il manifesto 10.10.18
I lemmi viventi della discordia
Per
Gramsci non esisteva solo la classe operaia. Nato lontano dalle
fabbriche torinesi, egli pensava a un blocco storico del proletariato
industriale e contadino con gli intellettuali.
«per Gramsc il
populismo è un atteggiamento culturale-politico inadeguato
all’emancipazione delle masse popolari ma egli vede nel populismo
elementi di interesse nella misura in cui si tratta pur sempre di una
forma di avvicinamento degli intellettuali al popolo, in un panorama
socio-culturale italiano storicamente deficitario in questo senso.
di Salvatore Cingari
Per
Gramsci non esisteva solo la classe operaia. Nato lontano dalle
fabbriche torinesi, egli pensava a un blocco storico del proletariato
industriale e contadino con gli intellettuali. Se questo per il giovane
Asor Rosa di Scrittori e popolo (influenzato da Mario Tronti e su questo
tema anche da Rosaro Romeo) era il peccato mortale che dissipava le
conquiste «operaiste» del Biennio rosso, per Ernesto Laclau si trattava
invece dell’eredità dei Quaderni del carcere più feconda per la
post-modernità: la soggettività popolare non si identifica con una
singola classe, ma con un’articolazione di diverse istanze da unificare
con uno sforzo di tipo simbolico-comunicativo. In tal senso Laclau
ritiene di poter ancorare al pensiero gramsciano la sua riattivazione
del termine populismo in una piattaforma politica di sinistra: anche in
questo caso veniva capovolta la valutazione di Asor Rosa che invece, nel
suo testo del 1965 (ma già nel decennio successivo la sua posizione
sarebbe stata sensibilmente diversa), denunciava proprio il «populismo»
di Gramsci sussumibile nel paradigma moderato-trasformistico e
modernizzatore-conservatore dell’Italia post-unitaria.
In questo
senso Asor Rosa chiamava in causa anche la nozione gramsciana di
nazionale-popolare, che in seguito avrebbe legittimato persino tentativi
di appropriazione del pensatore sardo da parte della cultura di destra.
Ma il termine nazionale-popolare in Gramsci non significa ciò che noi
ormai indichiamo (elidendo impropriamente una e) come
«nazional-popolare», cioè certa cultura di massa, né il folklore, bensì
le produzioni artistiche profondamente legate a un contesto
storico-culturale nazionale, che però assumono un significato
paradigmatico di valenza universale (la tragedia greca, il romanzo
russo, l’opera lirica italiana …). Il russo Narodnost, da cui deriva il
gramsciano nazionale-popolare, o popolare-nazionale, non è insomma un
calco dal tedesco Volkstum o – come voleva Romeo – un’idea ispirata dal
populismo russo.
TUTTAVIA, se sembra problematico il rimando di
Gramsci a un immaginario «populista» in senso puramente romantico (la
«spontaneità» deve sempre andare insieme alla «direzione»: il senso
comune da valorizzare politicamente non è quello già dato), anche La
ragione populista di Laclau appare forzare il concetto di egemonia in
una visione di tipo linguistico-libidinale che rimuove la sostanza
storico-materialistica dei Quaderni. Di fronte a queste diverse
interpretazioni nasce la domanda: quale fu l’effettivo utilizzo che del
lemma «populismo» fece Gramsci? Innanzitutto bisogna distinguere fra gli
scritti pre-carcerari e quelli posteriori all’arresto. Fra il 1919 e il
1926 Gramsci utilizza il termine in linea con la semantica bolscevica e
leniniana e con riferimento all’omonimo movimento politico russo.
Venati di utopismo e di intellettualismo, i populisti russi mettevano al
centro della rivoluzione la sola classe contadina e come i menscevichi
tendevano al compromesso con la borghesia.
NEI QUADERNI Gramsci
non utilizza spesso il termine, nella sua forma aggettivale o
sostantiva, anche se lo fa più volte di quanto risulti dall’indice dei
temi dell’edizione Gerratana. Emerge una valutazione negativa, ma non in
toto. Cioè da un lato Gramsci fa riferimento al populismo in modi che
appaiono molto lontani dall’utilizzo del termine da parte di Laclau: per
Gramsci, cioè, il populismo è un atteggiamento culturale-politico
inadeguato all’emancipazione delle masse popolari. Dall’altro, egli vede
nel populismo elementi di interesse nella misura in cui si tratta pur
sempre di una forma di avvicinamento degli intellettuali al popolo, in
un panorama socio-culturale italiano storicamente deficitario in questo
senso.
Non sfugge che l’arricchimento semantico che l’utilizzo del
termine populismo segna nei Quaderni rispetto agli scritti giovanili è
da attribuirsi al diverso quadro di motivazioni politiche e interiori
che muovevano il pensiero gramsciano: era necessario, negli anni del
carcere, spiegare il perché della sconfitta del movimento operaio ed
elaborare una visione alta della politica, capace non solo di sviluppare
antagonismo, ma anche di comprendere il nucleo di verità affermato da
avversari e nemici.
Nei Quaderni 3, 8 e 15, in realtà, Gramsci
resta nella sfera semantica leniniana, assimilando ai populisti il
trasformismo di certi settori del socialismo italiano del primo
Novecento e i limiti del pensiero di Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane.
Ma nel Quaderno 6 possiamo vedere come il comunista sardo inizi a usare
il termine anche per definire fenomenologie «borghesi» e di «destra»,
anticipando il significato che oggi si conferisce più diffusamente alla
parola.
Criticando un articolo di Arrigo Cajumi su Giovanni Cena,
ad esempio, riferisce il termine a un atteggiamento che vorrebbe essere
popolare ma che non riesce a esserlo, mantenendo una scissione elitaria
con il «popolo» stesso; e, dall’altro, a uno scrittore che – nota
Gramsci – nel suo miscelare orientamenti socialisti ad aperture al
nazionalismo anticipava il fascismo.
SEMPRE nel Quaderno 6 Gramsci
parla di una «andata al popolo» di alcune correnti letterarie francesi
come segno del tentativo della borghesia di rilanciare la sua egemonia
sulle classi popolari assorbendo una parte dell’ideologia proletaria.
Per lui tale movimento non era da sottovalutarsi, dato che si trattava
pur sempre di una tendenza a superare il democratismo «formale» in forme
più sostanziali.
Nel Quaderno 23 si sarebbe spinto oltre
nell’utilizzo in positivo del termine parlando del De Sanctis realista
nell’ambito di tendenze populiste che nel secondo ottocento si ponevano
il problema delle classi popolari andando oltre il limite «poliziesco»
dell’idea di Nazione della borghesia post-risorgimentale. E nel Quaderno
15 si dissociava dalla posizione del comunista Paul Nizan che opponeva
la «verità rivoluzionaria» alla «verità umana», criticando i tentativi
populistici di alcuni scrittori francesi. Per Gramsci la ricerca di
radicamento nel contesto storico-sociale era necessaria a una
letteratura in cui potesse scorrere la vita: e, come sappiamo, tale
dimensione era in contrapposizione con il cosmopolitismo delle élites
intellettuali slegate dalla base sociale, ma non certo con un
universalismo concreto, di cui doveva sostanziarsi la liberazione
internazionalista (niente a che fare, quindi, con identitarismi e
nazionalismi italici).
ECCO PERCIÒ che si può dire che Gramsci non
utilizzasse il termine populismo come uno stigma, e fosse anzi attento a
cogliere in esso, come prassi o come rappresentazione culturale, gli
elementi da sviluppare in una politica di emancipazione. Questo
atteggiamento di apertura è alla base anche del suo giudizio sui
fenomeni che al tempo di Gramsci ancora non venivano definiti come
populisti dal lessico politico, e che oggi ne costituiscono invece
paradigmi considerati classici, come ad esempio il boulangismo, per non
dire delle note pagine sul cesarismo e bonapartismo. Analizzando tali
fenomeni Gramsci era lungi dal gridare alla catastrofe irrazionalistica,
provocata dalle capacità illusionistiche del potere, ma cercava di
comprendere la loro razionalità interna, che riusciva a comporre gli
interessi della classe dominante con alcune esigenze dei subalterni.
Capire ciò sarebbe utile anche per ricostituire oggi le basi di una
politica che sia appunto, gramscianamente, popolare e non populistica,
secondo il significato che il termine ha assunto nel secondo Novecento.