venerdì 5 ottobre 2018

La Stampa 5.10.18
L’idolo arcaico sembra un Modì
Com’è moderna la scultura di 6 mila anni fa
di Maurizio Assalto


La prima cosa che colpisce, di queste statuine, è la modernità. Fanno pensare all’arte del Novecento: Brancusi, Modigliani, Arp, Moore, il cubismo, l’astrattismo… Invece sono preziosi reperti, in qualche caso autentici capolavori che arrivano da un passato remoto - se non proprio dalla notte dei tempi, dall’aurora della civiltà. Ma parlare di modernità è un capovolgimento di prospettiva, una sorta di paradossale hysteron proteron storico-critico, perché in effetti è stata l’arte moderna a inseguire i progenitori nella loro straordinaria capacità di astrazione e di sintesi figurativa. La seconda constatazione è la grande vicinanza culturale che emerge tra aree lontanissime, come quelle che vanno dalla penisola iberica alla valle dell’Indo, in un’epoca in cui Vicino Oriente e Mediterraneo, con Egitto e Mesopotamia a fare da cerniera, parlavano lo stesso linguaggio artistico e il futuro mare nostrum non era un abisso che separava ma un’autostrada che univa.
È quanto si può constatare a Venezia nella mostra «Idoli. Il potere dell’immagine», curata da Annie Caubet, conservatrice onoraria del Louvre, e aperta a Palazzo Loredan fino al 20 gennaio (con catalogo Skira, disponibile anche in inglese). Cento oggetti (14 provenienti dalla veneziana Fondazione Giancarlo Ligabue, che organizza l’evento, e gli altri dalle maggiori collezioni pubbliche e private internazionali) eccezionalmente per la prima volta accostati in modo da farne risaltare le affinità e le varianti. Un viaggio nello spazio e nel tempo: ottomila chilometri e oltre due millenni di pre- e protostoria, dalla metà del V agli inizi del II, sulle tracce dei modi di rappresentare la figura umana.
L’arco temporale considerato rappresenta uno snodo cruciale nell’avventura dell’Homo sapiens, che vede il passaggio dal tardo Neolitico all’Età del Bronzo, e quindi dai villaggi di agricoltori su base famigliare e tribale alle prime forme di organizzazione urbana centralizzata, resa possibile dall’abbondanza delle risorse da amministrare e ridistribuire. Una grande transizione che avviene pressoché simultaneamente in ognuna delle aree interessate, scandita in tre fasi, corrispondenti a diversi modalità espressive.
Nella prima, che dal 4500-4000 a. C. arriva fino al tardo IV millennio, a predominare sono le figure nude femminili steatopigie (letteralmente: dai glutei grassi), caratterizzate da forme prosperose e attributi sessuali enfatizzati: costruite con un sapiente assemblaggio di volumi parallelepipedi, sferici e cilindrici (in qualche caso sembrano uscite dalla mano di Botero), sono un’immagine di quella Grande Madre che identificandosi con la natura e con il potere riproduttivo della donna rappresenta la più antica forma di divinità concepita dalle comunità di tipo agricolo-stanziale. I materiali impiegati vanno dalla roccia calcarea all’arenaria al marmo al basalto. Fin dal Neolitico gli scambi erano intensi, soprattutto il traffico dell’ossidiana, dalla Sardegna e dall’Anatolia, copriva distanze per l’epoca enormi. Con l’Età del Bronzo i commerci si allargano e intensificano: rame e stagno da Spagna, Anatolia, Cipro e Oman, per produrre la lega che dà il nome all’era, legname dal Tauro e dal Libano, oro e lapislazzuli dall’Afghanistan, corniola dall’India, avorio di ippopotamo ancora dall’India e dall’Africa, diorite dalle coste dell’Oceano Indiano. E con le merci viaggiano le idee.
Verso la fine del IV millennio, in coincidenza con il formarsi delle prime città, s’inizia una nuova fase. La preoccupazione dominante, ossessivamente ribadita, resta quella di assicurare la continuazione della comunità, e per questo la figura femminile è centrale. Ma adesso spogliata di ogni volume in eccesso, ridotta all’essenziale, stilizzata all’estremo, nello sforzo di dare forma visibile per la prima volta a concetti metafisici e a fenomeni misteriosi come la nascita, la morte, la malattia, l’alternarsi delle stagioni, il sorgere e il tramontare del sole. Dalle statuette cruciformi come quella di marmo bianco (ancora tardo-neolitica) ritrovata nell’area sacra di un villaggio nei pressi di Turriga, in Sardegna, di impianto quasi bidimensionale, con il corpo risolto in tre moduli geometrici e soltanto il naso e i seni prominenti (notevole perché il rapporto tra le sue parti si avvicina al valore della sezione aurea, quel P greco che avrà larga applicazione in scultura come in architettura dall’antichità classica al Rinascimento); alle figurine cicladiche in stile Modì, inizi del III millennio, con la testa a forma di lira, le braccia incrociate sul petto e solo il triangolo pubico a evidenziarne il genere; fino all’astrazione estrema degli idoletti a forma di violino, diffusi tra IV e III millennio dalle Cicladi all’Anatolia, o di quelli coevi «a occhi», da Siria e Mesopotamia, con solo due enormi bulbi a sormontare un corpo quadrangolare o semisferico.
In questa fase anche la figura maschile comincia a fare la sua comparsa, spesso fusa con quella femminile in statuette con collo e capo itifallici, forse a idealmente riunificare le componenti separate dell’essere umano. Ma è soprattutto nella fase successiva - III millennio, piena fase urbana - che le differenze di genere si stagliano nette, dalla Mesopotamia all’Oxus, nella rappresentazione naturalistica-idealizzata di un pantheon composito e geograficamente diversificato, composto di dèi e dee ben individuati, a cui si aggiungono mostri mitologici, eroi, sovrani, principesse. Come la cosiddetta Venere Ligabue che è stata la suggestione alla base della mostra: una statuetta assemblata con pezzi diversi di clorite scura e di calcare chiaro, acquistata negli Anni 70 dall’imprenditore Giancarlo Ligabue che a partire da quell’oggetto sviluppò i suoi interessi archeologici verso tutta l’area (riversati nell’88 nell’importante volume sulla Battriana).
A questa e alle altre Dame dell’Oxus, contrapposti come la morte alla vita, il caos al kosmos, la barbarie alla civiltà, fanno da contraltare le numerose raffigurazioni dello Sfregiato, un genio dal corpo ricoperto di squame, incrocio tra uomo, serpente e drago, con l’occhio destro solcato da una profonda ferita, ricordo di una battaglia cosmica che l’ha impegnato contro le potenze dell’ordine. La continuità generativa non è più un problema, adesso la prima preoccupazione è quella di garantire la stabilità organizzativa di una comunità articolata attraverso la collaborazione del sovrano con gli dèi. E in questo processo si moltiplicano e diversificano le varianti locali. La civiltà si è ormai imposta, ma l’ancestrale unità artistica e culturale si perde per sempre.