giovedì 4 ottobre 2018

Repubblica 4.10.18
Rileggere Dante per capire il presente
I leader populisti? Erano già all’Inferno
di Emilio Pasquini


E mangia e bee e dorme e veste panni». Di recente ho partecipato a un convegno, dove questo verso dantesco (che ricorre nel canto XXXIII dell’Inferno per i traditori degli ospiti), veniva associato al termine pagliaccio, nella sua valenza negativa (pagliacci, ma in senso positivo, sono anche Rigoletto e Charlot), volendo alludere alla condizione odierna, dove al vertice della politica stanno personaggi di dubbio spessore culturale e sciolti da ogni fede o ideologia, che pure sembrano uomini normali. Di fatto, però, in Dante la gravità del peccato comporta la dannazione immediata dell’anima, sostituita in terra da un diavolo, e sembrerebbe davvero eccessivo vedere in chi ci governa dei diavoli incarnati: troppo facile ricorrere a un periodico non sospettabile di furia rivoluzionaria come Famiglia Cristiana, la quale nel luglio scorso recava in copertina l’effigie del nostro ministro dell’Interno, accompagnata dalla scritta «Vade retro».
Eppure la mia fiducia nella genialità profetica dei grandi poeti non rinuncia facilmente a cercare una possibile spiegazione di una situazione drammatica, che pare irreversibile. Salta agli occhi la capacità che hanno gli attuali dirigenti politici (anche oltreoceano) di rimanere uguali a se stessi esternamente («e mangia e bee e dorme e veste panni…»), ma insieme di cambiare continuamente identità e di darsene ogni giorno una nuova.
Facciamo un passo avanti, affidandoci alla virtù profetica di un altro poeta, Eugenio Montale.
Nella Lettera a Malvolio, nel Diario del ’71 e del ’72, egli tratteggia la figura di un intellettuale integrato, che continuamente si adegua alle trasformazioni e alle contraddizioni del sistema, incapace «di un rispettabile / prendere le distanze». Che era invece l’atteggiamento del poeta, del resto abbastanza scontato sotto le dittature del primo Novecento, ma più difficile da preservare «dopo che le stalle si vuotarono, / l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto». Una condizione nuova in cui questo intellettuale "liquido" si muoveva perfettamente a suo agio: «Con quale agilità rimescolavi / materialismo storico e pauperismo evangelico…».
L’allusione colta alle stalle di Augìa, legate al mito di Ercole ma qui metafora della corruzione di fascismo e nazismo, richiama un altro e fondamentale testo, quella Botta e risposta I, del 1961, che apre il quarto libro di Montale,
Satura: un dittico dove a una lettera da Asolo in cui un’amica esorta il poeta a uscire dalla sua solitudine sdegnosa, senza sottrarsi ai dibattiti culturali con gli altri intellettuali di successo, fa riscontro una risposta in cui l’autore abbozza una sorta di autobiografia: «Uscito appena dall’adolescenza, / per metà della vita fui gettato / nelle stalle di Augìa…». Nato infatti nel 1896, egli aveva appena ventisei anni quando in Italia esplose il fascismo di Mussolini; ed ecco il dittatore circondato dai suoi sicari in armi, fra il puzzo della corruzione e i «muggiti umani», mentre il poeta si affidava, per sopravvivere, ai suoi amuleti salvifici. Poi, il tonfo, l’incredibile, il crollo delle dittature e la fine della guerra; ma quasi subito subentravano le delusioni del dopoguerra, col fetore della corruzione e l’arrivismo di politici spregiudicati. Ma soprattutto l’atroce dubbio di trovarsi davanti degli zombie, cervelli vuoti di ideali e spogli di ogni moralità: «Erano uomini forse, / veri uomini vivi / i formiconi degli approdi?».
Certo le conclusioni della risposta montaliana lasciano intendere perché il poeta non potesse rispondere positivamente all’invito della sua interlocutrice: «Ma ora / che sai tutto di me, / della mia prigionia e del mio dopo; / ora sai che non può nascere l’aquila / dal topo».
Insomma, la cupa diagnosi montaliana, stilata per giunta in un’epoca di promettente sviluppo, il cosiddetto "miracolo economico" italiano, suona come una geniale previsione di quanto oggi stiamo sperimentando, mentre ci domandiamo se la classe dirigente degli ultimi decenni fosse formata da uomini vivi ovvero da formiconi degli approdi, cioè da sfacciati arrivisti che in testa avevano soltanto una smania di potere e una bramosia di arricchimento. Non che siano meglio gli attuali detentori del governo, i quali giocano solo sulla legittima reazione alle malefatte del passato, senza neppure un’ombra di autentica democrazia: una sagra di incompetenti dominata dalla dittatura della Rete. Alla classe politica dell’ultimo trentennio, costellata di tanti formiconi, si contrappone oggi una strategia distruttiva fondata sul populismo e sull’ignoranza.
In questi termini, si consuma un sostanziale tradimento della grande tradizione laica e illuministica che ha nutrito e costruito l’Europa moderna, con tutti i suoi limiti. In qualche modo si ritorna, così, a Dante, come per un tragico aggiornamento del destino da lui assegnato alla peggiore specie di traditori: ciò che oggi si tradisce, mentre la vita sembra continuare più o meno uguale («e mangia e bee e dorme e veste panni…»), è la storia, il passato, dunque anche il futuro. Da un simile presente sarà molto difficile rinascere; ma in ogni caso (ha ragione Massimo Cacciari) occorre reagire con tutte le nostre energie, almeno da parte di chi crede ancora nei valori della democrazia.