Repubblica 29.10.18
La fidanzata di Traini " Luca e i suoi fantasmi la mia vita con lui sull’orlo della follia"
Intervista di Fabio Tonacci,
MACERATA
Per otto mesi e mezzo la fidanzata di Luca Traini è stata un fantasma.
C’era, ma non c’era. Era mescolata ai giornalisti in Tribunale il giorno
in cui è stato condannato a dodici anni per strage aggravata dall’odio
razziale, e nessuno se n’è accorto.
«Quando Luca è uscito, ha
alzato il pollice... non era un gesto di spocchia, mi stava salutando». È
qui, seduta al Caffé Centrale di Macerata, universitaria in mezzo ad
altri studenti universitari che la salutano e ignorano di chi sia.
«Pochi
sanno della nostra relazione, cominciata nell’aprile del 2017. Finora
sono rimasta zitta ma adesso voglio spiegare chi è davvero Luca e perché
ha fatto ciò che ha fatto».
Le regole d’ingaggio di
quest’intervista Giulia le ha messe in chiaro fin da subito, quando
l’abbiamo contattata al telefono dopo alcune dichiarazioni rilasciate
sulla cronaca locale del Resto del Carlino. Intende rimanere anonima,
niente nome vero, niente foto. «Perché quando uscirà dal carcere, ci
sposeremo e ci rifaremo una vita insieme.
Lo amo e non lo
considero un delinquente. Si è reso conto del male che ha fatto, il suo
pentimento è reale, ve lo assicuro...». Parla col cuore, Giulia. E il
cuore la trascina in una missione al limite dell’impossibile: dimostrare
che Luca Traini, fascista per convinzione e xenofobo per sentenza, non è
un razzista. «È solo una persona confusa, con momenti di matto».
Il 3 febbraio è uscito di casa e ha sparato ai neri. Solo ai neri.
«È
stato un gesto orribile che io condanno totalmente. Luca l’ha fatta
grossa e deve pagare, però il suo fascismo è solo di facciata.
Ha
la croce celtica tatuata sul braccio, sulla macchina teneva un cero di
Mussolini (lo stesso che dopo il raid ha lasciato a Pollenza, nel luogo
dove era stato ritrovato il cadavere mutilato di Pamela Matropietro,
ndr), e sì, faceva il saluto romano, ma era per scherzo, non gli dava
l’importanza che gli diamo noi».
Leggeva il Mein Kampf di Hitler.
«Non
lo considerava certo la Bibbia. L’ho visto andare due volte ai raduni
di Forza Nuova, e a diversi appuntamenti della Lega perché gli piace
Salvini: durante la campagna elettorale stava ai gazebo e partecipava
alle cene del partito».
Pensa che certi messaggi anti-migranti diffusi da Salvini in quel periodo abbiano avuto un effetto su di lui?
«Secondo
me, sì. Non dico che siano stati la causa del raid, ma Luca ne era
stato influenzato perché è un ragazzo fragile e condizionabile».
Un fragile e condizionabile fascista che solo per caso non ha ammazzato nessuno.
«Non credo che volesse veramente uccidere. E non conoscete l’intera storia».
Ce la spieghi, allora.
«Ogni tanto mi facevo di cocaina, di canne e di metamfetamina.
Luca
era ossessionato da questo, perché c’era già passato con la precedente
fidanzata tossicodipendente. Mi teneva ore al telefono per impedirmi di
andare ai rave. Una volta mi sfasciò la macchina, spaccando un
finestrino con un cazzotto».
L’ha mai picchiata?
«No, mai.
Mi disse però che gli spacciatori li avrebbe fatti fuori tutti. In
un’altra occasione per la rabbia gettò dal terrazzo il telefono. Dava di
matto, ma riuscivo a calmarlo. Mi è sempre stato vicino, è grazie a lui
che ne sono uscita. Diciamo che io ho riempito il vaso, Pamela è stata
la goccia».
Che successe prima del raid?
«Dopo la notizia
del ritrovamento del corpo di Pamela, si infuriò con me. Mi urlava:
"Guarda che hanno fatto gli spacciatori". Litigammo furiosamente. Il
venerdì sera l’ho chiamato per andare al cinema, ma lui non ha
voluto...». (Giulia ritrova su whatsapp la chat con "Lupo", il suo
ultimo messaggio è del 2 febbraio alle 19.50: «Allora vado a cena da
nonna, te chiamo quando ho fatto. Dai. Buon appetito». Traini risponde:
«Ok».)
Lo chiama "Lupo" anche lei?
«Sì, tutti lo chiamiamo così.
Premetto
che Luca conosce tanta gente, ma non ha neanche un amico vero. Il
soprannome risale a quando a Tolentino faceva la guardia alle case dei
terremotati: rimaneva per ore sotto la neve, da solo, di notte. Come un
lupo».
Torniamo al sabato del raid.
«Mi ha chiamato alle 9.30 mentre stava andando in palestra.
Voleva
incontrarmi per fare la pace, ma io ero ancora indispettita per il
rifiuto della sera prima e gli ho attaccato il telefono in faccia. Non
dico che la sparatoria sia stata colpa mia, però se fossi andata da lui
non sarebbe successa. A mezzogiorno e mezzo mi ha richiamato. Non
dimenticherò mai cosa mi ha detto: "Ti lascio.
Non ti posso spiegare. Ho fatto una cosa brutta. Scusa.
Promettimi
che non ti butterai più sulla droga. Ti amo". Poi ha staccato il
telefono. Non ho realizzato subito, ma quando ho visto in televisione la
sua macchina, ho capito che aveva di nuovo dato di matto».
Aveva dato di matto? Lei sta un po’ sottovalutando i fatti.
«Luca
soffre di un disturbo di personalità borderline. È bipolare, e me ne
sono accorta cercando su Internet. Ha tutti i sintomi di quel disturbo:
gli sbalzi di umore, la paura dell’abbandono...».
Veramente la perizia della procura ha escluso la malattia mentale.
«Ho
vissuto accanto a Lupo per otto mesi, lo conosco meglio del perito.
Quando gli prendono i cinque minuti di matto, gli cambia la voce e la
fisionomia del suo volto».
E allora perché non lo avete portato da un medico?
«Non ci è mai voluto andare. A volte ammetteva di avere un problema, altre volte negava. Ma, ripeto, non è un razzista».
In carcere cosa fa?
«Sta
bene, ha anche un amico che è stato un brigatista rosso, o qualcosa del
genere. Lavora, fa le pulizie e gli danno 200 euro al mese. Ha saputo
della morte di Desireé a Roma e mi ha chiesto di fare le condoglianze
alla famiglia della ragazza».