venerdì 5 ottobre 2018

Il Fatto 5.10.18
Happy hour sì ma nel weekend. Lo diceva Platone
Dall’Atene di Platone all’Inghilterra di oggi: il vino abbatte i nostri freni inibitori. L’importante è non ricordarsene
Happy hour sì ma nel weekend. Lo diceva Platone
di Laura Pepe


Quando arriva la sera del venerdì, gli anglofoni danno il benvenuto al fine settimana con l’espressione Thank God It’s Friday (ormai più popolare nella forma dell’acronimo Tgif): i cinque giorni consacrati al lavoro vengono momentaneamente congedati per lasciare spazio alla baldoria del sabato e della domenica. Chi può permetterselo riesce a trovare anche all’interno della settimana un momento di stacco: è l’happy hour, quell’“ora felice” in cui bar e locali alla moda si popolano per rifocillare i lavoratori con drink a prezzo ridotto. A prescindere dall’occasione specifica, weekend e cocktail pre-cena sono il segno di una netta cesura tra le ore intense della concentrazione lavorativa e quelle leggere da dedicare allo svago.
È, questo, il frangente della cosiddetta cultural remission, una distensione istituzionalizzata del controllo sociale sul comportamento che normalmente ci si aspetta dall’individuo. E non è un caso che, di regola, la transizione da un momento all’altro sia suggellata da un brindisi alcolico, a significare che il self-control, e la sobrietà che necessariamente gli si accompagna, possono cedere il passo all’allentamento dei freni inibitori che l’alcol favorisce. È evidente che perdere lucidità è inammissibile in orario di ufficio, ma è del tutto accettabile quando non si lavora più; e che colui che contravviene alle regole, se anche riesce a scampare a sanzioni più o meno pesanti, è comunque fatto oggetto di biasimo generale.
L’opposizione tra il binomio sobrietà-lavoro, da un lato, e alcol-tempo libero, dall’altro, non è scoperta recente, invenzione del capitalismo moderno. Al contrario, essa era già ben presente ai nostri antenati greci: i quali, mentre esigevano che si fosse irreprensibili nello svolgimento delle proprie occupazioni quotidiane – soprattutto se di una certa responsabilità –, tolleravano senz’altro che si alzasse impunemente il gomito in quelli che per alcuni versi possono essere definiti gli happy hour dell’antichità: i simposi, momenti istituzionalizzati di “bevuta collettiva” (questo significa in greco symposion), che in diverse polis greche intrattenevano, tra vino e discorsi più o meno impegnati, gli esponenti delle classi aristocratiche.
Prendiamo Atene: una legge attribuita al primo legislatore della città, Solone, puniva addirittura con la pena di morte il magistrato scoperto ubriaco nell’esercizio delle sue funzioni, mentre le testimonianze letterarie abbondano di descrizioni di simposi in cui tutti i partecipanti mostrano chiari i segni di un’ebbrezza più o meno accentuata. A questo proposito, non si può non ricordare il più celebre simposio letterario dell’antichità, quello di Platone: dopo che i simposiasti hanno concluso i loro discorsi su eros, tema prescelto per la serata, irrompe nella sala della bevuta uno tra gli uomini più in vista del tempo, Alcibiade: già abbondantemente brillo perché reduce da un altro simposio. Alcibiade ordina immediatamente che gli sia servita un’immensa coppa, colma di vino fino all’orlo, che egli non esita a vuotare all’istante, mentre tutti gli altri presenti seguono il suo esempio fino a sprofondare, poco dopo, nel sonno. I Greci, insomma, non hanno nulla da dire sull’eccesso alcolico, a patto che questo si manifesti entro il limite spaziale e temporale del simposio. E a patto, inoltre, che ci si procuri l’ubriacatura in modo civile. Già, perché l’ebbrezza del colto simposiasta è ben altra cosa rispetto a quella del rozzo popolino, o degli ancor più rozzi bárbaroi (il termine generico con cui i Greci indicavano chi era ignaro di lingua e di cultura greca), digiuni l’uno e gli altri di quelle nozioni elementari sul “come” bere e “quanto” bere che informano di loro stesse il simposio. Nel simposio vigono infatti norme ben precise sulle modalità in cui assumere vino – che non deve essere mai bevuto akraton, “puro”, ma sempre mescolato con un numero variabile di parti di acqua – e sul numero di coppe da vuotare per raggiungere l’effetto desiderato: si diceva che lo stesso Dioniso, il dio del vino, avesse dettato ai mortali quella che potremmo assimilare a una attuale “tabella di alcolemia” per descrivere gli effetti sul corpo delle diverse quantità di alcol: superate le tre coppe – che regalano salute, piacere e sonno – si inizia a perdere controllo, e l’euforia volge a ebbrezza sempre più intensa.
Proprio grazie a questa attenta regolamentazione, che le conferisce una vera e propria fattura rituale, l’ubriachezza non solo diviene accettabile, ma assurge anche a fatto sociale, a esperienza collettiva da condividere con tutti gli altri partecipanti al simposio. L’importante era, il giorno dopo, riacquistare la solita compostezza, dimenticando ciò che era avvenuto nel simposio: miséo mnámona sympótan, “odio il simposiasta che ricorda”, recitava un proverbio greco, che in termini moderni potremmo liberamente parafrasare con: “what happens in a symposion, stays in a symposion”.