venerdì 5 ottobre 2018

Repubblica 5.8.18
Durante lo sgombero degli Spada a Ostia
Io, insultata dalle donne del clan per impedirmi di fare la cronista
di Federica Angeli


ROMA Bastarda, pappona, infame, te ne devi andare da qui, fai schifo». Le operazioni di sgombero dell’appartamento al primo piano al numero 20 di via Ingrao, Nuova Ostia, di Vincenzo Spada e Tamara Suleyman, figlia di Franchino detto l’iracheno (vecchia "gloria" della Banda della Magliana) erano ormai agli sgoccioli. Il figlio di quell’Enrico Spada, il più anziano del clan morto due anni fa, e nipote del boss Carmine al 41bis, era ancora su a chiudere scatoloni in quella casa che abusivamente occupava da cinque anni.
Le donne del clan invece erano giù: la moglie di Ottavio Spada, Desirée Salera e la sorella Alessandra, le zie di etnia rom in abiti lunghi, circondate da cento tra agenti della polizia locale, della polizia di Stato, carabinieri.
Poco prima delle 8 era cominciato lo sgombero, il primo di una serie annunciata di interventi contro le occupazioni abusive di case popolari da parte del clan più potente di Ostia, decimato a gennaio da 32 arresti per mafia.
La strada era chiusa da nastri gialli, oltre la barriera noi cronisti con taccuini, telefonini e telecamere. Tra loro c’ero anche io. «Dottoressa, mi raccomando, stia sempre accanto a noi», la raccomandazione della scorta non manca mai quando per lavoro ci ritroviamo in situazioni potenzialmente a rischio. Quel pezzo di Ostia per me lo è.
Attorno alle dieci tiro fuori il telefonino e, come tutti, comincio a scattare foto verso il braccio meccanico che inizia a raccogliere dal primo piano mobili e scatoloni della famiglia di Vincenzo Spada per portarli via. Ed è stato in quel momento che mi è piovuta addosso la rabbia di quattro donne del clan. Sono corse verso di me gridando insulti, minacce che non comprendo bene («Fa’ che ti becco da sola senza scorta», leggo soltanto poi sul verbale dei vigili urbani consegnato alla procura) e un invito ad andare via.
Gridano in una gara a chi sputa l’ingiuria peggiore: «È tutta colpa tua, stronza», sento.
Un muro di uomini in divisa si para tra me e loro, il dirigente del commissariato Eugenio Ferraro e il comandante della polizia municipale Antonio Di Maggio sono in un attimo a pochi centrimetri uno da me e l’altro da loro, e impediscono alle donne di fare anche solo un altro passo nella mia direzione. E mentre continuo a filmare la scena mi accorgo che i carabinieri della mia scorta mi prendono quasi in braccio e mi fanno salire sulla nostra auto blindata. Solo a quel punto realizzo davvero cosa è accaduto ed esco dai panni della cronista. Fino a un secondo prima stavo solo pensando a fare il mio lavoro: la cronaca di uno sgombero e della prepotenza di un clan cui rimangono solo le cartucce dell’ingiuria e della minaccia. Volevo finire il mio servizio, stare lì fino alla fine, come tutti gli altri. Non ho potuto farlo. Sono dovuta andare via.
Le due sorelle Solera sono state denunciate per minacce dai vigili urbani e Vincenzo Spada e famiglia ora devono trovarsi un altro alloggio. Questa è la cronaca.
Con o senza di me lì, sul posto.