giovedì 4 ottobre 2018

Corriere 4.10.18
Alberi blu e colline rosse
La stagione «en plein air» lasciò il posto a uno sguardo fatto di simboli e psicologia
di Francesca Bonazzoli


«Un consiglio — suggeriva Paul Gauguin nel 1888 ai suoi amici pittori —. Non dipingete troppo dalla natura. L’arte è un’astrazione; prendetela dalla natura sognando al suo cospetto». Il messaggio era chiaro: abbasso la verosimiglianza e la mimesi del reale.
Un cambiamento di prospettiva cui spesso non si dà abbastanza peso. Tutti, infatti, ci siamo abituati a usare con noncuranza la formula cumulativa «Impressionisti e Postimpressionisti» come se la differenza fra gli uni e gli fosse tutto sommato trascurabile visto che per i secondi nessun critico si è disturbato ad inventare una definizione, ma solo ad aggiungere un prefisso. Eppure, dietro quel semplice «post», si cela un’altra sensibilità artistica, addirittura opposta alla prima.
Il termine postimpressionismo fu introdotto nel 1910 dal critico inglese Roger Fry in occasione della mostra «Manet e i post-impressionisti» alle Grafton Galleries di Londra. La pittura naturalista, en plein air, alla ricerca degli effetti di luce mutevoli e dell’impressione sfocata che l’occhio percepisce di un insieme di colori, veniva sostituita da una maggiore solidità dei volumi, da immagini antinaturalistiche e da un colore non corrispondente alla realtà, ma simbolico ed emotivo. Si aggiungeva, anche, un cambiamento della temperatura psicologica che passava dalla spensieratezza con cui gli Impressionisti ritraevano persino il misero mondo di sartine, modelle e ballerine, alla malinconia delle sfatte demi-mondaine di Toulouse-Lautrec, dei volti sempre perplessi di Van Gogh e Gauguin. Anch’egli, nonostante i gialli, i rossi, i verdi e i rosa degli idilli polinesiani, aveva un’anima che volgeva al bruno, sofferente tanto quanto quella dell’amico Van Gogh che per lui si era tagliato l’orecchio.
Prima di dedicarsi alla pittura, la sua vita sembrava avviata lungo i binari dritti di una tranquilla esistenza borghese: impiegato in un’agenzia di cambio, sposo di una ricca ragazza danese e padre di cinque figli. Ma con il crollo della borsa in Europa, nel 1883, cadde a pezzi anche il suo fragile equilibrio. Il desiderio di dedicarsi all’arte divenne incontenibile, costasse anche una vita di stenti, malattie e depressione come quella che l’aspetterà da lì alla morte e lo inseguirà fino alle isole Marchesi dove si spense dopo aver sobillato i nativi a non pagare le tasse ai francesi e a non mandare i figli alla scuola missionaria.
Poteva, un uomo così, dipingere in maniera convenzionale i tronchi degli alberi con il marrone e le foglie con il verde? Poteva accontentarsi di copiare la realtà così come la vediamo tutti? «Niente è stato mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non per uscire, di fatto, dall’inferno», ha scritto Antonin Artaud. E Gauguin ha tentato di uscire dalle fiamme della sua mente scegliendo di forzare i colori in simboli, ma al punto che persino i Simbolisti, i primi ad apprezzarlo, lo abbandonarono.
Nella sua pittura non ci sono misteri ed enigmi posti da Sfingi o Sirene; non ci sono fiabe, ma solo domande da scolpire sulla pietra: «Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?», come recita il titolo di un suo celebre quadro. Le forme sono potentemente riassunte e semplificate. I colori arbitrari e antinaturalistici: gli alberi blu e le colline rosse per appellarsi all’emozione scavalcando il mito, la cultura, l’interpretazione dei sogni. In sostanza, lasciando alle spalle la civiltà occidentale, come auspicava: «Che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui».