domenica 28 ottobre 2018

Repubblica 28.10.18
Intervista a Ilaria Cucchi
"Da Nistri parole di cui avevo bisogno ma troverò pace solo con la verità"
di Maria Novella De Luca


ROMA «Sì, forse siamo davvero a una svolta e si sta sgretolando la congiura del silenzio. Ieri per la prima volta mi sono svegliata e ho sentito di non dover chiedere scusa a Stefano per quello a cui l’abbiamo sottoposto in questi nove anni. Perché la verità ormai è sotto gli occhi di tutti. Ma quello che non mi dà pace è pensare a quante volte nelle aule di tribunale ci dicevano: carabinieri e polizia sono con voi, vogliono giustizia per Stefano. E invece ripetevano bugie, organizzavano depistaggi, spargevano menzogne sulla pelle di un povero ragazzo».
Parla come sempre con la voce venata di amarezza Ilaria Cucchi, mentre commenta la lettera del comandante generale dei carabinieri Giovani Nistri, pubblicata ieri su Repubblica, in risposta all’editoriale del direttore, Mario Calabresi.
«Il comandante generale dell’Arma dovrebbe rispondere a una situazione straordinaria con un segnale altrettanto straordinario, con parole definitive che stronchino la catena dei sospetti e indichino una strada di riscatto», ha scritto Calabresi. Ieri la risposta di Nistri: «Chi si rende colpevole di reati infamanti, non potrà più indossare la divisa».
«Sono parole che ha bisogno di sentirsi dire un cittadino perbene», risponde pacata Ilaria.
Ilaria, si è rotta l’omertà dell’Arma?
«Speriamo. Accolgo con fiducia la promessa del comandante Nistri.
Con la fiducia che ha sempre caratterizzato i rapporti tra la mia famiglie e le forze dell’ordine.
Certo, continuo a chiedermi cosa sarebbe accaduto se non ci fossimo stati noi. Se ci fossimo arresi. Mio padre, mia madre, io stessa, sempre più provati, mentre in tanti appartenenti allo Stato ci insultavano e minacciavano i loro colleghi che avevano avuto il coraggio di parlare. Saremmo arrivati così in alto?».
Nove anni di calvario e dolore. Adesso però la verità affiora.
«Una verità sconvolgente. Capite che mentre noi in tribunale combattevamo per trovare i colpevoli del pestaggio di Stefano, "loro" lavoravano per nascondere le prove? Perché un qualunque cittadino che sbaglia può essere processato e chi indossa una divisa no? Ma adesso i colpevoli forse pagheranno davvero, altrimenti l’intera Arma ne uscirà infangata. A discapito di tutte quelle donne e uomini perbene che lavorano nelle forze dell’ordine.
Ora che sulla morte di Stefano la luce si fa più chiara, lei ha detto che alla sua famiglia è stato restituito l’onore.
«È ormai evidente che la mia famiglia ha sempre e soltanto combattuto a fianco delle istituzioni. Nonostante le istituzioni abbiano consentito che affrontassimo anni di dolore e di processi sbagliati, sapendo quali erano le vere responsabilità».
Lei era stata molto critica con il generale Nistri, dopo il vostro recente incontro.
«In quell’occasione, in cui forse mi avrebbe dovuto porgere delle scuse, aveva invece attaccato i carabinieri che hanno rotto il muro di omertà su quella notte.
Ma ho apprezzato la sua lettera, in cui annuncia che chi commettere reati così infamanti, non potrà più indossare la divisa».
Prima però bisognerà aspettare la conclusione del processo contro i carabinieri accusati di aver pestato Stefano.
«Non possiamo fermarci adesso.
So che sarà una strada in salita. Poi ripenso, però, al corpo di Stefano massacrato dalle sevizie, a quei due energumeni che forse si sono divertiti a pestarlo, allora mi dico che andremo fino in fondo».
E i suoi genitori?
«Sono stanchi, stanchissimi. Pensi che mio padre ogni sera rivede il film su Stefano. E giorno dopo giorno costruisce con le sue mani una nuova tomba per lui. In una bella valle scaldata dal sole. Ma non è giusto che un padre costruisca la tomba del figlio. Poi verrà il tempo di salutare mio fratello».
Perché? Non avete avuto ancora il tempo del lutto?
«No. Ci vuole pace per elaborare il lutto. Noi siamo ancora in battaglia. Soltanto quando tutta la verità sarà accertata potremo dire a Stefano "ciao, riposa in pace". E finalmente, anche noi, piangere la sua morte».