domenica 7 ottobre 2018

Repubblica 7.10.18
Il balcone peronista dei grillini
di Piero Ignazi


L’aplomb e la compostezza formale di Luigi Di Maio che per anni hanno levigato l’abrasività delle intemerate di Beppe Grillo sono stati gettati alle ortiche, anzi, buttati giù da un balcone, la settimana scorsa. I festeggiamenti per l’approvazione del reddito di cittadinanza segnano una svolta nella cultura politica, nel modo d’essere e di porsi, dei pentastellati. Se comunque andiamo nel merito della questione, un provvedimento contro la povertà non può che essere ben visto da tutti, e soprattutto da chi si professa di sinistra. Basti ricordare il mitico pamphlet di Ernesto Rossi, Abolire la Miseria, pubblicato per la prima volta nel 1945. Ovviamente vi sono molti modi di combattere la povertà, dalla visione caritatevole del conservatorismo compassionevole di stampo britannico, poi ripreso dai neocons anglosassoni negli anni Ottanta del secolo scorso, a quello religioso, cattolico in particolare, di empatia per i poveri e gli ultimi. Questi sentimenti di buon cuore volevano attenuare l’indigenza grazie ad istituzioni volontarie affidate alla generosità dei ricchi. A costoro non passava nemmeno per l’anticamera del cervello che tutti gli uomini e le donne avessero diritto in quanto persone ad una vita dignitosa, e quindi che la collettività nel suo insieme vi dovesse provvedere. Solo una concezione repubblicana-socialista dei diritti ha rovesciato quell’impostazione. Ben vengano quindi, in linea di principio, misure come quelle promosse da Di Maio — che in realtà non sono altro che una versione del Reddito di Inclusione più generosa e anche più pasticciata tanto che si configura come una sorta di "reddito etico", per cui solo un certo utilizzo è giusto: il pane sì, le rose no.
Dov’è allora il problema? Nella forma, che spesso rivela più della sostanza. In estrema sintesi, il problema sta nel "balcone", nella esibizione con cui i pentastellati hanno festeggiato l’approvazione del loro disegno di legge.
Chi governa, per il ruolo istituzionale che ricopre non può assumere posture da demagoghi piazzaioli.
Juan Perón, l’affossatore dell’economia e poi della democrazia argentina, arringava le folle dalla Casa Rosada per magnificare le proprie iniziative e farsi applaudire dai sostenitori. Quello che importava era il sostegno dei descamisados, non certo delle regole democratiche; e nemmeno delle contingenze economiche: di fronte alla svalutazione dei 4/5 della moneta nazionale per le dissennatamente generose politiche economico-sociali, Perón si rivolgeva alla piazza dicendo «forse voi comprate il cibo con dollari e non con i pesos?». Oggi si direbbe, i mercati se ne faranno una ragione.
L’Argentina venne mandata in miseria grazie a quel rapporto diretto, caldo, immediato tra il leader e la folla. Il balcone di Palazzo Chigi che si indirizza esaltato ai militanti osannanti non è così lontano da quell’esempio. Il palazzo del governo non può trasformarsi in un palco tribunizio a disposizione dei ministri di turno. È il luogo dove si devono curare gli interessi nazionali, non di una parte. L’esultanza che debordava da quella sede istituzionale indica quanto meno una sbavatura giovanilista di persone inesperte, e forse inadatte, a ricoprire ruoli governativi: un peccato di gioventù, insomma. Oppure, al peggio, lo scivolamento verso una deriva populista i cui geni sono rimasti inattivi per molto tempo nel corpo pentastellato e che ora si rivitalizzano mutando la natura del partito da post-materialista e innovativo a giustizialista e plebiscitario.