venerdì 5 ottobre 2018

Repubblica 5.10.18
"Il regno dell’Uroboro", la raccolta di saggi di Michele Ainis
Siamo monadi digitali e lavoriamo (gratis) per i signori dell’algoritmo
di Maurizio Ferraris


Tutto, ricorda Michele Ainis ne Il regno dell’Uroboro — volume che raccoglie suoi recenti articoli e saggi brevi, alcuni dei quali apparsi, in forma leggermente diversa, su Repubblica — inizia meno di nove anni fa, il 4 dicembre 2009, quando Google avvisa che comincerà a personalizzare gli avvisi in base agli utenti: se cerchi "calcio", in base alle tue navigazioni ti può venir fuori "Juve" o "Roma" (e se cerchi spread, reddito di cittadinanza, vaccini, Junker che barcolla, avrai risposte coerenti con le tue abitudini). Perché tutto questo ha un valore epocale? Perché da quel momento si è compreso che la funzione capitale del web era registrare molto più che comunicare. Chi accede al web ha fisicamente l’impressione di guardare la televisione, ma in realtà tra il guardare un video in tv o sul telefonino ha luogo una rivoluzione copernicana. Nel primo caso, siamo noi che guardiamo il video. Nel secondo, per così dire, è il video che guarda noi, nel senso che annota quello che guardiamo, i commenti che facciamo, le persone a cui inviamo il link, la frequenza con cui ci ritorniamo. Il grandissimo merito di Ainis è di isolare lucidamente le conseguenze di questa rivoluzione, e di farlo con grandissima concisione, il che è un merito in sé, ma anche comparativamente, se si considera la pletora di libri che escono sul web, prima entusiastici, ora per lo più critici, ma che lasciano l’impressione di non aver colto il punto.
Le conseguenze della rivoluzione riguardano essenzialmente il sapere, la politica e il lavoro. Sul piano del sapere, abbiamo una sorta di monadizzazione della conoscenza, cioè la «solitudine di massa» di cui parla il sottotitolo del libro di Ainis. Ognuno di noi è una monade nel senso che si rappresenta il mondo, il world wide web, da una prospettiva, la sua, personalissima. Così che la "Rete ampia come il mondo" diviene la descrizione di casa nostra. E noi tutti viviamo in mondi diversi. È facile vedere come, nell’ambito della politica, questa frammentazione sia il terreno di coltura ideale per la crescita delle convinzioni identitarie, della rappresentazioni dogmatiche, delle teorie del complotto. Se nella tua echo camber sono convinti che la Luna è fatta di formaggio ti apparirà naturale pensare che chi dice che è fatta di pietra è parte di un complotto. E questo non vale ovviamente solo per la Luna, ma viene a toccare elementi più sensibili come il funzionamento dei mercati, le conseguenze delle manovre economiche, le conseguenze socioeconomiche delle migrazioni. Ma mentre gli elettori hanno informazioni molto parziali, perché monadiche, gli eletti (purché abbiano i soldi per pagarsi le informazioni, soldi ben spesi) ne hanno di molto esatte, almeno sulle credenze degli elettori. Da una parte, i politici sono visibilissimi, ma questi sono fatti loro, se lo scelgono attraverso una frequentazione compulsiva dei social. Dall’altra, ed è più significativo e drammatico, abbiamo il passaggio dei politici da classe dirigente a classe diretta, perché quello a cui rispondono non è una opinione pubblica vaga e impalpabile, ma una rappresentazione esatta del gradimento e dei desideri degli elettori. E se prevale, poniamo, la dottrina della luna fatta di formaggio, allora sarà politicamente doveroso dar vita alla lega del formaggio e al movimento della luna.
Di solito, le idee balzane e i sentimenti complottisti sono il frutto immaginario di disagi paure reali, per esempio rispetto al lavoro. È un fatto che c’è sempre meno lavoro e non è chiaro come potrà tornare. Da questo punto di vista, bisognerebbe distogliere gli occhi dal complotto della luna e dei mercati e considerare un fatto a cui pochi prestano attenzione. Mentre soddisfiamo i nostri bisogni ed esprimiamo le nostre idee, creiamo enormi archivi su noi stessi, sulle nostre abitudini, sulle nostre regole e sui nostri strappi alla regola. Così facendo, lavoriamo, gratis e senza saperlo, perché produciamo una ricchezza molto superiore a quella dei soldi. Un capitale che non si limita a dare informazioni su quanto possiamo spendere, ma su quello che siamo e quello che vogliamo. Mentre rinunciamo spensieratamente alla privacy, produciamo ricchezza. Ora, la privacy non ha prezzo, e non è chiaro come possa essere tutelata.
Ma il lavoro che produciamo un prezzo ce l’ha, può essere quantificato, e deve essere pagato dalle piattaforme senza gravare sui bilanci degli Stati. Riducendo lo scontento sociale, e magari rendendo più onorevole, fattibile, e gratificante, il compito politico di servire un popolo meno impaurito e arrabbiato.