il manifesto 6.10.18
Il populismo, il totalitarismo e il lavoro
di Sarantis Thanopulos
Comunque lo si interpreti, il populismo origina dalla disgregazione della società civile.
La
causa è una crisi economica e etica che destabilizza gli organismi e le
istituzioni di rappresentanza culturale, sindacale e politica dei
cittadini e distrugge progressivamente i loro legami solidali. L’onda
populista è un’organizzazione collettiva sostitutiva che esalta i
bisogni frustrati dei cittadini “comuni”, percepiti in modo generico,
impreciso, spesso ingannevole. L’appagamento di questi bisogni (resi
“popolari” da una vasta adesione) è ideato, in modo avulso da un
progetto complessivo di costruzione, per una massa di utenti a cui
fornire prestazioni.
La massa è tenuta insieme da legami
impersonali che dànno, tuttavia, la sensazione di una coesione e di una
forza incorruttibili. La forza eccita in senso antidepressivo, la
coesione calma l’ansia della disgregazione.
Lasciato a sé il
populismo degenera nel totalitarismo. Non lo si ferma denunciando le sue
false promesse. Attaccare un’illusione, che ha funzione
stabilizzatrice, offrendo in cambio disperazione, provoca solo rabbia e
rigetto. Inoltre, il populismo se si trasforma in regime totalitario, è
in grado di offrire un coerente modello di appagamento dei bisogni e
inventarne forme nuove, pervertendo i desideri. Può costruire un
circuito di domanda e offerta del tutto funzionale al proprio
mantenimento. Il problema non sta nelle promesse non mantenute, ma nella
natura alienante del modo di impostarle e di realizzarle che,
passivizzando i cittadini, li priva della condizione di soggetti
politici.
Contrastare un futuro di totalitarismo e il suo effetto
alienante nel campo dei valori fondamentali (la trasformazione dei
cittadini da soggetti liberi e paritari in monadi assoggettate a un
potere anonimo) è necessario.Tuttavia questi valori non resteranno vivi,
e difenderli sarà vano, senza le condizioni psichiche, culturali,
materiali che li rendono riconoscibili e realizzabili. Resistono
tuttora, perché persiste la memoria vivente di una vita civile decente,
ma puntare su ciò che resiste non è sufficiente.
Lo scontro che
deciderà l’avvenire è sul lavoro, l’epicentro della disgregazione. Tra
le due sue concezioni: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”,
come sancisce la nostra Costituzione; “Il lavoro rende liberi”, la
scritta, per nulla beffarda, campeggiante in molti campi di
concentramento nazisti. La prima parla del lavoro come realizzazione
personale e collettiva della creatività: non si lavora per produrre
mezzi di sussistenza, ma una vita significativa degna di essere vissuta
che fonda la democrazia.
La seconda è la propaganda, un’idea
diventata azione, che invita a sbarazzarsi dei pensieri e delle
emozioni, a vivere come automi, a sprofondare anesteticamente in uno
stato di disincarnazione, in cui il corpo scheletrico delle vittime,
oggetto di una sperimentazione, riflette l’ideale anoressico degli
aguzzini.
Combattere in tempo la prospettiva del totalitarismo nel
populismo, richiede un processo di bonifica fondato sulla dignità al
lavoro. Questa dignità, l’ultimo degli obiettivi dell’amministrazione
europea della spesa pubblica, non coincide con il “posto fisso” e men
che mai con la “flessibilità”. In un mondo dominato dalla robotizzazione
della produzione e dei servizi e dalla meccanizzazione della forza
lavoro umana, costretta a compiti protocollari, impersonali, ripetitivi,
la libertà di gestione della propria esperienza lavorativa è un
miraggio. La centralità della creatività umana, la sua affermazione in
ogni campo del vivere, dovrebbe essere la colonna portante di una
politica del lavoro democratica.