Il Fatto 5.10.18
A lezione di filosofia con Eschilo e Oreste
di Camilla Tagliabue
Da
che parte prendere quattro ore di spettacolo ispirato all’Orestea di
Eschilo? Dalla fine, forse, che poi è anche “il principio”, almeno in
questo adattamento, più che libero, iconoclasta: se abbiamo capito bene,
la compagnia Anagoor prende a pretesto la tragedia classica, paradigma
dell’Occidente, proprio per ribaltare il paradigma dell’Occidente.
L’operazione
è coraggiosa, e proviamo a credere che sia riuscita, ma il paziente è
morto: dell’intelligenza ed eleganza degli Anagoor – quest’anno
insigniti del Leone d’Argento – non si discute, ma la pièce è cerebrale e
farraginosa ai limiti della fruibilità. Sempre se abbiamo capito bene,
gli artisti mettono in discussione la frattura tragica, alla base del
modello occidentale (Io-Dio, soggetto-oggetto, mortale-immortale…),
proponendone addirittura un superamento: verso il “vuoto”, la
dissoluzione del sé, il ritorno al ciclo naturale di morte e rinascita,
in un calderone di rimandi all’Oriente, alle civiltà arcaiche e alla new
age bucolica.
Ma veniamo al teatro: appena passata a Romaeuropa
Festival e prossimamente ospite di alcune piazze europee, l’Orestea
tornerà in Italia a marzo, spacchettata in due tempi – Agamennone e
Schiavi + Conversio –, tradotta ex novo e riscritta da Simone Derai e
Patrizia Vercesi, con l’obiettivo di “descrivere le macerie
dell’Occidente… In Eschilo il collasso del mondo arcaico, lo spezzarsi
del senso mitico del mondo, l’alba della filosofia convergono in una
forma d’arte inaudita che è anche un primo tentativo di prassi
filosofica: la tragedia”.
Sacrificata al tal densità di pensiero è
la trama, pervenuta a metà: si ferma, infatti, prima che Oreste
vendichi il padre e non procede per azioni drammatiche ma per gesti
posticci. Latitano anche i dialoghi e la narrazione vive di monologhi e
spiegazioni, per non chiamarle lezioni, con voli pindarici (“orizzonte
di pensiero”, sic) da Severino a Leopardi, da Virgilio ad Arendt. Alla
filosofia si giustappongono poi brevi cenni di etnografia, antropologia,
“grammatica” (sic) e una moralina finale sull’aggressività e il
colonialismo occidentale, più citazioni spurie dal Talmud ad Apollo – ma
almeno lui era nel copione.
Il pubblico risente dell’ardita
verbosità, e infatti si scioglie – il pubblico rimasto in sala dopo
l’intervallo, ndr – in un applauso a scena aperta a una toccante
coreografia corale (firmata da Giorgia Ohanesian Nardin). Pur dilatato e
cervellotico, l’allestimento è aggraziato, elegante, algido: dalle
videoproiezioni alle luci tutto concorre a creare un’atmosfera
apollinea, a parte qualche barbara distrazione come i fastidiosi flash
stroboscopici, il continuo tappeto sonoro e i canti in tedesco. Gli
attori, sovrastati dal disegno registico, paiono talvolta acerbi o
piagnucolosi, ma la tragedia, a differenza dello psicodramma, vorrebbe
essere sempre di lacrime asciutta.