Repubblica 4.10.18
Rileggere Dante per capire il presente
I leader populisti? Erano già all’Inferno
di Emilio Pasquini
E
mangia e bee e dorme e veste panni». Di recente ho partecipato a un
convegno, dove questo verso dantesco (che ricorre nel canto XXXIII
dell’Inferno per i traditori degli ospiti), veniva associato al termine
pagliaccio, nella sua valenza negativa (pagliacci, ma in senso positivo,
sono anche Rigoletto e Charlot), volendo alludere alla condizione
odierna, dove al vertice della politica stanno personaggi di dubbio
spessore culturale e sciolti da ogni fede o ideologia, che pure sembrano
uomini normali. Di fatto, però, in Dante la gravità del peccato
comporta la dannazione immediata dell’anima, sostituita in terra da un
diavolo, e sembrerebbe davvero eccessivo vedere in chi ci governa dei
diavoli incarnati: troppo facile ricorrere a un periodico non
sospettabile di furia rivoluzionaria come Famiglia Cristiana, la quale
nel luglio scorso recava in copertina l’effigie del nostro ministro
dell’Interno, accompagnata dalla scritta «Vade retro».
Eppure la
mia fiducia nella genialità profetica dei grandi poeti non rinuncia
facilmente a cercare una possibile spiegazione di una situazione
drammatica, che pare irreversibile. Salta agli occhi la capacità che
hanno gli attuali dirigenti politici (anche oltreoceano) di rimanere
uguali a se stessi esternamente («e mangia e bee e dorme e veste
panni…»), ma insieme di cambiare continuamente identità e di darsene
ogni giorno una nuova.
Facciamo un passo avanti, affidandoci alla virtù profetica di un altro poeta, Eugenio Montale.
Nella
Lettera a Malvolio, nel Diario del ’71 e del ’72, egli tratteggia la
figura di un intellettuale integrato, che continuamente si adegua alle
trasformazioni e alle contraddizioni del sistema, incapace «di un
rispettabile / prendere le distanze». Che era invece l’atteggiamento del
poeta, del resto abbastanza scontato sotto le dittature del primo
Novecento, ma più difficile da preservare «dopo che le stalle si
vuotarono, / l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto». Una
condizione nuova in cui questo intellettuale "liquido" si muoveva
perfettamente a suo agio: «Con quale agilità rimescolavi / materialismo
storico e pauperismo evangelico…».
L’allusione colta alle stalle
di Augìa, legate al mito di Ercole ma qui metafora della corruzione di
fascismo e nazismo, richiama un altro e fondamentale testo, quella Botta
e risposta I, del 1961, che apre il quarto libro di Montale,
Satura:
un dittico dove a una lettera da Asolo in cui un’amica esorta il poeta a
uscire dalla sua solitudine sdegnosa, senza sottrarsi ai dibattiti
culturali con gli altri intellettuali di successo, fa riscontro una
risposta in cui l’autore abbozza una sorta di autobiografia: «Uscito
appena dall’adolescenza, / per metà della vita fui gettato / nelle
stalle di Augìa…». Nato infatti nel 1896, egli aveva appena ventisei
anni quando in Italia esplose il fascismo di Mussolini; ed ecco il
dittatore circondato dai suoi sicari in armi, fra il puzzo della
corruzione e i «muggiti umani», mentre il poeta si affidava, per
sopravvivere, ai suoi amuleti salvifici. Poi, il tonfo, l’incredibile,
il crollo delle dittature e la fine della guerra; ma quasi subito
subentravano le delusioni del dopoguerra, col fetore della corruzione e
l’arrivismo di politici spregiudicati. Ma soprattutto l’atroce dubbio di
trovarsi davanti degli zombie, cervelli vuoti di ideali e spogli di
ogni moralità: «Erano uomini forse, / veri uomini vivi / i formiconi
degli approdi?».
Certo le conclusioni della risposta montaliana
lasciano intendere perché il poeta non potesse rispondere positivamente
all’invito della sua interlocutrice: «Ma ora / che sai tutto di me, /
della mia prigionia e del mio dopo; / ora sai che non può nascere
l’aquila / dal topo».
Insomma, la cupa diagnosi montaliana,
stilata per giunta in un’epoca di promettente sviluppo, il cosiddetto
"miracolo economico" italiano, suona come una geniale previsione di
quanto oggi stiamo sperimentando, mentre ci domandiamo se la classe
dirigente degli ultimi decenni fosse formata da uomini vivi ovvero da
formiconi degli approdi, cioè da sfacciati arrivisti che in testa
avevano soltanto una smania di potere e una bramosia di arricchimento.
Non che siano meglio gli attuali detentori del governo, i quali giocano
solo sulla legittima reazione alle malefatte del passato, senza neppure
un’ombra di autentica democrazia: una sagra di incompetenti dominata
dalla dittatura della Rete. Alla classe politica dell’ultimo trentennio,
costellata di tanti formiconi, si contrappone oggi una strategia
distruttiva fondata sul populismo e sull’ignoranza.
In questi
termini, si consuma un sostanziale tradimento della grande tradizione
laica e illuministica che ha nutrito e costruito l’Europa moderna, con
tutti i suoi limiti. In qualche modo si ritorna, così, a Dante, come per
un tragico aggiornamento del destino da lui assegnato alla peggiore
specie di traditori: ciò che oggi si tradisce, mentre la vita sembra
continuare più o meno uguale («e mangia e bee e dorme e veste panni…»), è
la storia, il passato, dunque anche il futuro. Da un simile presente
sarà molto difficile rinascere; ma in ogni caso (ha ragione Massimo
Cacciari) occorre reagire con tutte le nostre energie, almeno da parte
di chi crede ancora nei valori della democrazia.