Repubblica 6.10.18
A sinistra vive un finto Keynes
di Marco Ruffolo
C’è
una ragione più profonda dell’anti-piddismo che ha convinto una parte
della sinistra a disertare domenica scorsa la pur riuscita
manifestazione del Partito democratico a Roma, la prima contro
l’esecutivo pentaleghista. Ed è che in realtà la manovra annunciata dal
governo non dispiace affatto a quella sinistra, che anzi vi scorge il
primo successo di una sfida venuta da lontano, la Guerra Santa ai
governi dell’austerità. Quel guanto di sfida del 2,4% lanciato in faccia
ai tecnocrati di Bruxelles non può infatti non rievocare il coraggio
della rivoluzione keynesiana contro l’ortodossia neoclassica. Dietro
l’ostinazione del governo ad alzare l’asticella del disavanzo, si
staglia proprio il mito di Keynes. Del resto, già da tempo i folti
baffoni di Lord John Maynard hanno sostituito la barba ribelle di Karl
Marx nell’immaginario di una certa sinistra. Eppure c’è da scommettere
che né l’uno né l’altro avrebbero apprezzato un amore così virulento da
diventare idolatria. E si sa che in tutte le idolatrie il pensiero
originario finisce esposto nella cristalleria degli stereotipi, dove
l’intelligenza cede spazio alla banalità, l’apertura mentale al
catechismo. Keynes, in particolare, non avrebbe mai sopportato di
diventare prigioniero della propria caricatura. Le sue erano tutt’altro
che regole automatiche. L’economista britannico era ben attento alla
composizione di quella spesa pubblica in deficit che suggeriva in via
temporanea ai Paesi in situazione di scarsa domanda. Era ben consapevole
che i " moltiplicatori" con cui la spesa crea più reddito sono
condizionati da elementi strutturali per nulla trascurabili. E poi la
sua analisi non doveva fare i conti con debiti pubblici colossali come
quello italiano.
Intendiamoci, il paradigma dominante contro cui
Keynes combatteva – quello secondo cui il mercato è in grado di
autoregolarsi e lo Stato deve astenersi dall’intervenire – è tuttora
vivo e vegeto sia pure in modalità diverse. Da quella fede liberista
continuano a scaturire idee sbagliate come " l’austerità espansiva" che
in nome del pareggio di bilancio, in anni di crisi, invece di ridurre il
debito ha massacrato il Pil. Un’idea che avrebbe contrariato non poco
il grande economista britannico, così come lo avrebbe indignato una
politica fiscale Ue ridotta a un pugno di parametri matematici. Ma di
fronte a questa gabbia ideologica, la sinistra radicale, subito imitata
dal movimento grillino, risponde costruendo una seconda gabbia
altrettanto ideologica dove comprime, deformandoli, gli insegnamenti di
Keynes, pensando che basti fare un bel po’ di deficit in più per
rimettere in moto l’Italia. In questa semplificazione, un identico
giudizio negativo chiama in causa sia chi sostiene le regole più
stringenti dell’ortodossia Ue, sia chi cerca di strappare a
quell’ortodossia qualche margine di flessibilità, sapendo che se supera
un certo livello di deficit, il rischio non sarà tanto la bocciatura da
parte di Bruxelles ma quella dei mercati, che alzeranno i tassi a danno
dei più deboli. Tra gli uni e gli altri non c’è differenza per i
sacerdoti del catechismo keynesiano: sono tutti accomunati
dall’etichetta infamante del neoliberismo, che li rende servi delle
lobby finanziarie e dei burocrati di Bruxelles. Anche chi obietta che
per fare più investimenti occorrono amministrazioni funzionanti diventa
subito un nemico dello Stato. Eccoci al punto centrale: gli investimenti
pubblici. Cosa penserebbe Keynes se, tornando dall’al di là dopo
settantadue anni, arrivasse in Italia e si accorgesse che Stato, Regioni
e Comuni non sono in grado di investire, e non perché manchino le
risorse ma perché non c’è capacità progettuale, perché la
sovrapposizione di competenze e la burocrazia rallentano in misura
abnorme la loro esecuzione? È molto probabile che condizionerebbe la sua
ricetta a una profonda riforma dello Stato. Senza la quale il "
moltiplicatore degli investimenti" si trasformerebbe nel suo opposto.
Quando viene stanziata una somma per costruire un’opera pubblica, e
passano tre anni per il relativo bando e poi altri quattro ( se va bene)
per l’apertura del cantiere, è evidente che invece di moltiplicare il
reddito, quello stanziamento in deficit creerà solo debito. Se poi
l’economista britannico si accorgesse che nella manovra italiana quasi
tutto il nuovo deficit non è destinato agli investimenti ( meno di un
decimo) ma a maggiori spese correnti (dal reddito di cittadinanza allo
stop della Fornero), a moltiplicarsi sarebbe solo il suo scetticismo.
Volgendo
lo sguardo oltre l’Atlantico, basterebbe poco a Keynes per concludere
che il Paese più keynesiano del mondo è l’America. Sì, proprio gli Stati
Uniti, considerati la patria del liberismo più spinto, ma che di fronte
all’ultima grande crisi hanno impresso un’accelerazione alla spesa
pubblica molto più forte e duratura di quella dell’Eurozona. Lo ha reso
possibile un governo federale che funziona, con dirigenti valutati
secondo il merito, che agiscono come manager privati ma nell’interesse
pubblico, con obiettivi chiari, con poche sovrapposizioni di competenze,
con politiche controllate sistematicamente dal Congresso. Tutto il
contrario di quanto succede da noi.
Ma questa disamina di come e a
quali condizioni uno Stato riesce ad accelerare la crescita, non
interessa affatto alla schiera dei " neokeynesiani adoranti": per loro
basta solo azionare qualche leva. Qualunque cosa ostacoli questo
meccanismo ultrasemplificato in cui hanno trasformato il pensiero di
Keynes, finisce appiattito sullo sfondo del liberismo da combattere: le
regole di bilancio, le riforme, la stessa moneta comune. E proprio nella
insofferenza verso l’euro si crea un terreno di incontro ancora più
ampio: quello tra il radicalismo di sinistra e grillino e il sovranismo
della destra leghista. Visto da sinistra, l’euro diventa la testa
d’ariete del neoliberismo dominante; visto da destra è la spada che
recide ogni anelito di sovranità nazionale. Le analisi sono diverse, il
nemico è lo stesso. Una convergenza inedita tra quelli che Keynes
chiamava da una parte «i duri-a-morire dell’estrema destra » e
dall’altra « il partito della catastrofe della sinistra laburista, che
odia e disprezza le istituzioni esistenti, convinto che il solo
rovesciarle sia la premessa necessaria a qualcosa di buono » .