venerdì 5 ottobre 2018

Repubblica 5.10.18
La proposta di tregua a Israele
La mossa del falco di Hamas
di Gigi Riva


Un cessate il fuoco, hudna in arabo, non è la pace, tantomeno il riconoscimento dello Stato ebraico. E non è la prima volta che Hamas lo propone ad Israele. La novità è che stavolta la richiesta, formulata in un’intervista a Repubblica e al quotidiano di Tel Aviv Yedioth Ahronoth, è di un falco, un duro fra i duri come Yahya Sinwar, 56 anni, ora capo politico del movimento islamista ma in passato uno dei leader militari delle brigate Izz ad- Din al- Qassam, il braccio violento, intransigente, da sempre refrattario a qualunque trattativa con " l’entità sionista". Nessuna reazione ufficiale del governo di Benjamin Netanyahu il cui esercito tuttavia, nelle stesse ore, ha deciso di rafforzare " su larga scala" la propria presenza attorno a Gaza per " contrastare il terrorismo e prevenire infiltrazioni lungo il confine con la Striscia".
Segnali divergenti, tutti da decrittare. Yahya Sinwar si è risolto al passo proprio mentre si rafforzano i venti di una nuova possibile guerra, sarebbe la quarta a Gaza, che una popolazione stremata dall’assedio non potrebbe sopportare. La mossa presenta dunque elementi tattici frutto della disperazione e in contrasto con una biografia che ha posto il suo autore tra i massimi fautori della resistenza terroristica. Nato nel campo profughi di Khan Yunis ( dove il fratello Mohammed continua ad essere il comandante delle brigate), Sinwar fu arrestato una prima volta per " attività sovversiva" quando non aveva ancora vent’anni. Fondatore dell’organizzazione incaricata di individuare le spie israeliane all’interno del movimento palestinese, nel 1989 fu condannato a quattro ergastoli per l’uccisione di due militari. Nel 2011 fu rilasciato nello scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione del soldato Gilad Shalit.
La sua elezione, nel febbraio del 2017, al vertice di Hamas al posto di Ismail Haniyeh è stata interpretata come una svolta estremista. È talvolta vero che la carica cambia le persone e non bisogna dimenticare che una così prolungata esperienza in prigione, un rapporto così stretto e quotidiano col nemico, possono ridurre i più intransigenti a dialoganti: gli israeliani hanno appreso molto, in questo senso, dai britannici che ai tempi dell’impero erano soliti trasformare i prigionieri in interlocutori. Certo Sinwar deve aver avvertito il peso ineludibile della responsabilità nei confronti dei due milioni di abitanti della Striscia. I quali, a 12 anni dalla vittoria nelle urne di Hamas, hanno visto via via peggiorare le loro condizioni di vita, dentro un fazzoletto di terra ermeticamente chiuso, isolati dal mondo, con scarso accesso all’acqua, all’elettricità, al gas. E hanno dovuto scontare, in certi periodi, la carenza di cibo.
Sotto la direzione dell’ex ergastolano, anche i venerdì di lotta della " marcia del ritorno" a 70 anni dalla nakba, la " catastrofe", l’esodo del 1948 dopo la sconfitta militare e la nascita dello Stato d’Israele, si sono trasformati in una carneficina la cui contabilità ammonta ad oggi a 193 morti e 21mila feriti. Dunque c’era bisogno di una svolta, per riconquistare un consenso assottigliato dai rovesci, dopo avere a più riprese sperimentato che la strategia della contrapposizione frontale è totalmente sterile se davanti si ha uno degli eserciti più forti, attrezzati e tecnologicamente avanzati del mondo.
Sinwar chiede allora una hudna, una tregua « ma non sto dicendo che non combatterò più, sto dicendo che non voglio più guerre » . Una guerra aggiunge « non è nell’interesse di nessuno » . Si impegna a rispettare un eventuale cessate il fuoco totale, niente missili rudimentali qassam, niente aquiloni incendiari. In cambio, la tranquillità di poter progettare una rinascita economica che permetta di uscire dall’attuale miseria. Servirebbe per rivaleggiare con l’avversario interno, il movimento secolare Fatah del presidente Abu Mazen, peraltro bollato di recente come " illegale", che nell’altro corno palestinese, la Cisgiordania da lui controllata, sta raccogliendo i frutti di un relativo benessere. Una rottura netta tra le due anime dei palestinesi determinata anche dalle voci per le quali il presidente starebbe per bloccare il trasferimento dei fondi annuali dell’Anp a Gaza, 96 milioni di dollari.
Uscito per anni dal cono di luce dell’informazione perché più stringente era la minaccia dello Stato islamico, l’eterno conflitto israelo- palestinese torna sotto i riflettori e ripropone i suoi irrisolti problemi. Le divisioni nel campo arabo favoriscono senza dubbio il governo di Gerusalemme e la politica dello status quo. Sta ora a Benjamin Netanyahu andare a vedere, come in una partita di poker, se l’offerta di Yahya Sinwar è un bluff per riprendere fiato e riorganizzare i suoi miliziani in vista di una nuova sfida. Per ora la sua risposta è un eloquente silenzio.