellando un’autobiografia immaginaria, senza reflussi nel personalismo. Come farvi seguito, come sintetizzare pubblico e privato, grande e piccolo se non ripartendo ex novo, accogliendo l’altro, leggi una voce e una creatività differente, nel proprio cinema, correndo perfino il rischio di fletterne l’autorialità?
Non può stupire, assecondando questo desiderio di novità, che Moretti sia pronto a portare in sala il 6 dicembre con Academy Two, e prima a chiudere il 36esimo Torino Film Festival, il quarto documentario della sua filmografia: dopo Come parli frate? (1974), La cosa (1990) e Il diario del caimano (2006), ecco Santiago, Italia. Targato Sacher Film, Le Pacte, Storyboard Media e Rai Cinema, attraverso talking heads e materiali d’archivio torna a ridosso del colpo di Stato dell’11 settembre 1973 in Cile che terminò il governo di Salvador Allende e inquadra il ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago, che diede rifugio e quindi salvezza a centinaia di oppositori del regime di Pinochet.
L’Italia in Cile e Tel Aviv a Roma, un import-export in cui Moretti sperimenta un cosmopolitismo arioso e inaugura una dimensione da regista mai praticata: orfano del soggettista che è stato, affrancato dal demiurgo che s’è voluto e, vedremo se e in quale misura, in cerca di autore.

La Stampa 11.10.18
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi


«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo.
Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato. Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.

il manifesto 11.10.18
Sull’aborto il papa fa il papa: «È come affittare un sicario per risolvere un problema»
Papa Bergoglio. Quando affronta temi etici relativi a vita e famiglia - su questo, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo, ambiente), le posizioni di Francesco sono in linea con quelle di Ratzinger e Wojtyla - , le parole di Bergoglio sono state spesso di grande durezza
di Luca Kocci


Medici che praticano l’interruzione di gravidanza come «sicari» del mandante di un omicidio, ovvero le donne che decidono di abortire.
È LA VIOLENTA IMMAGINE scelta da papa Francesco per la catechesi dell’udienza del mercoledì in piazza San Pietro, ieri, dedicata al comandamento «non uccidere». Dopo un’ampia introduzione il papa mette a fuoco l’obiettivo: l’aborto. «Un approccio contraddittorio consente la soppressione della vita umana nel grembo materno in nome della salvaguardia di altri diritti», afferma Francesco, puntando il dito contro le legislazioni che consentono l’interruzione volontaria di gravidanza, l’ultima approvata nella cattolicissima Irlanda, a maggio. «Ma come può essere terapeutico, civile o semplicemente umano un atto che sopprime la vita innocente?», domanda retoricamente, «È giusto «fare fuori» una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema?». I termini sono netti: abortire è «fare fuori un essere umano», «è come affittare un sicario per risolvere un problema». Ma non si tratta di una novità.
Quando affronta temi etici relativi a vita e famiglia – su questo, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo, ambiente), le posizioni di Francesco sono in linea con quelle di Ratzinger e Wojtyla – , le parole di Bergoglio sono state spesso di grande durezza.
A GIUGNO, per esempio, ricevendo in Vaticano i rappresentanti del Forum famiglie, parlò ancora di aborto in termini molto crudi. «Ho sentito dire – disse allora il pontefice – che è abituale nei primi mesi di gravidanza fare certi esami per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via?. L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva che gli spartani, quando nasceva un bambino con malformazioni, lo buttavano giù dalla montagna. Oggi facciamo lo stesso. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi».
La causa della decisione di abortire secondo Francesco? L’«individualismo», l’«egocentrismo», «gli idoli di questo mondo: il denaro (meglio togliere di mezzo questo, perché costerà), il potere, il successo».

Repubblica 11.10.18
Il ginecologo
"Quelle parole offendono me e le donne io applico solo la legge"
di Maria Novella De Luca


ROMA «Io un sicario? Ma che offesa. Io sono un medico che applica una legge dello Stato. E allora chi sarebbe il mandante, lo Stato stesso? Sarei un assassino se le donne le lasciassi morire di aborto clandestino, come avveniva prima della 194».
Michele Mariano ha 65 anni, è l’unico e ultimo ginecologo non obiettore del Molise, dirige il reparto di interruzione volontaria di gravidanza dell’ospedale "Cardarelli" di Campobasso. Un piccolo reparto d’eccellenza, dove arrivano donne da tutto il Sud.
«È la mia trincea. Faccio da solo 400 aborti l’anno. Ogni giorno, senza tregua, senza ferie. Il mio impegno l’ho pagato con l’espulsione dalla Ginecologia, di cui dovevo diventare primario. Perché questo mestiere, sapete, l’avevo scelto anche per far nascere i bambini».
Mariano, si aspettava parole così dure da questo Papa?
«Francamente no, anche se il pensiero della Chiesa sull’aborto è chiaro da sempre. Ma usare il termine "sicario" e ritenere quindi le donne che abortiscono delle "assassine" è offensivo.
Credete che le donne si divertano a sottoporsi a una interruzione di gravidanza? No, non quelle che arrivano da me».
Cosa c’è dietro un aborto?
«Disperazione, quasi sempre.
Pensate alle migranti. Arrivano in Italia incinte dopo essere state stuprate nel viaggio, nelle prigioni in Libia. Sono sole. Senza nulla. Dovrei respingerle? Oppure le donne, anzi le coppie cui viene diagnostica la grave malformazione del figlio.
Secondo il Papa quel bimbo è un dono. Certo. Ma non tutte le madri e i padri sono in grado di sostenerlo quel "dono"».
Le donne cambiano idea?
«È raro, ma accade. E io ne sono felicissimo. Ci sono casi in cui vedo un’incertezza e allora cerco di capire se la scelta dell’aborto è definitiva o no. Sempre nel rispetto assoluto della volontà della donna. Magari suggerisco di riflettere ancora un po’. Alcune tornano a farmi conoscere il loro bambino».
Lei è l’ultimo ginecologo abortista del Molise?
«Qui il 94% dei medici, degli anestesisti e degli infermieri è obiettore. Nel mio reparto arrivano donne non solo dal Molise, ma dalla Puglia, dalla Campania e dalla Calabria. Sanno che qui sono accolte e siamo bravi. Ogni volta che nel Sud chiude un reparto della 194 le mie pazienti aumentano».
Non è stanco?
«Stanchissimo, ma non mollo.
Come faccio? Dove finiranno le donne quando i ginecologi della mia generazione andranno in pensione, visto che i giovani sono tutti obiettori? L’aborto clandestino è di nuovo una piaga».
Cosa vorrebbe dire al Papa?
«Di non giudicare ma di avere compassione. Sa quante donne cattoliche arrivano nel mio reparto? Tante. Ed entrano in sala operatoria facendosi il segno della croce».

Il Fatto 11.10.18
Assedio alla 194: dal Papa al boom dei medici obiettori
La situazione in Italia - 8 su 10 ginecologi si rifiutano di interrompere le gravidanze, gli aborti clandestini spopolano. La legge, dopo 40 anni, è sempre più ko
di Maddalena Oliva


Per il Papa sarà pure un atto non civile, pari all’affittare “un sicario per risolvere un problema”. Che Bergoglio tuoni contro l’aborto non è una notizia, e nemmeno che lo faccia con un’espressione così forte. Lo sarebbe semmai il contrario (ma Papa Francesco, di questo periodo, ha ben altri pensieri). Abortire, però, resta un diritto. E c’è una legge, tanto celebrata quest’anno per l’anniversario dei suoi 40 anni, che lo dovrebbe anche garantire. Ma così succede nella realtà?
Ci sono donne costrette a “emigrare” perché nelle regioni di residenza le attese sono di settimane, per i tanti ginecologi obiettori. Altre che vengono invitate a rivolgersi ai centri privati. Altre ancora che si ritrovano in coda all’alba, in scantinati squallidi e freddi con la volontaria dell’associazione “pro vita” che ti parla di “omicidio”. Era il22 maggio 1978quando in Italia fu promulgata lalegge 194sull’interruzione volontaria di gravidanza, dopo un’aspra battaglia che spaccò in due il Paese. Quarant’anni dopo, nei giorni in cui infiamma la polemica sulla “mozione per la vita” approvata dal consiglio comunale di Verona, le difficoltà segnalate da operatori, associazioni e pazienti diventano motivo di nuova mobilitazione: a partire da sabato prossimo, proprio a Verona.
Guardando i numeri, e scorrendo l’Italia regione per regione, i medici che non garantiscono di effettuare l’intervento di interruzione di gravidanza, per motivi di coscienza, sono il 70,5%, secondo l’ultimo monitoraggio nazionale presentato in Parlamento. Il record di obiettori (oltre l’80%) si registra al Sud. In Molise, per esempio, è rimasto solo il dottor Michele Mariano – intervistato qualche giorno fa dal Mattino – a praticare gli aborti. Un ginecologo solo, per un’intera regione. “Nessuna donna chiede aiuto con piacere. Io ne seguo in media 400 all’anno che arrivano da regioni vicine”, sottolinea il dottor Mariano. “Vorrà dire che andrò all’inferno, e i miei colleghi, obiettori di coscienza, in paradiso. Ma tutti siamo a favore della vita. Qui si tratta solo di applicare una legge e fare in modo che una cosa dolorosissima sia possibile come libera scelta, mettendo da parte le ideologie. Ma vedo un rigurgito anti-abortista della politica, anche a sinistra”.
Nel Lazio, l’aborto dopo il terzo mese viene effettuato solo nella Capitale, proprio perché sono rimasti in pochissimi i medici a effettuare questo intervento. Ci sono poi strutture che accettano solo un numero limitato di richieste al giorno, quindi chi vuole abortire deve raggiungere all’alba lo sportello.
Ancora: l’aborto farmacologico, attraverso la somministrazione della pillola Ru486, è possibile di fatto solo a macchia di leopardo. In Finlandia avviene nel 98% dei casi, proprio per promuovere un intervento meno invasivo: in Italia, nel 15%. Perché spesso il farmaco non è nemmeno disponibile, nei parti degli ospedali come nelle farmacie (dove la pillola abortiva è uscita dalla lista di emergenza dei prodotti obbligatori da banco). Silvio Viale, ginecologo pioniere della somministrazione ordinaria della Ru-486 a Torino, ha replicato su Facebook a Francesco: “Sono un medico, non un sicario. Tutti coloro, comprese le ministre, che fanno diagnosi pre-natale, lo fanno per sapere se dovranno abortire. Il 99,9% di chi ha una diagnosi prenatale infausta decide di abortire. Io rispetto questa volontà e garantisco questo diritto”.
E poi c’è l’aborto clandestino che è ancora oggi, nel 2018, una realtà. Specie per le immigrate, che acquistano nella maggior parte dei casi medicinali su internet.
A Castel Volturno, denuncia Emergency, alcuni volontari hanno accompagnato al pronto soccorso ragazze straniere al 7° mese di gravidanza con nello stomaco 50 compresse di gastroprotettore usato per abortire. Onu e Consiglio d’Europa hanno più volte richiamato l’Italia sia per le difficoltà di applicazione della legge sia per la “discriminazione” nei confronti del personale sanitario non obiettore. È la stessa legge 194 a imporre che “l’espletamento delle procedure” e “l’effettuazione degli interventi richiesti” debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente.
E in futuro? “I non obiettori hanno in media 50-60 anni”, raccontava un medico a Palermo al nostro mensile MillenniuM, mentre gli specializzandi di ginecologia hanno pochissime occasioni di fare pratica. Così “nel giro di dieci anni, la 194potrebbe diventare inapplicabile”.

Il Fatto 11.10.18
Dio, Verona e famiglia. È qui la roccaforte del Medioevo futuro
Su gay, donne e immigrati il consiglio comunale scaligero è diventato il laboratorio politico dell’ultradestra
di Wanda Marra


Una città senza “attività etniche”, dove sia sempre più difficile abortire, con la “Famiglia” tradizionale che non può essere “contraddetta o danneggiata” da messaggi che vanno in direzioni diverse, nella quale ogni bambino riceva in dono alla nascita una bandiera indipendentista. Verona è un laboratorio, con i valori della Lega che avanza, già diventati oggetto di politiche comunali. Le mozioni presentate (quasi tutte approvate) dall’inizio del mandato del sindaco Federico Sboarina (eletto nel 2017 con l’alleanza di centrodestra e vicino alla destra estrema), formano un disegno organico.
D’altra parte, fino a giugno il vicesindaco di Verona è stato Lorenzo Fontana, ministro della Famiglia, ma soprattutto ambasciatore della Lega in Europa. Con il compito di costruire un asse basato anche sui valori della destra identitaria, dall’omofobia all’aborto. Ex capogruppo della Lega a Verona, oggi consigliere semplice (è stato sconfessato dalla sua stessa maggioranza per beghe interne al partito relative ai diversi gradi di “salvinismo”) è Vito Comencini, già suo collaboratore al Parlamento europeo.
L’antesignana di tutte le mozioni fu approvata nel luglio 2014 (ancora sindaco Tosi) su “famiglia, educazione e libertà d’espressione”. Premessa: “L’opinione pubblica dev’essere adeguatamente informata e protetta dagli abusi, perpetrati da dirigenti e funzionari troppo zelanti nell’applicare la discutibile Strategia 2013-2015 contro le discriminazioni”. E dunque il Consiglio comunale riconosce “il diritto della famiglia a non essere contraddetta o danneggiata, nel suo compito educativo, dall’azione suggestiva ed erosiva dei mezzi di comunicazione, come pure dagli organismi scolastici e istituzionali, che ne violino apertamente le convinzioni morali e religiose, con particolare riferimento all’educazione sessuale”. Sotto attacco implicitamente gli omosessuali: in quegli anni in città sono stati organizzati ben 300 incontri contro il gender.
È un crescendo. Ad ottobre 2017 (quando Fontana era ancora vice sindaco), Andrea Bacciga, eletto con la lista civica di appoggio a Sboarina, Battiti, balzato agli onori delle cronache questa estate per aver fatto il saluto fascista, presenta una mozione per chiedere al Senato di non approvare lo ius soli. 20 voti favorevoli, nessun contrario, nessun astenuto. Il Pd è assente in blocco. Il 10 maggio (Fontana sempre in carica) la leghista Laura Bocchi presenta una mozione per invitare il Sindaco a chiedere alle forze dell’ordine “servizi dedicati massivi e urgenti nei confronti delle attività etniche oggetto di lamentele da parte dei cittadini e generatrici di situazioni di gravi disordini e/o ritrovo abituale di persone pericolose” . Le attività non etniche non creano problemi? Per come vanno le cose a Verona, la domanda è oziosa. Passa. Viene approvata il 4 ottobre una mozione presentata a giugno dalla leghista Bocchi per chiedere un’ordinanza che imponga lo stordimento preventivo degli animali, durante la macellazione rituale islamica “Halal del sacrificio”. La pratica è cruenta, ma il rito richiede che l’animale non sia stordito. Nessun no e nessun astenuto, Pd assente.
Il 6 luglio,la mozione firmata da Bacciga e dal leghista Alberto Zelger chiede di istituire uno spazio per la sepoltura dei “bambini mai nati” ovvero i feti. Questa non passa. Le dichiarazioni di Zelger dopo il sì alla mozione sulla 194 (“L’aborto non è un diritto, è un abominevole delitto. Il mio esempio è la Russia di Putin”) vengono stigmatizzate in un ordine del giorno presentato dal capogruppo del Carroccio Mauro Bonato. Uno di quelli un po’ a disagio per la deriva sempre più estremista del suo partito. Il 7 agosto, dopo le dichiarazioni di Fontana sulla Legge Mancino, pronta arriva la mozione (a firma Bacciga) per chiedere al Comune di sostenere tale proposta, anche con prese di posizioni ufficiali. Approvata pure questa. Ed è del 17 agosto la mozione della medesima Bocchi per chiedere al Comune l’acquisto e la consegna per tutti i nuovi nati a Verona della Bandiera di San Marco. Nel frattempo il Pd è in evidente difficoltà: oggi in Consiglio la capogruppo Carla Padovani sarà ancora al suo posto, dopo che venerdì scorso ha votato contro l’aborto con la maggioranza. I Dem ancora non sono riusciti a sostituirla.

Il Fatto 11.10.18
Ipertradizionalisti di tutto il mondo, unitevi. Ora la vostra patria è all’ombra dell’Arena
L’evento - Con la benedizione di Salvini, la città ospiterà il 13º “World congress of families”
di Marcello Roccatagliata


La contestatissima mozione approvata a Verona il 5 ottobre scorso ha offuscato l’annuncio solo di poche ore prima: con la benedizione del ministro Matteo Salvini, la città veneta ospiterà il tredicesimo World congress of families (nell’edizione di quest’anno, svoltasi lo scorso mese in Moldavia, tra gli ospiti c’era il Segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin).
Il presidente del Wcf è Brian Brown, un quacchero americano convertitosi alla religione cattolica che, tanto per capirci, intervistato ieri da Avvenire, ha dichiarato che “l’inizio della soluzione alla crisi dell’Occidente è che i leader politici vedano che la salute della famiglia naturale è la massima priorità della nazione”. Ma chi è Brown? Il New York Times lo ha definito “leader dell’opposizione al same-sex marriage” negli Usa grazie ai fondi raccolti tra i gruppi religiosi conservatori.
Basta ricostruire la rete intorno a questo World congress of families, per capire come l’incontro di Verona sarà cruciale per fare della Lega un punto di riferimento dei gruppi internazionali che si battono contro aborto e diritti degli omosessuali.
Il Wcf nasce nel 1997 dall’iniziativa di un sociologo americano, Allan Carlson, che in un testo intitolato Family Questions collegava il calo della denatalità negli Stati Uniti ai movimenti per la liberazione sessuale, e che aveva trovato una sponda in due studiosi russi, Anatoly Antonov e Victor Medkov, convinti che la cultura individualista occidentale avrebbe portato il loro Paese, uscito dal comunismo, alla rovina. Per molti anni totalmente irrilevante, il Wcf ha svoltato nel 2011 quando i suoi temi e le sue battaglie hanno trovato orecchie interessate ad ascoltare nella Russia che si apprestava a incoronare per la terza volta presidente Vladimir Putin. In quell’anno Yelena Mizulina, una parlamentare molto vicina al futuro presidente, sostenne e ottenne – negli stessi giorni in cui il Wcf teneva un incontro a Mosca – l’approvazione di una legge che restringeva il ricorso all’aborto: iniziativa considerata come il primo grande successo del Wsf.
Negli anni seguenti arrivarono le leggi contro la “propaganda omosessuale”, la depenalizzazione della violenza domestica, il divieto di adozioni internazionali verso i Paesi dove sono in vigore i matrimoni egualitari: tutte iniziative a cui il Wcf diede il suo supporto. Con questo mondo, pezzi di politica e società civile italiana iniziarono a dialogare già cinque anni fa: nel 2013 Alexey Komov, portavoce russo del Wcf, partecipò al congresso della Lega Nord (e oggi è presidente onorario dell’associazione LombardiaRussia guidata da Gianluca Savoini, una delle teste di ponte della Lega verso Mosca). A Komov guarda soprattutto ProVita, l’associazione anti-abortista guidata da Toni Brandi, amico di lunga data del leader di Forza Nuova Roberto Fiore. ProVita ha organizzato diversi incontri in Italia con Komov. A uno di questi, nel 2016, partecipò l’attuale ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che così salutò Komov: “C’è una deriva nichilista e relativista della società occidentale, ma la Russia, rappresentata qui dall’amico Alexey Komov, è l’esempio che l’indirizzo ideologico e culturale in una società si può cambiare”.
Fontana tracciò poi un collegamento tra il fenomeno “dell’immigrazione di massa”, “i matrimoni gay”, “la teoria del gender”: “Sono tutte questioni legate, perché questi fattori mirano a cancellare la nostra comunità e le nostre tradizioni. Il rischio è la cancellazione del nostro popolo”. Verona non è la Russia, ma intanto il Wcf può incassare con il sorriso la mozione di Verona anti-aborto.

La Stampa 11.10.18
Più di due ginecologi su tre sono obiettori di coscienza
di Paolo Russo


Se c’è una categoria che ha accolto da tempo l’appello del Papa contro l’aborto è quella dei ginecologi. Ben due di loro su tre fa obiezione di coscienza, per ragioni di fede religiosa. Ma anche di carriera, ammettono gli stessi rappresentanti di categoria, visto che altrimenti si finisce per fare solo aborti, senza maturare altre esperienze professionali, che privatamente rendono non poco.
Sul fatto che i medici obiettori costituiscano un ostacolo all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) le opinioni però si dividono. Anche se l’ultima relazione del ministero della Salute conferma il netto calo degli aborti in Italia a 40 anni dalla legge 194 che li ha legalizzati. Le Ivg sono ormai meno di 85mila, mentre erano 234mila nel 1983. E anche gli altri indicatori confermano la tendenza. Il tasso di abortività, ossia il numero di Ivg per mille donne tra i 15 e i 49 anni, è stato del 6,6 per mille nel 2015, la metà rispetto a trent’anni fa. Un calo dovuto soprattutto al fatto che il livello di istruzione è cresciuto e l’uso dei contraccettivi pure, anche se l’Italia resta a fondo classifica in Europa per uso di profilattici e affini.
Molto ha fatto e sta facendo la «pillola dei cinque giorni». Il calo degli aborti va infatti di pari passo con il boom delle vendite del farmaco, che dal 2015 le maggiorenni possono acquistare in farmacia senza la prescrizione. In un solo anno il numero confezioni vendute è passato da 16.796 a 83.346. «Anche se non si capisce perché dopo aver tolto l’obbligo di ricetta si è poi cancellato il farmaco anche dall’elenco di quelli che devono essere obbligatoriamente disponibili in farmacia», denuncia l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni che si batte per il pieno rispetto della 194, secondo i suoi sostenitori minacciata dal fenomeno «obiezione di coscienza», che interessa oltre il 70 per cento dei ginecologi. Percentuali che salgono sensibilmente al Sud con punte dell’88% in Basilicata e dell’86% in Puglia. Del resto è proprio dal Meridione che il maggior numero di donne è costretto a migrare in altre regioni per ottenere il rispetto della legge. Magari rischiando di far scadere i tre mesi che consentono di abortire, salvo che non ci siano di mezzo altri problemi gravi di salute a far prolungare il termine. Uno studio della Bocconi lo conferma: più alto è il numero di obiettori, maggiore è la probabilità che una donna sia costretta ad abortire lontano da casa. Senza dimenticare che in Italia il 40 per cento dei reparti di ostetricia non ha un servizio di Igv. Percentuale che sfiora il 60 per cento al Sud.
«Il problema in molte regioni è stato però superato con l’utilizzo dei medici a chiamata», rassicura Elsa Viora, presidente dell’Aogoi, l’associazione di ginecologi e ostetriche.
«Dati alla mano la mancanza di medici che fanno aborti è una fake news», insiste Assuntina Morresi, del Comitato nazionale di bioetica, spiegando che «se fossero così pochi non si spiegherebbe come mai l’11 per cento dei non obiettori venga assegnato a servizi diversi dall’Ivg». Il problema è che il restante 89 per cento rischia di non fare altro, «rinunciando così a maturare quella esperienza professionale in sala operatoria e in ambulatorio, fondamentale per la carriera», spiega Antonio Chiantera, segretario nazionale Aogoi che punta l’indice contro la scarsa prevenzione. «Il 28 per cento delle Ivg sono recidive che potremmo impedire facendo informazione al momento del primo aborto e rendendo gratuiti i contraccettivi, compresa la pillola del giorno dopo». Che in farmacia non sempre si trova.

La Stampa 11.10.18
Piccole vittorie sul territorio
Così i pro vita erodono la 194
Le lapidi dei feti nel cimitero di Novara
di Fabio Poletti


La prima linea dell’integralismo cattolico e dei movimenti pro-life è a Verona. Non si sono ancora placate le polemiche per la mozione votata a Palazzo Barbieri a sostegno delle organizzazioni antiabortiste che già si guarda avanti. A fine marzo nella città veneta si terrà il World Congress of Families indetto dalle associazioni promotrici del Family Day. Nel presentare l’iniziativa al ministro dell’Interno, Matteo Salvini si è sbilanciato: «Questa è l’Europa che ci piace». Da Verona Filippo Grigolini, ex del Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi, oggi tra i sostenitori di un nuovo movimento a difesa della vita e della famiglia, giura che Verona è sempre stata così: «L’area di centrodestra e cattolica da noi vale da sempre il 75-80% degli elettori. Fino ad oggi non ci sono state le condizioni politiche e culturali per abrogare la 194. Chi ha proposto la mozione pensa che alla fine sia una strada possibile per cercare di evitare almeno gli abusi negli omicidi dei bambini».
Una mozione simile, ancora più radicale, era già stata presentata e ritirata in Consiglio Comunale a Trieste. Vista l’aria che tira l’ex leghista finito in Forza Nuova Fabio Tuiach promette di riprovarci: «Voglio solo che si faccia una campagna di informazione alle donne sui rischi che l’aborto comporta alla loro salute. L’aborto non uccide solo una vita umana. Mina anche la salute delle donne». Se non è l’aborto sono le coppie gay. Se non è il fine vita sono le Famiglie Arcobaleno. Nel mirino degli ultras cattolici c’è di tutto. Al processo contro Marco Cappato che aiutò ad alleviare le pene di Dj Fabo, accompagnandolo in Svizzera a morire, il gruppo Sentinelle in piedi agitava le croci, inneggiava al Papa e malediceva quel demonio di esponente dell’Associazione Luca Coscioni.
Dentro la clinica Mangiagalli, sempre a Milano, il Centro Aiuto alla Vita adesso ha pure un ufficio ed è riconosciuto dall’Ats. Il centro che si finanzia con donazioni private, di singoli cittadini e in alcune occasioni di Comunione e Liberazione, si batte per incoraggiare le donne a non abortire. Sandra Bonzi, che ne è la fondatrice, racconta di questa crociata: «Stiamo sostenendo 2.626 neomamme e donne incinte. La politica potrebbe fare molto di più. L’ultimo è stato Matteo Renzi con il bonus bebè».
A Novara sono molto più avanti. Il Movimento Difendere la Vita con Maria, dal 1999 ha stipulato accordi con alcune strutture ospedaliere pubbliche del Nord Italia per seppellire i feti abortiti nei cimiteri comunali. A Roma invece sta prendendo piede Citizen Go, il movimento antiabortista importato dalla Spagna, che mesi fa aveva tappezzato la capitale di manifesti con una scritta violenta: «L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo». Il loro portavoce Filippo Savarese oggi inneggia su Facebook alle parole del Papa. Da sempre usa toni apocalittici: «La legge 194 doveva fermare e non incentivare l’aborto come invece è accaduto. Questa legge va superata. L’aborto era e resta un crimine».
Ha collaborato Chiara Baldi

il manifesto 11.10.18
Boccia: «Un Pd aperto e alleato ai 5 stelle. Chi dice no preferisce la destra?»
Intervista al deputato Pd. Il candidato alle primarie: «La rottamazione ha fallito, ora chi è uscito torni, ma anche Prodi, Bonino, Vendola e Tabacci. Manovra, Di Maio e Salvini incoscienti, si fermino prima del baratro»
di Daniela Preziosi


Francesco Boccia, per il presidente Emiliano (nella cui area milita, ndr) la manovra di Lega e 5 stelle è di sinistra. È di sinistra?
No. Intanto la manovra non c’è, l’ho detto a Michele, fin qui parliamo della cornice. Della cornice è convincente l’attenzione alle povertà e l’utilizzo di una parte del deficit, diventa incoerente e dannosa quando tutte le risorse a debito non producono investimenti e lavoro. Se i debiti che carichi sugli italiani si trasformano in prebende elettorali, il risultato se va bene è vincere un’elezione, come è successo a Renzi alle europee 2014. Ma poi quei soldi diventano doping. Lo dicevo già allora.
Se si votasse per parti separate?
Direi no alla flat tax, sì a quota 100 aggiustandola. E sì al reddito di cittadinanza ma con pesanti modifiche: rischiano di fare un pasticcio. Oggi gli italiani sanno di avere un sistema di welfare locale e regionale: case popolari, diritto allo studio, libri gratis, trasporto gratuito, voucher e forme di sostegno alle famiglie. Tutto questo costa 4 miliardi e mezzo l’anno, pagati da regioni e comune. I 7-8 miliardi destinati del reddito si sommano o no? Se fossero sostitutivi sarebbe il gioco delle tre carte. È tema prioritario, ma non mi risponde nessuno.
L’Italia è in pericolo? Sta per scattare una procedura di infrazione della Ue?
Il pericolo è perché la sinistra non è stata all’altezza dei padri fondatori, non abbiamo fermato i conservatori e i popolari, e il risultato è che alcuni di noi – non io – si sono ritrovati a difendere l’Europa di Juncker e Merkel. Ora dobbiamo far capire a questi due incoscienti di Salvini e Di Maio che devono fermarsi, altrimenti nel burrone ci andiamo tutti.
Lei si candida alle primarie Pd. E a differenza degli altri in corsa propone il dialogo con M5S. Martina esclude ogni alleanza.
Ricordo al mio amico Martina, che ringrazio per il lavoro difficile di questi mesi, che la legge proporzionale l’hanno voluta loro, i lancieri della rottamazione. Io ero contrario. Ma se fai un proporzionale devi allearti. E se togli 5 stelle, resta la Lega. O Forza italia, se sopravvive. Con chi vogliono allearsi? Se dicono con nessuno sono ipocriti. Fra la destra e M5S scelgo M5S, con tutti i limiti che hanno: ministri impresentabili come Toninelli. E atteggiamenti ingiustificabili: Fraccaro ha detto sciocchezze contro l’Ufficio parlamentare di bilancio, uno scivolone istituzionale, dovrebbe scusarsi.
Chiede a chi è uscito dal Pd di tornare. È un appello a Bersani e D’Alema?
Faccio appello a 3milioni di elettori che ci hanno voltato le spalle. Se facessi un appello ai singoli ne tornerebbe una parte minima, visti i risultati elettorali. Nella mia idea di partito «a porte aperte» ci deve essere Civati, Prodi, Vendola, Bonino, Bersani e Tabacci. È il partito che sottintendeva l’idea storica dell’Ulivo. A tutti dico di partecipare anziché restare a guardare. Con coraggio, aiutateci a riaprire la casa.
A proposito di partito aperto: la capogruppo Pd di Verona che vota prolife va espulsa?
Sono contro il suo gesto e le sue idee. Ma noi non espelliamo i corrotti e poi facciamo vedere i muscoli con una signora in totale minoranza nel Pd? Poi, forse, milita nel partito sbagliato: il diritto all’aborto per noi non è negoziabile.
Per Roberto Giachetti le battaglie «antiPd» di Emiliano e sue sono «intollerabili».
Giachetti è un amico, lo aiuto a ricordare le sue battaglie di minoranza con Bersani segretario. Se Renzi ci avesse ascoltati sulle banche, sulla scuola e sulle trivelle non avremmo fatto delle sciocchezze. Roberto dovrebbe dire: la prossima volta ascoltiamoli di più quelli che non la pensano come noi.
Si considera il candidato più di sinistra?
Quando anche quelli che si ritengono di sinistra avranno un approccio laico alla società e si accorgeranno che le mie posizioni sono più a sinistra di tutti. Per me la ridistribuzione al tempo del capitalismo digitale è un dogma. Non vado a braccetto con i capitalisti digitali nemmeno se sono fighi e hanno le magliette trendy, come Zuckeberg, Bezos e Tim Cook. A cui direi: parli con me solo dopo che hai pagato le tasse. Per questo vado nei mercati rionali: lì c’è la nostra vita.
Minniti è il padre delle politiche di Salvini?
No, il suo è stato un tentativo di controllo dell’immigrazione in un momento delicato. Ma dire che erano politiche di destra è sbagliato.
Zingaretti è sostenuto da Gentiloni. Lo invidia?
Paolo è un amico, nessuna invidia. Ma questo congresso serve a dirsi tutta la verità. Dobbiamo dirci che la rottamazione ha fatto cambiare in peggio il Pd, il centrosinistra e il paese. E nessuno può far finta di non esserci stato.
Perché no lei con Zingaretti?
Non ho capito la sua proposta e come intende andare oltre il renzismo.
Lei è nato alla politica con Prodi, ora spera in un gesto del professore?
Lo conosco bene e non lo tirerò per la giacca. Però mi piacerebbe che presto dicesse che non vive più in esilio in una tenda, che è tornato a casa.

Corriere 11.10.18
Il Pci non tradì il popolo
di Emanuele Macaluso


Caro direttore, Ernesto Galli della Loggia è un mio amico, conosco le sue idee sul Pci, anche perché ha partecipato alla presentazione di miei libri sulla storia del partito. Tuttavia devo dire che il suo editoriale di lunedì scorso (8 ottobre) – «La sinistra e il popolo tradito» – mi ha stupito per quel che Ernesto ha scritto sulla vicenda politica del Pci e anche su ciò che ha sostenuto sulla storia delle socialdemocrazie europee.
Ha scritto della Loggia: «Il Partito comunista non ha mai voluto essere un partito popolare, tipo il Partito laburista o la Spd tedesca», partiti «spesso guidati non a caso anche da leader usciti dagli strati popolari». E ancora: «Il Pci nacque come partito di avanguardie rivoluzionarie, perlopiù intellettuali, le quali verso il popolo come tale e verso il suo universo nutrivano una notevole diffidenza». Di più: «Nei confronti della stessa classe operaia quelle avanguardie si ponevano in un ruolo superiore di guida».
Caro Ernesto, la tua analisi non regge di fronte ai fatti. Innanzitutto, i partiti socialdemocratici europei sono stati fondati e diretti da intellettuali. Karl Marx diresse la I Internazionale e l’austromarxismo è stato la base politico-elettorale della socialdemocrazia tedesca. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e il passaggio di Bad Godesberg, l’intellettuale Willy Brandt divenne capo della socialdemocrazia e presidente dell’Internazionale socialista. E nel Partito laburista la storia fu la stessa. In Italia, Turati, Modigliani, Prampolini e altri erano intellettuali e, dopo la Liberazione, ricordo che ci fu l’intellettuale Saragat.
Il Pci nacque, come scrivi, dal gruppo dell’Ordine Nuovo: Togliatti, Terracini, Tasca erano intellettuali ma penso soprattutto a Gramsci che aveva avuto un organico rapporto con il popolo. Ma l’Ordine Nuovo nacque dall’esperienza dei consigli di fabbrica a Torino e quegli operai si chiamavano Roveda, Parodi, Comollo, Amoretti, per citarne alcuni, che poi, dopo la Liberazione, furono dirigenti del partito. Anche il gruppo meridionale di Bordiga, soprattutto a Napoli, si formò su importanti adesioni operaie.
Caro Ernesto, io ho aderito al Pci clandestino nel 1941 e non avevo letto Marx. Mio padre era manovale nelle Ferrovie e ho vissuto nei quartieri degli zolfatari (i miei nonni lavoravano nelle miniere) e furono la questione sociale e l’antifascismo a spingermi verso il Pci. E non sono stato di certo un’eccezione; tanti dirigenti del Pci venivano da una storia che, dopo la Liberazione, intrecciava le lotte contadine ed operaie con le battaglie per le prime ed essenziali conquiste sociali. Si era con il popolo e il suo modo di essere. Tu ricordi Bruno Trentin, intellettuale e segretario della Cgil negli Anni Ottanta. Ma Trentin era nella Cgil con Di Vittorio, Bitossi, Parodi, Roveda, Novella, tutti di origine operaia: dopo Lama e l’operaio Pizzinato fu segretario della Cgil e, in precedenza, anche della Fiom, con una grande capacità di legame, non solo con la «classe» ma con singoli operai. Le testimonianze sono tante.
Ernesto, tu scrivi che «dopo il 1989 il nome comunista è diventato impresentabile, il Pci ha preferito cambiarlo chiamandosi “di sinistra” e poi “democratico” ma dio ne scampi, giammai socialista o socialdemocratico». Ma quale Pci? Il Pci, dopo il 1989-90 non c’è più e tu dimentichi che Pajetta, Natta, Ingrao, Tortorella, Cossutta, Garavini e molti altri non vollero chiamarsi «democratici di sinistra», ma ancora comunisti. E Napolitano, Bufalini, Chiaromonte, Cervetti, Rubbi e il sottoscritto (anche con tanlo stile non era «popolare»
di Ernesto Galli della Loggia
Ca ro Emanuele, ti ringrazio di cuore per aver ricordato la nostra amicizia e per le tue osservazioni, che mi consentono, rispondendo, di cercare di fugare alcune perplessità che il mio articolo ha suscitato anche in altri lettori.
Quando dico «partito popolare» dobbiamo intenderci. È ovvio, come tu sottolinei, che all’origine di tutti i partiti socialisti europei (farei qualche riserva per il Labour Party) ci sono state figure di intellettuali e in essi hanno militato degli intellettuali veri e propri che talvolta ne sono stati anche ai vertici. Ma ciò che conta è il «tono», l’«humus» che ha caratterizzato la vita dei quadri e della dirigenza di tali partiti. Ciò che conta è, per così dire, il tratto dominante che caratterizza l’ambiente della leadership, il suo «stile» di vita, l’abbigliamento, gli svaghi, i matrimoni, il modo di vestirsi e di parlare, le sue frequentazioni abituali. Questo alla fine conta molto, molto di più che non la specifica origine sociale di questo o quel dirigente.
Se dunque è vero come tu dici portando l’esempio di te stesso che al vertice del Pci troviamo storicamente non pochi individui di origine popolare (ma fino a quando? mi pare anche dai nomi che fai, che dalla metà degli anni 60 del Novecento siano davvero pochissimi), mi sembra ancora più vero che almeno dal 1944 in avanti, magister supremo Togliatti, il tratto dominante, lo stile di vita e l’autorappresentazione del gruppo dirigente comunista non fu davvero un tratto lontanamente definibile come «popolare» e certamente neppure piccolo-borghese – come invece fu certamente quello che molto a lungo aveva distinto i vertici dell’Spd e del Partito laburista – bensì un tratto di tipo schiettamente borghese-intellettuale. Un modello a cui era sottinteso che dovessero adeguarsi, o al quale comunque erano spontaneamente portati ad adeguarsi, tutti coloro che pur di diversa origine sociale volevano arrivare in alto attraverso la cooptazione. Il che non vuol dire, naturalmente, che chiunque potesse tranquillamente avere quanti amici operai volesse: ci mancherebbe altro!
Quanto alla questione della scelta del nome dopo l’89, condivido la tua ricostruzione, caro Emanuele. Ma sta di fatto che la maggioranza di quello che era stato il Pci scelse il nome che sappiamo: dove la parola socialismo non c’era.ti giovani) aderirono alla «svolta» di Occhetto ma proposero la definizione di «Partito del socialismo europeo». Cos’è il Pci di cui parli senza quelli che continuarono a chiamarsi comunisti e senza di noi riformisti? Certo, su un punto hai ragione: la fine dei partiti del dopoguerra e della Costituzione ha lasciato un vuoto che, a mio avviso, dura da 30 anni. E nel vuoto oggi, come dici, parte del popolo si identifica con la felpa di Salvini e gli arditi congiuntivi di Di Maio. E la responsabilità di questo vuoto è, in buona parte, di quel gruppo di ex Pci, che dal Pds al Pd hanno interpretato la «sinistra». Ma questo è un altro discorso.

Coriere 11.10.18
Lo stile non era «popolare»
di Ernesto Galli della Loggia


Caro Emanuele, ti ringrazio di cuore per aver ricordato la nostra amicizia e per le tue osservazioni, che mi consentono, rispondendo, di cercare di fugare alcune perplessità che il mio articolo ha suscitato anche in altri lettori.
Quando dico «partito popolare» dobbiamo intenderci. È ovvio, come tu sottolinei, che all’origine di tutti i partiti socialisti europei (farei qualche riserva per il Labour Party) ci sono state figure di intellettuali e in essi hanno militato degli intellettuali veri e propri che talvolta ne sono stati anche ai vertici. Ma ciò che conta è il «tono», l’«humus» che ha caratterizzato la vita dei quadri e della dirigenza di tali partiti. Ciò che conta è, per così dire, il tratto dominante che caratterizza l’ambiente della leadership, il suo «stile» di vita, l’abbigliamento, gli svaghi, i matrimoni, il modo di vestirsi e di parlare, le sue frequentazioni abituali. Questo alla fine conta molto, molto di più che non la specifica origine sociale di questo o quel dirigente.
Se dunque è vero come tu dici portando l’esempio di te stesso che al vertice del Pci troviamo storicamente non pochi individui di origine popolare (ma fino a quando? mi pare anche dai nomi che fai, che dalla metà degli anni 60 del Novecento siano davvero pochissimi), mi sembra ancora più vero che almeno dal 1944 in avanti, magister supremo Togliatti, il tratto dominante, lo stile di vita e l’autorappresentazione del gruppo dirigente comunista non fu davvero un tratto lontanamente definibile come «popolare» e certamente neppure piccolo-borghese – come invece fu certamente quello che molto a lungo aveva distinto i vertici dell’Spd e del Partito laburista – bensì un tratto di tipo schiettamente borghese-intellettuale. Un modello a cui era sottinteso che dovessero adeguarsi, o al quale comunque erano spontaneamente portati ad adeguarsi, tutti coloro che pur di diversa origine sociale volevano arrivare in alto attraverso la cooptazione. Il che non vuol dire, naturalmente, che chiunque potesse tranquillamente avere quanti amici operai volesse: ci mancherebbe altro!
Quanto alla questione della scelta del nome dopo l’89, condivido la tua ricostruzione, caro Emanuele. Ma sta di fatto che la maggioranza di quello che era stato il Pci scelse il nome che sappiamo: dove la parola socialismo non c’era.

Il Fatto 11.10.18
Il commissario Ue Vladimir Ilic Lenin e il soviet di via Solferino
di Marco Palombi


Noi, lo dobbiamo ammettere, siamo avidi lettori dell’organo del proletariato noto come Corriere della Sera che ieri, com’è sua abitudine, ci ha spiegato l’attuale situazione ricorrendo a un antico detto di Lenin: “Compagna – disse Vladimir Ilic ad Angelica Balabanoff – ti ha mai colpito il fatto che l’Italia non ha carbone?”. Ci spiega il compagno giornalista che “il messaggio è chiaro: l’Italia la rivoluzione non la può fare, perché non ha il carbone”. Il carbone oggi, è la tesi, sono i mercati finanziari: “Ed è un’ironia che il rivoluzionario più fanatico della storia dovesse ricordare agli italiani lo stesso principio di realtà che oggi è l’Unione europea a rappresentare: quali che siano gli orientamenti della massa dei disoccupati e di coloro che si sentono defraudati del futuro, non c’è alternativa”. Ed è un’ironia ancora maggiore, diciamo così, reclutare “il rivoluzionario più fanatico” alla causa del Tina (there is no alternative) e dello status quo come un Moscovici qualunque. Per le prossime puntate, suggeriamo al foglio dei soviet di via Solferino ulteriori riflessioni attorno ad altre sentenze del suo rivoluzionario di riferimento. Tipo: “Gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari”. Oppure, restando al there is no alternative, “per fare una frittata bisogna rompere qualche uovo”. E qui, già che siamo ai fornelli, interrogarsi su una bizzarra omissione di Lenin: se “il cuoco deve imparare a governare lo Stato”, che faranno i camerieri?

Corriere11.10.18
«Un fronte dalla sinistra ai liberali Alle Europee con Gentiloni leader»
di Federico Fubini


Calenda: l’Italia è nel caos, al governo soltanto slogan e incompetenza
Carlo Calenda a 45 anni debutta oggi in libreria con «Orizzonti selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio» (Feltrinelli). Non il diario di un’esperienza, come capita a molte figure di governo dopo la scadenza di un mandato. Calenda racconta i passaggi chiave dei suoi anni da ministro dello Sviluppo, ma in una cornice più ampia: quella dell’impatto anche sociale e psicologico delle trasformazioni dell’economia nell’ultimo trentennio e le ragioni per cui la sua parte — quella dei progressisti — sta perdendo la battaglia per la democrazia che si sta combattendo in tutto l’Occidente.
Calenda, i governi pd hanno visto un netto peggioramento del deficit al netto degli interessi, una ripresa eppure un aumento dei poveri. Dove avete sbagliato?
«In primo luogo, abbiamo il Paese in sicurezza e nelle regole. Abbiamo fatto ripartire l’economia, favorendo gli investimenti, l’export, la ricerca e tagliando le tasse sulle imprese, ma non dimenticando chi resta indietro. Da ministro ho cercato di farlo con Industria 4.0 ma seguendo le crisi aziendali di Alcoa, Ilva, dei call center o delle acciaierie di Piombino. Ma questa seconda parte è rimasta quasi inavvertita travolta da una narrazione motivazionale e ottimistica. Il ritardo sul Reddito d’inclusione e il fallimento della buona scuola sono stati poi gravi errori».
Perché, a suo avviso?
«Abbiamo pensato, come tutti i progressisti in Occidente, che i numeri della ripresa fossero tutto. E lì abbiamo perso contatto con il Paese. Perché se l’export fa i record, ma anche il numero dei poveri fa i record il Paese è ancora lontano dall’essere al sicuro».
Nel frattempo il Paese sembra aver perso la sua tenuta finanziaria. Che impressione le fa?
«La cosa più preoccupante non è il deficit, ma il caos. Preoccupa come siamo arrivati a questi obiettivi di finanza pubblica: in maniera menzognera, con l’idea superficiale di poter ingannare i mercati o l’Unione europea. Ciò che mi preoccupa di più è che il Paese va avanti a slogan ma è fuori controllo, non governato. Ci stanno esponendo al pubblico ludibrio, un grande Paese non si comporta così, il rischio è vicino e mortale».
Se ha ragione lei, perché a suo avviso?
«In primo luogo per incompetenza: Luigi Di Maio e Matteo Salvini non hanno mai gestito niente nella loro vita. Sono arrivati al governo senza quel minimo di umiltà che serve per imparare».
Le sue parole non sono un insulto alla maggioranza degli italiani, che sperano nei nuovi leader?
«E perché? Gli italiani hanno votato per chi sentivano più vicino alle loro paure legittime, quelle sul futuro e sul presente ed è dove noi abbiamo clamorosamente sbagliato. Non penso che la competenza possa sostituire la rappresentanza ma neanche che chi rappresenta un paese possa far a meno di imparare e di avvalersi delle competenze altrui. Un livello di arroganza senza precedenti».
Ora come vi riprendete voi del centrosinistra?
«Definendo insieme un programma per una democrazia progressista. Che abbia al centro il potenziamento dell’uomo attraverso un massiccio investimento su cultura e competenze e uno Stato forte ma non pervasivo nel proteggere e investire. Un Paese in cui l’analfabetismo funzionale è al 28% non ha ne futuro ne presente. Questo deve essere il nostro New Deal».
Ma in concreto?
«C’è bisogno di un grande lavoro sulla pubblica amministrazione, perché la buona gestione è cento volte più importante di qualunque riforma. E una politica economica che miri alla crescita tramite gli investimenti, ma agendo immediatamente sulle diseguaglianze. Serve un ribaltamento di prospettiva: se non cresce la società nel suo complesso anche con il Pil positivo e un milione di posti di lavoro perdi le elezioni».
È il suo programma per le Europee?
«Il programma è nel libro. Diciamo che questo sicuramente vuol dire andare alle Europee con un fronte più ampio promosso anche dal Pd, ma che includa parti della società civile e figure rappresentative della sinistra, fino ai liberali, e i movimenti civici. Un modo che ha molto più in comune di quanto ne abbia con Di Maio o Salvini».
Chi vede come leader?
«Dev’essere guidato da Paolo Gentiloni, che si deve candidare alle europee e presto, spero. In rappresentanza di un mondo che ripensa la democrazia liberale per preservarla, contro quelli che ci vogliono portare fuori dall’Occidente e dall’Europa. In un progetto del genere sarei disposto partecipare».

Repubblica 11.10.18
L’orizzonte selvaggio di Calenda "Oltre il Pd, non dà più risposte"
L’ex ministro descrive un’Italia "fragile e confusa". "Dobbiamo dare rappresentanza a chi oggi è impaurito"
di Sergio Rizzo


Carlo Calenda è sicuro che non ci sia affatto da stare allegri: «Stanno assottigliando il ghiaccio sotto i nostri piedi. L’Italia non è in sicurezza.
Eppure non si scorgono segni di allarme tra la maggioranza dei cittadini». Lo scrive nella pagina più dura e preoccupata del suo libro Orizzonti selvaggi, in uscita oggi per Feltrinelli. Un libro che descrive un Paese, l’Italia, «fragile e confuso». Dove il combinato disposto di ciò che sta accadendo fa «correre oggi un grave rischio» con un governo espressione di due partiti che «vogliono demolire la democrazia liberale per sostituirla rispettivamente con una democrazia (apparentemente) diretta, nel caso del M5S, o illiberale, nel caso della Lega».
Opinione forse decisamente scontata, per un iscritto al Pd che vede l’esecutivo Salvini-Di Maio come il fumo negli occhi.
Se non fosse che nella sinistra Calenda è sempre stato un personaggio scomodo. Non tanto per la provenienza (ha lavorato anche in Confindustria e si è candidato nel 2013 con Scelta civica di Mario Monti), quanto per la franchezza. Matteo Renzi lo viveva come un concorrente che gli voleva fare le scarpe, e gli antirenziani come un abusivo emissario di Montezemolo. Lui l’ha sempre saputo, ma non per questo si è fatto crescere i peli sulla lingua. E siccome negli ultimi cinque anni l’ex ministro dello Sviluppo economico non è stato alla finestra a osservare il Paese che imboccava questa deriva, qui ci spiega come (secondo lui) sia stato possibile arrivare fino a questo. Con il Partito democratico a brandelli, dopo che l’Italia governata dal centrosinistra aveva ridotto il deficit pubblico e la disoccupazione, riprendendo a crescere, con l’export a livelli record e un numero di riforme sociali senza precedenti.
La sua versione: «A un certo punto abbiamo dato l’idea di non avere più un progetto per l’Italia ma solo per la conquista e il mantenimento del potere. Il Jobs act, la gestione delle migrazioni, i salvataggi delle banche hanno determinato una profonda reazione negativa da parte dei cittadini». E poi «la decisione del Pd di non appoggiare apertamente Paolo Gentiloni come candidato presidente del Consiglio, il varo di liste elettorali di scarsa qualità (...) e soprattutto nessun progetto organico per il futuro, hanno contribuito a determinare il disastroso risultato elettorale». Il libro non risparmia neppure gli effetti del «fuoco amico di una parte del Pd», quella che ha fatto la scissione: «Comunisti fino all’ultima pietra del Muro di Berlino, blairiani il giorno dopo, populisti negli ultimi tre anni per opporsi a un governo guidato dal loro partito, la capacità camaleontica degli ex leader provenienti dal Pci ha finalmente disgustato la stragrande maggioranza degli elettori di sinistra».
Calenda si è iscritto al Pd il giorno dopo il tracollo del 4 marzo. E ora confessa di aver vissuto «un’esperienza deludente e frustrante. Il Pd è diventato una stanza di compensazione di interessi e rancori dove si litiga in pubblico e si fanno accordi al ribasso in privato. Nessuna elaborazione ideale, forza di mobilitazione, capacità di coinvolgimento può nascere in questo contesto. Qualsiasi tentativo di rianimarlo è di conseguenza miseramente fallito.
La proposta di una segreteria costituente, un nuovo manifesto per i progressisti, la richiesta di un congresso immediato, tutto è caduto nel vuoto. È mia profonda convinzione che davanti al rischio mortale che il nostro Paese corre, il Pd non possa più produrre una risposta credibile». Un pezzo del partito, prevede Calenda, continuerà a cercare «un’alleanza impossibile e nefasta con il M5S nella speranza di poterlo addomesticare». Un altro pezzo, invece, «cerca solo un’improbabile rivincita» in attesa «del terzo avvento di Renzi».
E allora? «Non è tempo di fondare partiti personali. Farò di tutto per evitarlo. Spero che faccia lo stesso chi ha avuto le maggiori responsabilità alla guida del Partito democratico e del Paese negli ultimi anni». Perché, scrive Calenda, «non possiamo permetterci ulteriori fratture nell’area progressista», che ha bisogno di «un luogo diverso» per dare finalmente «rappresentanza all’Italia che ha paura» e «per ricominciare il cammino insieme ai cittadini che sentono la necessità di opporsi a un governo incapace e illiberale». Il tempo, avverte, «è poco. Le elezioni europee, e personalmente credo anche quelle politiche, sono vicine».

il manifesto 11.10.18
Potere al popolo approva lo statuto
Sinistra. Al voto online il 55% degli utenti attivi, ma pesa la rottura con Rifondazione che aveva ritirato una proposta alternativa e adesso dice di non riconoscere il risultato
di Adriana Pollice


Martedì alle 22 si sono chiuse le votazioni per lo statuto di Potere al popolo.
Si trattava di scegliere tra lo statuto 1 – proposto dall’Ex Opg Je so’ pazzo ed Eurostop, appoggiato dai due terzi del coordinamento – e lo statuto 2 – proposto da Rifondazione comunista e dal Partito del Sud, ma ritirato dai dirigenti del Prc con una nota molto dura, che invitava a «non partecipare a una consultazione per la quale mancano i requisiti minimi di agibilità democratica». Dei poco più che 9.300 tesserati, 7.276 hanno attivato l’account per votare: tra sabato mattina e martedì sera in 4.041 lo hanno poi fatto, cioè il 55,5% degli utenti attivi.
La vittoria è andata allo statuto 1 con 3.332 preferenze; lo statuto 2 è stato scelto da 358 iscritti. Sulla piattaforma era anche possibile esprimere astensione o disapprovazione: 198 hanno disapprovato lo statuto 1; 2.183 hanno disapprovato il 2.
Le mozioni contrapposte fotografano idee differenti del percorso che dovrebbe fare Pap.
Il Prc vorrebbe un movimento che contiene realtà organizzate differenti, con un loro peso individuale e una dirigenza che orienta le scelte in base alla delega. L’Ex Opg ed Eurostop spingono per un soggetto politico unitario e autonomo con una base che decide a maggioranza.
Lo scontro è andato avanti per mesi, a settembre c’è stato un primo strappo: l’Ex Opg sui social ha accusato la controparte di organizzare «truppe cammellate» al voto.
Poi venerdì il ritiro dello statuto da parte del Prc, la maggioranza del coordinamento l’ha messo ugualmente in votazione: «È passato attraverso le assemblee territoriali che lo hanno anche emendato. È stato proposto da Rifondazione ma non è una sua proprietà».
La piattaforma utilizzata è gestita da un’azienda tedesca, quaranta call center «militanti» da Nord a Sud della penisola hanno supportato chi aveva difficoltà a utilizzare il sito.
Dall’Ex Opg sono soddisfatti: «I 5S contano circa 100mila iscritti sulla piattaforma online, al voto sul contratto di governo a metà maggio hanno partecipato in 44.796, meno della metà. Podemos conta poco più di 507mila iscritti, alla votazione per la dirigenza a febbraio 2017 hanno partecipato in 155mila. Se consideriamo che si tratta di meccanismi relativamente nuovi, ci sembra che la risposta sia positiva e ci autorizzi ad andare avanti. Dobbiamo partire con le campagne politiche d’autunno».
La road map, stilata prima della rottura con il Prc, prevede l’assemblea nazionale a Roma il 20 e 21 ottobre con ratifica del voto e presentazione dei candidati al coordinamento nazionale e ai ruoli di portavoce.
Lo statuto viene adottato in forma sperimentale per essere poi sottoposto alla verifica degli aderenti e delle assemblee territoriali a ottobre del 2019.
Dal Prc però contestano il voto: «La maggioranza degli iscritti non ha partecipato, lo statuto 1 rappresenta poco più di un terzo degli aventi diritto. Ora che “il popolo” si è espresso, i prepotenti che hanno cercato lo scontro, imponendo una conta assurda, impedendo una competizione paritaria nella comunicazione, passando poi alle offese, avrebbero il dovere di fare un gesto di umiltà e azzerare tutto. Per noi questo statuto non è stato approvato. Chi andrà avanti non potrà dire di rappresentare Potere al popolo».
La dirigenza del Prc è incalzata da una parte del suo stesso partito: 200 dirigenti sabato scorso a Firenze hanno sottoscritto un documento in cui chiedono di uscire da Pap.
La divaricazione tra Ex Opg ed Eurostop da un lato e Prc da un altro porterà alla rottura, il nodo sarà la modalità: Rifondazione, infatti, potrebbe bloccare l’utilizzo del simbolo.

il manifesto 11.10.18
Le leggi razziali e l’indifferenza che uccide
Al cinema. «1938 - Diversi», il documentario di Giorgio Treves sulla sulla storia esemplare e odiosa dell'introduzione per legge del razzismo in Italia
di Antonello Catacchio


Era il 18 settembre 1938 quando un Mussolini tonitruante, annunciava in piazza Unità a Trieste l’introduzione delle leggi razziali in Italia. Qualche «scienziato» gli aveva già fornito giustificazioni, il resto era frutto di calcolo politico e razzismo demente, malattia diffusa ancora oggi come ha avuto modo di sottolineare Umberto Eco in Il fascismo eterno ( Nave di Teseo). Così gli italiani di origine ebraica si erano ritrovati espulsi dalla società. Tutto perso, beni, lavoro, libertà e per moltissimi la vita stessa.
Lo racconta Giorgio Treves nel documentario 1938 – Diversi. Storia esemplare e odiosa, anche perché alcuni ebrei italiani avevano convintamente aderito al fascismo, e mai avrebbero pensato di essere prima discriminati e poi mandati nei campi di sterminio. Treves racconta, documenta e parte da lontano, per esempio dalla Mole Antonelliana, ora sede del museo del cinema, originariamente nata per diventare un tempio ebraico. Mentre Liliana Segre, milanese, senatrice a vita, ma soprattutto sopravvissuta ad Auschwitz, ricorda l’orrore del binario 21, della stazione centrale di Milano dal quale partivano i convogli per i campi di sterminio, ma ricorda soprattutto l’indifferenza diffusa . Perché l’indifferenza può uccidere.

Intervista
Emma Bonino
"Il decreto sicurezza di Salvini? Sarà un boomerang aumenterà gli irregolari"
di Giovanna Casadio


ROMA «Il decreto sicurezza di Salvini è contro il buonsenso, aumenta gli irregolari, avrà un effetto boomerang. E viola le direttive europee». Emma Bonino, la leader radicale e europeista, va all’attacco e lancia l’allarme: «Di questo passo, i problemi migratori diventeranno ingovernabili».
Bonino, è possibile palleggiarsi i migranti per affari politici interni a ciascun Paese?
«È possibile, come è evidente, ma non è utile, in particolar modo per i Paesi che sono più esposti ai flussi di ingresso, o come porta, nel caso dell’Italia, o come meta, nel caso della Germania. In assenza di cooperazione tra gli stati membri, il Trattato Dublino non si può riformare, come chiede l’Italia, ma neppure applicare, come vorrebbe la Germania. Fuori da una logica europea e da una corrispondente autorità comune, i problemi migratori diventeranno ingovernabili».
È una strada percorribile quella di chiudere gli aeroporti ai charter con i migranti che la Germania vuole rimandare, come ha minacciato Salvini?
«Ovviamente non è percorribile, non solo perché è ingiusta, ma perché non è sostenibile. L’effetto a cascata sarebbe rovinoso sull’intero traffico aereo nazionale e internazionale. Quando l’Austria minacciò di chiudere la frontiera con l’Italia come risposta alla chiusura della frontiera tedesca, l’Italia ovviamente protestò. Salvini, Strache e Seehofer sono alleati. Ma nei fatti passano il tempo a minacciarsi reciprocamente il blocco delle frontiere terrestri e aeree».
Tuttavia c’è un cortocircuito europeo a partire dall’immigrazione, per non parlare della questione conti, che mina l’Unione. Lei pensa che l’Europa rischi di saltare?
«Farla saltare è un progetto dichiarato sia dalla Lega che dal M5S e perseguito da un fronte che va da Bannon a Putin. Se prevalgono le istanze nazionalistiche la fine della costruzione europea potrebbe essere la conseguenza inevitabile.
L’Ue è una costruzione politica, come è stata fatta dalla lungimiranza degli statisti, da De Gasperi a Kohl, può essere disfatta dalla miopia degli arruffapopoli, da Orban a Salvini».
Le europee di maggio saranno una resa dei conti tra sovranisti ed europeisti? Il suo Movimento +Europa correrà da solo?
«Abbiamo detto prima di altri che lo scontro politico sarebbe diventato brutalmente quello Europa/non Europa. E lo facevamo quando tutti, compreso il Pd, promettevano una resa dei conti con Bruxelles. Non mi convince l’idea di usare il logo "europeista" come un mero contenitore, a maggior ragione in una elezione proporzionale. Per le elezioni europee siamo impegnati a costruire con +Europa una piattaforma aperta che ha come riferimento l’Alde, guarda con interesse all’europeismo di Macron, pur con le sue difficoltà. Una proposta alternativa ai nazionalisti e al Ppe, ma distinta da quella del Pse, che resta l’opzione principale del Pd. In ogni caso deciderà a gennaio il congresso di +Europa».
Vede una deriva xenofoba che invece di essere combattuta raccoglie consensi?
«Non si può non vedere. Sono venute meno inibizioni culturali. Il politicamente scorretto, cioè il ricorso alla denigrazione e alla diffamazione per ragioni etnico-razziali, è diventato un nuovo conformismo, quasi un senso comune. La cosa più grave, oggi, non è che la xenofobia e il razzismo tornino a diffondersi massicciamente, ma che siano politicamente legittimati e culturalmente riconosciuti».
Per il sindaco di Riace Mimmo Lucano è partita una mobilitazione spontanea.
«Non voglio pronunciarmi sulla vicenda giudiziaria. Ma il suo modello ha funzionato perché ha trasformato un paese spopolato e destinato a morire, in un posto nuovamente vitale, grazie all’accoglienza. Per questo il caso Riace fa impazzire i populisti: perché funziona».

La Stampa 11.10.18
Il voto di Midterm sarà deciso dalle donne
Il futuro della politica globale è femminile
di David Thorne


Sono cresciuto in Italia e negli Stati Uniti, in un sistema politico e in un ordine mondiale plasmati da uomini di potere, ma oggi sto assistendo a una rivoluzionaria transizione che trasformerà radicalmente la politica e l’economia globali: le donne stanno emergendo ovunque, come influente forza economica e politica. Una combinazione di attivismo, rabbia, ricambio generazionale e calo demografico ha creato un potente cocktail; il discorso a lungo termine non è se movimenti globali come #MeToo e #TimesUp trascineranno nella polvere uomini potenti a decine negli Stati Uniti, ma se permetteranno a milioni di donne in tutto il mondo di arrivare a conquistare posti di potere nel governo e negli affari.
I fatti, non la retorica
Tutti gli indicatori disegnano uno scenario in cui le donne avranno un impatto determinante nel cambiare la politica e il potere così come li conosciamo, e il prossimo banco di prova sarà il 6 novembre 2018 con le elezioni americane di metà mandato. I fatti, non la retorica, raccontano il montare di una marea politica. Nel 1985, quando il futuro segretario di Stato John Kerry, mio amico e cognato, fu eletto al Senato degli Stati Uniti, tra i suoi 99 colleghi, solo due erano donne. Ancora oggi, le donne detengono meno di un quinto dei 435 seggi che compongono la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, nonostante rappresentino normalmente più della metà dell’elettorato nel voto federale. Ma le cose stanno cambiando. Un numero record di candidati al Congresso quest’anno sono donne - oltre 200. Si aggiunga questo al maggior numero mai registrato nella storia americana di vittorie di candidate nelle primarie per il Congresso.
Le sfidanti fanno notizia
Quest’anno alle primarie dei democratici per i posti vacanti - là dove erano in lizza almeno un uomo e una donna - le candidate hanno trionfato quasi nel 70% dei casi.
Più di un nominato su cinque tra i candidati al Congresso corre per un posto vacante, sono quelli che più probabilmente passeranno di mano in un sistema ancora dominato dai vincitori delle elezioni, ma anche nel confronto diretto con popolari candidati di sesso maschile, le sfidanti hanno fatto notizia: due hanno vinto le primarie nello Stato di New York e nel mio stato di residenza, il Massachusetts, dominando nettamente confronti del tipo «Danielle contro Golia». Perché? È semplice: il presidente Donald Trump, con la sua ostilità verso il voto femminile, ha galvanizzato un movimento politico sorprendentemente latitante nel 2016, quando l’America ha scelto la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti, che ha guadagnato oltre tre milioni in più nel voto popolare, ma non ha vinto il collegio elettorale.
A partire dai cortei di donne in tutta la nazione nel giorno della cerimonia di insediamento del presidente Trump, l’impennata del voto femminile ha portato i democratici alla vittoria nel voto per il governatore in Virginia e nel New Jersey, e a una scioccante vittoria al Senato in Alabama, uno stato profondamente repubblicano.
L’intenzione degli elettori
Secondo i dati di un recente sondaggio il 60 per cento delle donne intervistate ha espresso l’intenzione di votare per i democratici all Congresso, e il 43 per cento ha dichiarato che l’avrebbe fatto in segno di protesta contro il presidente. Un divario di genere di 24 punti favorisce i candidati democratici. Il 40% delle donne afferma di essere «più entusiasta» del voto a novembre; alle ultime elezioni di metà mandato, solo il 14% delle donne aveva fatto un’affermazione del genere.
Votano anche con le borse e i portafogli: 329 mila donne hanno contribuito alle campagne elettorali, un numero che probabilmente raddoppierà le quasi 200 mila del 2014. Questo, ovviamente, rispecchia una tendenza di lungo termine: le donne americane decidono oltre il 70% dei consumi familiari e poiché con i millennial, che sono più solidali, rappresentano il maggiore segmento del mercato dei consumi, il potere economico delle donne si sta infine unendo al potere politico.
Qualsiasi elezione americana è volatile. Siamo famosi per le «sorprese di ottobre». Fino all’ultimo possono capitare eventi in grado di sovvertire i pronostici.
In effetti, la polemica sul candidato del presidente Trump per la Corte Suprema, il giudice Brett Kavanaugh, ha di fatto cambiato la dinamica politica generale; non è chiaro al momento se ne sia stata rinvigorita la moribonda base politica repubblicana, o se questo abbia solo ulteriormente galvanizzato le donne, convincendole a rompere con il Gop (i repubblicani).
Dopo il caso Kavanaugh
Ai partigiani conservatori che si rallegrano perché il senato repubblicano è riuscito a imporre di stretta misura la nomina di Kavanaugh nonostante le accuse di violenza sessuale, la storia passata potrebbe insegnare qualcosa.
Nelle elezioni del 1992, dopo che la nomina del giudice Clarence Thomas alla Corte Suprema fu approvata nonostante le accuse di molestie sessuali, uno tsunami politico cambiò il Senato: in quello che fu definito «l’anno della donna» il numero di senatrici democratiche triplicò. Ma non è solo la politica americana a venire trasformata dall’emergente potere politico femminile.
È una tendenza globale e lo si è visto il mese scorso alla 73a Assemblea generale delle Nazioni Unite. Quello delle leader donna è un gruppo in crescita per quantità, influenza e ambizioni planetarie. Nell’ultimo decennio il numero di donne presidenti e primi ministri tra gli Stati membri dell’Onu è raddoppiato.
Ci sono sempre più donne a rappresentare i loro Paesi, e sono agenti di cambiamento - combattono per politiche che diano voce in capitolo alle donne su questioni che vanno dalla parità sul lavoro al congedo parentale, alle politiche estere che privilegiano la diplomazia rispetto all’intervento militare.
Il futuro della politica globale è femminile. Resta da vedere se questa marea trasformerà la politica americana a novembre o nel prossimo futuro; ma potete scommetterci, stiamo assistendo a una svolta epocale che cambierà la storia degli ultimi tre quarti del ventunesimo secolo. Il 2018 potrebbe essere il vero «anno della donna». Anche se sono cresciuto in un mondo modellato da Dean Acheson (il segretario di Stato del presidente Truman, cui va accreditato di aver costruito l’ordine transatlantico, che alla fine ha vinto la Guerra Fredda) e dai «Tre saggi», in questa nuova era toccherà alle nostre figlie essere veramente «presenti alla creazione».
Traduzione di Carla Reschia

il manifesto 11.10.18
Erdan alla studentessa Usa: «Abiura il Bds se vuoi entrare in Israele»
Israele. Lara al Qassam è detenuta da oltre una settimana all'aeroporto di Tel Aviv. Per il ministro degli affari strategici fa parte del Bds il movimento per il boicottaggio di Israele. A sostegno della giovane esponenti della sinistra israeliana e l'Università ebraica dove è attesa

di Michele Giorgio 

Qualcuno accosta Lara al Qassam a Viktor Navorski, il cittadino dell’immaginaria Cracozia protagonista del film “The Terminal”, costretto a non poter uscire dall’aeroporto JFK di New York perché in possesso di un passaporto non valido. Ma a differenza del simpatico personaggio interpretato da Tom Hanks la studentessa americana, con i nonni palestinesi, che il ministro Gilad Erdan non intende far entrare in Israele – è sospettata di essere una sostenitrice del Bds, il movimento per il boicottaggio di Israele – non sta vivendo la favola a lieto fine concepita da Steven Spielberg. Da oltre una settimana è detenuta – Erdan smentisce, dice che «è libera di tornare indietro» – all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv pur avendo stampato sul suo passaporto un regolare visto A 2 di studio ottenuto dalle autorità consolari israeliane negli Stati uniti per poter frequentare un master all’Università ebraica di Gerusalemme. Al Qassam in realtà fa parte, in Florida, di Students for Justice in Palestine, un gruppo che il ministro Erdan considera simile al Bds. La giovane ha presentato appello contro la deportazione e, in attesa della decisione dei giudici, resta nell’angusto spazio in cui vive da oltre una settimana.
Con ogni probabilità Lara al Qassam sarà deportata. Il ministro Erdan per farla entrare chiede una sorta di abiura. «Se al Qassam dirà apertamente che il suo sostegno al movimento Bds è illegittimo e che si pente di averlo perorato, potremmo rivedere la nostra decisione. Richiesta che la studentessa non intende accogliere. Comunque vada il caso è esploso sui media e i riflettori sono puntati sulla linea dell’“ingresso vietato” che il governo Netanyahu porta avanti nei confronti di cittadini stranieri, talvolta noti, spesso anche ebrei, che criticano o condannano le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. Due editorialisti ebrei del New York Times, Bret Stephens e Bari Weiss, sono intervenuti a sostegno di al Qassam e contro Israele ricordando che di recente diversi cittadini americani ebrei – tra i quali la docente Katherine Franke, l’attivista Simone Zimmerman, lo scrittore Peter Beinart e la leader di Codepink Ariel Gold – sono stati fermati, interrogati per ore su ciò che pensano di Israele dai servizi di sicurezza del Ben Gurion e in quache caso espulsi.
Alcuni deputati del partito Meretz (sinistra sionista) sono andati a far visita a Lara al Qassam e il rettore dell’Università di Gerusalemme, Barak Medina, ha preso le sue difese. «La decisione del ministro di impedire l’ingresso di una studentessa solo per le sue idee – ha affermato – è una minaccia per ciò che l’Università rappresenta, il confronto di idee non ci spaventa». Per questo l’Università ebraica ha deciso di sostenere in tribunale la richiesta di al Qassam di raggiungere Gerusalemme provocando l’indignazione di Erdan che ha accusato il rettore di essersi schierato contro Israele, il governo e la legge anti-Bds promulgata dalla Knesset. La vicenda della studentessa americana non evidenzia solo le discriminazioni a cui sono soggetti al Ben Gurion cittadini di vari paesi. ma anche israeliani, specialmente se arabi – in entrata come in uscita dal paese. Sottolinea anche l’attrito esistente tra il governo Netanyahu e settori importanti della comunità ebraica americana. Differenze che invece non emergono tra Israele e le comunità ebraiche europee, dove l’attuale esecutivo israeliano sembra godere di un consenso ampio.

il manifesto 11.10.18
Cina, la catena di montaggio dell’Intelligenza artificiale
Cina e Big Data. La corsa di Pechino all'intelligenza artificiale si basa sul lavoro di migliaia di persone impiegate nell'attività di «etichettatura» di tutti i dati. Un lavoratore che pone le etichette può elaborare 40 oggetti al giorno, guadagnando 10 yuan all’ora, circa 1 euro, per uno stipendio mensile totale di 300 euro
di Simone Pieranni


Etichettare qualsiasi cosa: guardare una foto su uno schermo e apporre manualmente etichette, guardare un video e apporre etichette, ascoltare un audio e apporre etichette. Su qualsiasi cosa: il volto di una persona, una strada, una lunga fila di macchine, panorami e luoghi geografici, animali, tutto. Solo in questo modo il fantastico mondo dell’internet delle cose potrà essere possibile nel prossimo futuro. Solo in questo modo le auto senza guida potranno viaggiare, si potranno controllare da remoto tutti gli elettrodomestici di una casa o usare la propria faccia per pagare, prenotare, comprare qualsiasi cosa, o perché le telecamere intelligenti possano fare il loro dovere in questa epoca dalle tendenze sempre più totalizzanti nel controllo sociale.
E COME SEMPRE ACCADE in un sistema capitalistico c’è chi usufruirà – persone, corporation e Stati – dei servizi realizzati da altre persone sfruttate, e non poco, per rendere sempre migliori i servizi. In Cina un «data-tagger», ovvero un lavoratore che pone le etichette alle foto, video e audio che finiranno fagocitati dalle macchine e dagli algoritmi, può anche elaborare 40 foto al giorno, guadagnando 10 yuan all’ora, circa 1 euro, per uno stipendio mensile totale di 300 euro.
Il magazine cinese Jiqizhixin specializzato in intelligenza artificiale e Big Data, ha raccontato che «proprio come agli albori delle fabbriche di iPhone di Foxconn, che hanno simboleggiato il ruolo della Cina nella parte più bassa della catena del valore della produzione globale, la rivoluzione dell’Ai ha creato una nuova ondata di lavori di fascia bassa e ad alta intensità di manodopera che la Cina sta assorbendo sempre di più». Come ha scritto il South China Morning sul mondo di BasicFinder una delle principali «fabbriche» del settore, «le condizioni nello stabilimento costituiscono un mondo a parte dai brillanti campus nella Silicon Valley, o persino nei centri tecnologici cinesi di Pechino e Shenzhen».
PER COMINCIARE, «è un lavoro con salario minimo. Non ci sono mense per il personale che offrono pizze artigianali o strutture ricreative come pareti da arrampicata al coperto o campi da basket con aria condizionata. Neanche i tavoli da biliardo. Eppure il lavoro svolto qui è di vitale importanza se l’Ai deve mantenere le promesse».
    Il fantasmagorico piano cinese che prevede di aumentare investimenti e risultati di tutto quanto è collegato all’intelligenza artificiale, infatti, beneficia del lavoro più tradizionale, «in linea». Perché algoritmi e macchine «ragionino» ed elaborino informazioni, infatti, è necessario che le informazioni arrivino, catalogate nella maniera più dettagliata e precisa. Tutte le immagini ad esempio, devono essere «taggate», cioè associate a un elemento, a caratteristiche, ad altri dati: dati per elaborare, in tempi sempre più rapidi, altri dati.
MA PERCHÉ LE MACCHINE elaborino tutta questa immensa mole di informazioni, serve qualcuno che li prepari. Si scopre così che dietro la più avanzata industria del paese si nascondo loro, le nuove tute blu del mondo hi-tech. E non solo lì: analogo discorso potrebbe essere effettuato sullo sforzo cinese riguardo i semiconduttori, necessario per accelerare la corsa del Made in China 2025 e per diminuire la dipendenza dalla loro importazione dagli Stati uniti. E analogo discorso da tempo viene sottolineato anche in Occidente: dietro ai dati e alle funzionalità della app-economy c’è lavoro.
L’argomento, dunque, è evidente, nonostante la stampa cinese tenda a descrivere con toni trionfalistici la corsa all’Ai che, unitamente al 5G, dovrebbe portare alla definitiva consacrazione dell’internet delle cose. Di recente TechRepublic – sito specializzato in It e lavoro – ha pubblicato un articolo dal titolo Is data labeling the new blu collar job of the AI era?, perché la questione è aperta – naturalmente – anche negli Stati uniti. Ma in Cina si realizzano alcune caratteristiche particolari, determinate da orari, dai salari e dalla quantità di dati che la corsa all’Ai cinese (rengong zhineng) sta richiedendo. Pechino ha lanciato ormai da un paio d’anni il suo «A Next Generation Artificial Intelligence Development Plan». Il piano prevede tre fasi, che dovranno concludersi nel 2030.
L’OBIETTIVO È AMBIZIOSO: «entro il 2030, scrive Steve Dickinson su Chinalawblog, le teorie, le tecnologie e le applicazioni di Ai cinesi gireranno il mondo, rendendo la Cina il principale centro mondiale di innovazione dell’intelligenza artificiale». In questo momento siamo nella fase che terminerà nel 2020. Il piano è stato rilasciato dal ministero dell’Industry e dell’Information Technology cinese e prospetta «la promozione dello sviluppo di un’industria dell’Ai di nuova generazione».
Il progetto del Pcc prevede di concentrarsi su alcuni aspetti in particolare: Intelligent Connected Vehicles o anche auto senza guida (driverless car), uno degli obiettivi più contesi tanto da Usa quanto da Cina (e sul quale influirà non poco la corsa al 5G). Poi c’è tutto il settore della robotica, quello dei droni, il riconoscimento facciale, gli assistenti personali vocali.
Secondo quasi tutti gli esperti e gli analisti che realizzano ormai con frequenza report sul tema (benché non ci sia ancora uniformità riguardo la vera e proprio «classifica» nella corsa all’Ai, settore nel quale gli Usa sono ancora ampiamente in vantaggio, mentre sono indietro sul 5G) tutti sono invece concordi nel sottolineare l’incredibile forza cinese dipendente da un dato oggettivo: perché l’internet delle cose possa davvero esistere nella vita quotidiana servono due cose, la velocità di elaborazione dei dati, ma soprattutto servono tanti, tantissimi, dati.
Il Financial Times nel maggio 2018 in un articolo da titolo China and US compete to dominate Big Data a firma di Louise Lucas e Richard Waters ha riassunto il vantaggio competitivo cinese, partendo dal caso di un’azienda, la Malong Technologies, con sede a Shenzhen, che «ha addestrato i suoi algoritmi di riconoscimento delle immagini su masse di dati cinesi – analizzando centinaia di migliaia di foto delle sfilate di moda per identificare le tendenze nel settore dell’abbigliamento e ora sta sperimentando la tecnologia con le società di e-commerce negli Usa».
UNA DIFFERENZA CHIAVE IN CINA – racconta al quotidiano finanziario il capo della tecnologia Matt Scott, un ex ricercatore di Microsoft che si è trasferito in Cina per co-fondare la società – «è che ci sono più persone, più dati, più aziende: avendo accesso a questi dati in Cina, possiamo esportare la nostra tecnologia in tutto il mondo».
    Tanti dati e un’attitudine a concederli: «questo – prosegue l’articolo – è un paese in cui le persone ordinano, acquistano, pagano e giocano online, lasciando enormi impronte di dati» che poi consentono agli addetti ai lavori di puntare con precisione su annunci e promozioni. «La densità delle persone è proporzionale alla densità dei dati», afferma al Ft uno scienziato cinese di intelligenza artificiale.
TANTI DATI E TANTI LAVORATORI disposti ad accettare salari bassi. Il centro del data-tagging, come di gran parte delle attività che si occupano di Big Data in Cina, è il Guizhou, una delle regioni più povere del paese divenuto da tempo un centro mondiale dei Big Data.
STIPENDI BASSI non solo per le nuove tute blu, ma anche per analisti, studiosi, ricercatori. Sixth Tone un magazine che si occupa delle principali tendenze ha provato a raccontare il mondo dei data-tagger: «Ogni giorno centinaia di studenti delle scuole professionali affollano una fabbrica dopo la lezione e si siedono di fronte a file di computer per etichettare le foto e analizzare il linguaggio umano. I dati che generano vengono utilizzati in una varietà di progetti tecnologici, dal riconoscimento facciale e vocale alla guida autonoma».
I giornalisti di Sixth Tone sono andati a vedere che succede a Bainiaohe Digital Town, un parco scientifico e tecnologico a circa 50 chilometri da Guiyang, la capitale della provincia di Guizhou. «Prima di una conferenza sull’intelligenza artificiale tenutasi a dicembre dello scorso anno, Bainiaohe era praticamente sconosciuta». Non mancano alcune storie spassose, come quella di Deng Xuechun, uno studente di 20 anni del Guizhou Forerunner College, «che ha appena iniziato il suo turno presso la fabbrica Guizhou Mengdong Technology Co. Ltd». Il suo compito è quello di identificare i veicoli in fotogrammi fissi dalle riprese della telecamera di strada, così come tutti gli oggetti che potrebbero ostruire la vista: è obbligata a stare seduta dritta in ogni momento ed evitare di parlare con i suoi compagni di scuola seduti accanto a lei».
Solo che Deng è cresciuta in montagna dove le macchine sono poche e non sempre riesce a taggare al meglio i brand delle auto. Anche per questo nel suo primo mese di lavoro Deng ha guadagnato solo 800 yuan, poco più di 80 euro: troppo lenta.
MA ANCHE QUESTO BUSINESS capace di attirare molti neolaureati, non richiedendo specializzazioni particolari, ormai si sta spostando anche in altre aree del paese. Queste fabbriche «etichettatrici» gestite da lavoratori con salario minimo sono il nuovo volto dell’outsourcing globale. E molto prima dell’elettronica e dei vestiti, «la Cina sta rapidamente diventando il laboratorio globale per l’intelligenza artificiale. Ci sono segnali che l’industria dell’etichettatura dei dati si sta spostando verso l’interno in aree come Shandong, Henan, Hebei e Shanxi, dove i costi del lavoro sono inferiori».
L’importanza di questi lavoratori è riconosciuta dalle stesse aziende: Basic Finder è tra le aziende di etichettatura che prosperano sul mercato dei Big Data, e ha clienti che vanno dalle università statunitensi come Berkeley, ai progetti di veicoli senza guida della Silicon Valley per arrivare ai leader cinesi di intelligenza artificiale SenseTime e iFlyTek.
«Gli ordini d’oltremare rappresentano circa il 30 per cento del totale degli affari», secondo Du Lin, co-fondatore e amministratore delegato della start-up con sede a Pechino.
PER QUALSIASI SISTEMA intelligente, si tratta di «un processo di apprendimento conoscitivo, che richiede agli esseri umani di etichettare il mangime», ha raccontato un laureato alla Shanghai University, a Jiqizhixin, «non importa quanto sia stravagante, quanto in alto siano le aziende, non si può vivere senza grandi quantità di dati supervisionati e lavorati».

Corriere 11.10.18
L’ammissione
Pechino ha aperto campi per «rieducare i musulmani»


«Educare e trasformare» i soggetti influenzati dall’estremismo religioso, riabilitarli in «centri di addestramento professionale». È la nuova legge dello Xinjiang, la regione più estesa della Cina, la più occidentale, il bacino di gran parte delle sue risorse di carbone, gas naturale e petrolio. Un Far West abitato da 11 milioni di uiguri musulmani, dove Pechino combatte da anni un movimento ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han (la stragrande maggioranza della popolazione cinese). Da mesi si parla della linea dura seguita dalle autorità, ci sono state proteste internazionali guidate dagli Stati Uniti per le testimonianze insistenti sulla costituzione di campi di rieducazione e sullo spostamento in massa di uiguri e altre minoranze musulmane in altre zone del Paese. Pechino aveva smentito, accusando gli occidentali di doppiopesismo opportunista: gli estremisti islamici violenti sono sempre definiti terroristi in Europa e America, mentre sono considerati degli oppressi se sono in Cina. Ora se Pechino ha deciso di rendere noto il sistema di rieducazione dei musulmani significa che lo scontro è arrivato a un punto di svolta. Da qualche anno sono stati segnalati mujaheddin uiguri sul fronte siriano, contatti con Al Qaeda e i talebani in Afghanistan, tutti combattenti che sarebbero pronti a tornare nello Xinjiang per lanciare una guerriglia separatista. Numerosi e sanguinosi gli attentati contro polizia e civili negli anni scorsi.

Corriere 11.10.18
Giulio Guidorizzi (Einaudi)
L’eroe Ulisse raccontato dalle donne
di Eva Cantarella


Quante sono state, nei secoli, le rivisitazioni della storia di Ulisse? Nelle chiavi più svariate, ai livelli più diversi, dalle parole dei letterati alle immagini televisive e cinematografiche, queste riletture ci hanno svelato i molteplici aspetti del carattere del re di Itaca. Versatile per definizione, possessore di qualità, come la celebre metis, che gli consentivano di superare qualunque ostacolo, Ulisse è personaggio il cui «multiforme ingegno» continua a sorprenderci, mostrando aspetti inediti della sua vita. E a darcene un’altra prova oggi è Giulio Guidorizzi, il cui racconto del famigerato ritorno a Itaca, fatto con la passione dello scrittore e il rigore dello studioso, è caratterizzato da una scelta narrativa che è, forse, il maggiore tra i tanti pregi del libro (Giulio Guidorizzi, Ulisse. L’ultimo degli eroi, Einaudi, pagine 200, e 14). La prospettiva nella quale è narrata la storia, infatti, non è quella di Ulisse: è quella delle donne che lo hanno amato. Ed è soprattutto in questa scelta che Guidorizzi dimostra la sua qualità di narratore, cambiando le prospettive a seconda dei punti di vista della voce femminile narrante, e con queste cambiando anche la storia: visto da Circe, Ulisse è un uomo «che dorme nel mio letto, nudo, indifeso, che — le fa pensare Guidorizzi — potrei in un istante trasformare in animale, o gettare una gabbia invisibile intorno alla sua mente e costringerlo a non uscire mai più da questa casa». Ma decide di non farlo: ammaliata da Ulisse lo risparmia, e al momento del commiato arriva a suggerirgli come evitare i pericoli ai quali sta andando incontro. Sono tanti gli episodi che mostrano come la possibilità di leggere molteplici significati dietro le parole omeriche renda attuale quel che fu scritto tre millenni fa, ma uno dei più belli è il dialogo con Calipso: la ninfa gli ha offerto l’eternità, Ulisse ha rifiutato, ma per lei il rifiuto è incomprensibile: «Noi (immortali) — le fa dire Guidorizzi — non sappiamo cos’è la vostra pena di vedere ogni cosa che fugge via e io vedo, Ulisse, come sei triste quando ricordi… persino nella vostra anima voi sperimentate la legge del mutamento, perché i vostri sentimenti cambiano, quando gli dei vogliono fare a un uomo il dono più bello lo sottraggono alla sensazione del tempo: ed egli non sentirà più scorrere l’acqua del fiume, sulla quale la sua vita passa come un ramoscello trasportato dalla corrente...».
Ma è nella pagina finale del libro che Guidorizzi, con un vero e proprio coup de théâtre, svela nel modo più evidente le sue qualità di romanziere. Uccisi i proci e riconquistato il potere, Ulisse finalmente fa l’amore con la moglie, alla quale racconta non solo i pericoli corsi, ma anche, onestamente, le avventure sentimentali che hanno accompagnato non pochi anni del suo viaggio. Penelope ascolta, e capisce…; ma poi Ulisse le dice che dovrà intraprendere un altro lungo viaggio, al termine del quale, le assicura, ritornerà da lei. E Penelope continua ad ascoltare… ma dopo averlo fatto prende la spada di Ulisse e con due colpi, in silenzio, distrugge la ben nota tela. Guidorizzi non commenta: ma il lettore si chiede il significato del gesto. Significa che la vecchia Penelope è morta, e la nuova è una donna radicalmente diversa? Si direbbe di sì, ma non potrebbe significare anche qualcos’altro? Che Penelope non ha la benché minima intenzione di continuare a passare la vita aspettandolo? Nel silenzio dell’autore ogni supposizione è valida: e questa, credo, verrebbe accolta con grande piacere da un buon numero di lettrici.

Repubblica 11.10.18
Le tensioni nel Pacifico
Ayako e le altre marinaie a bordo Tokyo rompe l’ultimo tabù maschile
Sulla più grande portaelicotteri della Marina militare giapponese il 9% sono donne.
Il governo Abe vuole raggiungere la stessa percentuale in tutte le forze armate
di Filippo Santelli


PECHINO «All’inizio gli uomini non sapevano come trattarci, ora vedono tutto da un’altra prospettiva».
L’ingegnere Ayako Yoneda, 29 anni, e le altre marinaie della Kaga, la nave da guerra più grande del Giappone, prestano servizio alla frontiera. Alla frontiera della parità di genere, in un Paese dove per tradizione le donne sono ancora le custodi della casa. E alla frontiera delle aspirazioni militari del premier Shinzo Abe, che per coronare i suoi ultimi tre anni al potere vorrebbe modificare la Costituzione pacifista imposta al Sol Levante dopo la Guerra, dandogli finalmente un esercito in piena regola. Questione di necessità, ora che la Cina colonizza uno scoglio dopo l’altro il Pacifico. Come è necessario che la marina, il più maschile tra i corpi della Forza di autodifesa nipponica, rapporto uno a dieci, diventi più rosa. Con la penuria di nascite che affligge il Giappone è un problema reclutare l’equipaggio per colossi come la portaelicotteri Kaga. «In tutto il mondo le donne lavorano in un numero più vasto di settori, dobbiamo seguire la tendenza», dice a Reuters Akiko Ihara, 31 anni, sottoufficiale addetta alla manutenzione dei velivoli. Sulla Kaga, 450 marinai, il 9 per cento è donna, una proporzione che il Giappone vorrebbe raggiungere entro il 2030 in tutti i corpi. Un bel salto rispetto all’attuale 6 per cento, anche se molto sotto il 15 degli Stati Uniti. Rispetto a forze di terra e aviazione, la marina riceve molte meno domande di arruolamento. Per i giovani giapponesi, ossessionati dai social, è un sacrificio limitarsi a quattro mail al giorno, il massimo consentito in mare.
«Devi abituarti a non averli e sfruttarli al massimo quando li hai», si sfoga la cadetta 22enne Miku Ihara, che nel tempo libero legge. A differenza di navi più vecchie, la Kaga è progettata per un equipaggio misto. I bagni sono doppi, nel quartiere delle donne è vietato l’ingresso agli uomini. Per chiamarle a rapporto si usa un cercapersone. A bordo fanno tutto, dalla cambusa al combattimento. Nonostante per la Costituzione sia solo una forza di autodifesa, la marina del Giappone è una delle più grandi al mondo, con 45mila effettivi su più di cento imbarcazioni. Gli Stati Uniti hanno ammesso le donne a bordo nel 1993, Tokyo solo dieci anni fa. Qualche maltrattamento, in un corpo iper tradizionalista, si è verificato: a luglio un sottufficiale è stato congedato per aver baciato con la forza tre colleghe. Ma il Giappone starebbe pensando di far cadere pure l’ultimo tabù: la presenza femminile sui sottomarini.



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