Repubblica 5.8.18
Durante lo sgombero degli Spada a Ostia
Io, insultata dalle donne del clan per impedirmi di fare la cronista
di Federica Angeli
ROMA
Bastarda, pappona, infame, te ne devi andare da qui, fai schifo». Le
operazioni di sgombero dell’appartamento al primo piano al numero 20 di
via Ingrao, Nuova Ostia, di Vincenzo Spada e Tamara Suleyman, figlia di
Franchino detto l’iracheno (vecchia "gloria" della Banda della Magliana)
erano ormai agli sgoccioli. Il figlio di quell’Enrico Spada, il più
anziano del clan morto due anni fa, e nipote del boss Carmine al 41bis,
era ancora su a chiudere scatoloni in quella casa che abusivamente
occupava da cinque anni.
Le donne del clan invece erano giù: la
moglie di Ottavio Spada, Desirée Salera e la sorella Alessandra, le zie
di etnia rom in abiti lunghi, circondate da cento tra agenti della
polizia locale, della polizia di Stato, carabinieri.
Poco prima
delle 8 era cominciato lo sgombero, il primo di una serie annunciata di
interventi contro le occupazioni abusive di case popolari da parte del
clan più potente di Ostia, decimato a gennaio da 32 arresti per mafia.
La
strada era chiusa da nastri gialli, oltre la barriera noi cronisti con
taccuini, telefonini e telecamere. Tra loro c’ero anche io. «Dottoressa,
mi raccomando, stia sempre accanto a noi», la raccomandazione della
scorta non manca mai quando per lavoro ci ritroviamo in situazioni
potenzialmente a rischio. Quel pezzo di Ostia per me lo è.
Attorno
alle dieci tiro fuori il telefonino e, come tutti, comincio a scattare
foto verso il braccio meccanico che inizia a raccogliere dal primo piano
mobili e scatoloni della famiglia di Vincenzo Spada per portarli via.
Ed è stato in quel momento che mi è piovuta addosso la rabbia di quattro
donne del clan. Sono corse verso di me gridando insulti, minacce che
non comprendo bene («Fa’ che ti becco da sola senza scorta», leggo
soltanto poi sul verbale dei vigili urbani consegnato alla procura) e un
invito ad andare via.
Gridano in una gara a chi sputa l’ingiuria peggiore: «È tutta colpa tua, stronza», sento.
Un
muro di uomini in divisa si para tra me e loro, il dirigente del
commissariato Eugenio Ferraro e il comandante della polizia municipale
Antonio Di Maggio sono in un attimo a pochi centrimetri uno da me e
l’altro da loro, e impediscono alle donne di fare anche solo un altro
passo nella mia direzione. E mentre continuo a filmare la scena mi
accorgo che i carabinieri della mia scorta mi prendono quasi in braccio e
mi fanno salire sulla nostra auto blindata. Solo a quel punto realizzo
davvero cosa è accaduto ed esco dai panni della cronista. Fino a un
secondo prima stavo solo pensando a fare il mio lavoro: la cronaca di
uno sgombero e della prepotenza di un clan cui rimangono solo le
cartucce dell’ingiuria e della minaccia. Volevo finire il mio servizio,
stare lì fino alla fine, come tutti gli altri. Non ho potuto farlo. Sono
dovuta andare via.
Le due sorelle Solera sono state denunciate
per minacce dai vigili urbani e Vincenzo Spada e famiglia ora devono
trovarsi un altro alloggio. Questa è la cronaca.
Con o senza di me lì, sul posto.