Corriere La Lettura 28.10.1
Il quarto illuminismo
Edward G. Wilson, Le origini della creatività, a cura di Telmo Pievani
Ha fondatola sociobiologia
di Mauro Bonazzi
Quando
era ancora giovane, all’inizio di una carriera che si sarebbe rivelata
folgorante, Edward Wilson, il futuro padre della sociobiologia, andò in
visita da un eminente collega di Harvard. Era un entomologo ancora poco
conosciuto fuori dagli ambienti accademici, di nome faceva Vladimir
Nabokov. Parlarono a lungo, di farfalle, soprattutto di quelle
sconosciute, e di tutto quello che ancora attende di essere scoperto
nell’universo. Anche Aristotele, il filosofo per eccellenza, si
accalorava per ragioni analoghe: «Non si deve nutrire un infantile
disgusto verso lo studio dei viventi più umili», scriveva, «in tutte le
realtà naturali c’è qualcosa di meraviglioso». Non sembrano argomenti
particolarmente intriganti. In realtà sono questioni di vitale
importanza, se solo si capisce che cosa c’è in gioco. La spiegazione,
comunque, era già nelle farfalle, quelle ancora da scoprire e quelle che
svolazzano davanti a noi tutti i giorni.
«Effimero» è l’aggettivo
che viene usato per descriverle. È una parola greca, letteralmente
significa «di un giorno». Così sono le farfalle, belle nella loro
fragilità, che dura lo spazio di un momento prima di rieclissarsi nel
nulla da cui sono emerse. Qual è il senso, o il valore, dell’esistenza
di una farfalla nella storia dell’universo che si dispiega davanti a
noi? È lo scandalo della morte, che toglie colore a tutto.
I
Greci, però, quell’aggettivo non lo riferivano alle farfalle. Lo usavano
per parlare di noi, i mortali per eccellenza. Di fronte al precipitare
dei secoli, in questi spazi infiniti che mai potremo percorrere, quale
sarebbe la differenza rispetto alle farfalle? Forse nessuna. O forse sì,
qualche differenza c’è. Diversamente dalle farfalle possiamo pensare,
ad esempio, porci domande, cercare di capire e conoscere. Magari le cose
non sono come sembrano, magari il tutto che ci circonda non è così
privo di senso come sembra. Il desiderio di conoscere non è la semplice
curiosità di alcuni personaggi eccentrici che un po’ di erudizione
basterà a soddisfare. Conoscere è un bisogno: scoprire il senso della
nostra esistenza — nella convinzione che un senso c’è. Non è vero che la
nostra vita è priva di valore e che noi passeremo invano. È una ricerca
che non accomuna solo scienziati e filosofi. Anche il monaco sperduto
nel deserto era in cerca delle stesse risposte, seppur per altre vie:
scoprire il disegno che dà bellezza a tutto, che per lui si chiamava
Dio.
Niente di sorprendente per il padre della biologia e della
scienza, il solito Aristotele: anche per lui l’obiettivo ultimo, il fine
più alto, era arrivare a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Non è
una vita umana quella di chi non si chiede che cosa sia nato a fare.
Vedere con gli occhi di Dio significa comprendere che c’è un posto per
noi in questa immensità: il disordine era solo apparente, intorno si
dispiega un disegno ordinato, in cui tutto (persino la farfalla, persino
noi) ha un suo valore. La morte, che vuole togliere senso a tutto, è
sconfitta. La felicità è tutta qui, nella consapevolezza che quello per
cui viviamo, combattiamo o soffriamo ha valore, merita di essere
perseguito.
«I fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una
conoscenza che non potranno perdere». Lo ha detto uno dei più grandi
fisici del Novecento, Julius Oppenheimer. L’allusione riguarda Adamo ed
Eva: anche loro, in fondo, desideravano la conoscenza, quando avevano
colto la mela. Il serpente, oggi, è la scienza: difficile esprimere
meglio i cambiamenti che hanno investito il nostro mondo. Muovendo dalle
stesse esigenze e dagli stessi bisogni, scienza, filosofia e religione
hanno sempre cercato di conquistare il centro della scena, intrecciando
tra di loro relazioni complicate. Il posto centrale, in questi ultimi
anni, è occupato dai saperi scientifici, in forza di successi
incontrovertibili che hanno spinto molti a sostenere che ormai alla
filosofia resta solo da accodarsi, se vuole conservare qualche speranza
di sopravvivere, e sulla religione non c’è quasi più nulla da dire. Con
la rivoluzione scientifica del Seicento, che alcuni chiamano oggi il
secondo illuminismo (contrapposto al primo illuminismo greco, di
Socrate, Platone e Aristotele) la nostra comprensione dell’universo e di
noi stessi è radicalmente cambiata. C’era l’universo ordinato di
Platone e Aristotele, che ogni lettore di Dante conosce, con la Terra al
centro di tutto e l’uomo al centro della Terra, osservatore
privilegiato di questo spettacolo divino. E c’è l’universo degli
scienziati moderni e contemporanei, infinito e tumultuante, in cui la
Terra occupa una posizione assolutamente marginale e la vita degli
uomini è il risultato di una fortunata coincidenza e di millenni di
evoluzione. Sarebbe difficile, in effetti, o meglio assurdo, continuare
come se nulla fosse cambiato. Ma i problemi rimangono.
Oppenheimer
pronunciò quella frase durante gli esperimenti sulla bomba atomica. È
una frase angosciante, ed è la descrizione perfetta della condizione
moderna. Conoscere per Aristotele e Dante voleva dire contemplare Dio,
vedere il mondo con i suoi occhi, comprendere il disegno che tiene tutto
insieme. Ma non era solo quello, come aveva spiegato Platone e
avrebbero chiarito ancora meglio i grandi arabi, Avicenna ad Averroè,
esponenti anch’essi di un illuminismo che, dal punto di vista
cronologico, risulta quindi il secondo: chissà perché ci dimentichiamo
sempre di chi non è europeo o americano.
Il punto decisivo era
che, conoscendo ciò che è, si sarebbe conosciuto anche ciò che è bene e
ciò che è male. Dio, il creatore del cielo e della terra, l’arbitro del
bene e del male. Il primo «illuminismo», quello di Platone e Aristotele,
per usare le categorie di Wilson, e il secondo illuminismo arabo
portavano direttamente a Dio (il che spiega tra l’altro l’uso che
Ratzinger faceva dell’espressione: in questi termini è legittimo parlare
persino di illuminismo cristiano), e alla conoscenza del bene.
Nell’universo di Oppenheimer, derivante dal terzo illuminismo di matrice
scientifica, ci sono solo particelle che si fondono. E mentre prendeva
forma il progetto della bomba, se ne chiariva la portata mostruosa.
Dubbi e perplessità tra gli scienziati non mancarono. Ma la gioia di
scoprire i misteri profondi dell’universo, l’atomo e le sue proprietà,
era qualcosa di ancora più grande e travolgente. Questo significava
l’allusione al peccato: il desiderio di conoscere, che prendeva il
sopravvento sulle preoccupazioni etiche. Ecco la verità del serpente:
una conoscenza quasi divina, nessun fondamento possibile per il bene e
il male. Perché i filosofi platonici dovessero governare è chiaro:
conoscendo l’essere (le idee, Dio) conoscevano il bene. Chi stabilisce
cosa è bene e cosa è male nel mondo di Oppenheimer?
È la sfida dei
nostri giorni. Dalla genetica all’intelligenza artificiale,
dall’astrofisica alla sociobiologia, le conoscenze a cui siamo arrivati
significano una potenza inimmaginabile fino a poco tempo fa, ma che
ancora non sappiamo come usare. Il problema non è la scienza di per sé —
il desiderio di conoscere è quanto di più umano ci possa essere — ma
l’uso che se ne fa, e la tendenza degli uomini a cercarsi nuovi idoli
quando quelli vecchi sono scomparsi. Chi deciderà se vi sono limiti e
quali, che cosa è giusto fare e cosa no, cosa è bene e cosa male?
Sembrano domande astruse, per chi, come un medico o uno scienziato, è
impegnato a sviluppare una tecnica che migliorerà la vita di qualcuno.
Sono problemi immensi nel momento in cui queste stesse tecniche possono
modificare in modo radicale quello che siamo (o pensiamo di essere).
In
effetti viviamo in un’epoca paradossale. L’ambizione della scienza era
di arrivare a conoscere quello che siamo, la nostra natura, che è il
risultato di una storia lunghissima. E adesso che siamo così vicini a
svelarne il mistero, ecco che le nuove tecniche genetiche ci rivelano
che siamo in grado di modificare questa natura profonda (il Dna).
L’intelligenza artificiale, intanto, sembra preparare un futuro in cui
condivideremo alcune delle nostre caratteristiche fondamentali (il
pensiero, e magari la coscienza) con esseri, le macchine, che
difficilmente potremmo considerare «umani». Ma allora chi, che cosa,
siamo?
Insomma: impossibile prescindere dai risultati delle
scienze. Confrontandosi con questi saperi, la filosofia e la religione
troveranno nuovi stimoli e impulsi. Inaugurando un nuovo illuminismo,
che a questo punto sarebbe il quarto, come auspica Wilson nel libro Le
origini della creatività (Raffaello Cortina)? Magari. Non è detto però
che tutte le risposte di cui siamo in cerca possano venire dalla scienza
soltanto — anzi. Il problema della sua tesi, per quanto interessante, è
che tende a relegare i saperi umanistici nel regno dell’immaginazione
(la creatività) o della divulgazione, riservando alla scienza l’indagine
seria sulla realtà. Davvero i saperi umanistici come la filosofia (o la
letteratura) non hanno niente da dire sul mondo, quando usano il loro
linguaggio e seguono le loro strade? Perché non tenere aperti altri modi
di pensare e cercare, che aiutano comunque a chiarire la portata dei
problemi? Del resto, da dove vengano la vita o il pensiero non lo
sappiamo. Molto resta da fare. Nel 384 d.C. Quinto Aurelio Simmaco
rivolse un discorso appassionato all’imperatore Valentiniano, che aveva
deciso di rimuovere dal Senato romano l’altare dedicato alla dea della
Vittoria, pagana. Per l’imperatore la verità era solo cristiana: per
questo l’altare pagano andava rimosso. La verità? «Non si può seguire
una sola strada per raggiungere un mistero così grande» replicò Simmaco.
Difficile dargli torto. Un po’ di confusione male non fa.