domenica 28 ottobre 2018

Corriere La Lettura 28.10.1
Il quarto illuminismo
Edward G. Wilson, Le origini della creatività, a cura di Telmo Pievani
Ha fondatola sociobiologia
di Mauro Bonazzi


Quando era ancora giovane, all’inizio di una carriera che si sarebbe rivelata folgorante, Edward Wilson, il futuro padre della sociobiologia, andò in visita da un eminente collega di Harvard. Era un entomologo ancora poco conosciuto fuori dagli ambienti accademici, di nome faceva Vladimir Nabokov. Parlarono a lungo, di farfalle, soprattutto di quelle sconosciute, e di tutto quello che ancora attende di essere scoperto nell’universo. Anche Aristotele, il filosofo per eccellenza, si accalorava per ragioni analoghe: «Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili», scriveva, «in tutte le realtà naturali c’è qualcosa di meraviglioso». Non sembrano argomenti particolarmente intriganti. In realtà sono questioni di vitale importanza, se solo si capisce che cosa c’è in gioco. La spiegazione, comunque, era già nelle farfalle, quelle ancora da scoprire e quelle che svolazzano davanti a noi tutti i giorni.
«Effimero» è l’aggettivo che viene usato per descriverle. È una parola greca, letteralmente significa «di un giorno». Così sono le farfalle, belle nella loro fragilità, che dura lo spazio di un momento prima di rieclissarsi nel nulla da cui sono emerse. Qual è il senso, o il valore, dell’esistenza di una farfalla nella storia dell’universo che si dispiega davanti a noi? È lo scandalo della morte, che toglie colore a tutto.
I Greci, però, quell’aggettivo non lo riferivano alle farfalle. Lo usavano per parlare di noi, i mortali per eccellenza. Di fronte al precipitare dei secoli, in questi spazi infiniti che mai potremo percorrere, quale sarebbe la differenza rispetto alle farfalle? Forse nessuna. O forse sì, qualche differenza c’è. Diversamente dalle farfalle possiamo pensare, ad esempio, porci domande, cercare di capire e conoscere. Magari le cose non sono come sembrano, magari il tutto che ci circonda non è così privo di senso come sembra. Il desiderio di conoscere non è la semplice curiosità di alcuni personaggi eccentrici che un po’ di erudizione basterà a soddisfare. Conoscere è un bisogno: scoprire il senso della nostra esistenza — nella convinzione che un senso c’è. Non è vero che la nostra vita è priva di valore e che noi passeremo invano. È una ricerca che non accomuna solo scienziati e filosofi. Anche il monaco sperduto nel deserto era in cerca delle stesse risposte, seppur per altre vie: scoprire il disegno che dà bellezza a tutto, che per lui si chiamava Dio.
Niente di sorprendente per il padre della biologia e della scienza, il solito Aristotele: anche per lui l’obiettivo ultimo, il fine più alto, era arrivare a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Non è una vita umana quella di chi non si chiede che cosa sia nato a fare. Vedere con gli occhi di Dio significa comprendere che c’è un posto per noi in questa immensità: il disordine era solo apparente, intorno si dispiega un disegno ordinato, in cui tutto (persino la farfalla, persino noi) ha un suo valore. La morte, che vuole togliere senso a tutto, è sconfitta. La felicità è tutta qui, nella consapevolezza che quello per cui viviamo, combattiamo o soffriamo ha valore, merita di essere perseguito.
«I fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non potranno perdere». Lo ha detto uno dei più grandi fisici del Novecento, Julius Oppenheimer. L’allusione riguarda Adamo ed Eva: anche loro, in fondo, desideravano la conoscenza, quando avevano colto la mela. Il serpente, oggi, è la scienza: difficile esprimere meglio i cambiamenti che hanno investito il nostro mondo. Muovendo dalle stesse esigenze e dagli stessi bisogni, scienza, filosofia e religione hanno sempre cercato di conquistare il centro della scena, intrecciando tra di loro relazioni complicate. Il posto centrale, in questi ultimi anni, è occupato dai saperi scientifici, in forza di successi incontrovertibili che hanno spinto molti a sostenere che ormai alla filosofia resta solo da accodarsi, se vuole conservare qualche speranza di sopravvivere, e sulla religione non c’è quasi più nulla da dire. Con la rivoluzione scientifica del Seicento, che alcuni chiamano oggi il secondo illuminismo (contrapposto al primo illuminismo greco, di Socrate, Platone e Aristotele) la nostra comprensione dell’universo e di noi stessi è radicalmente cambiata. C’era l’universo ordinato di Platone e Aristotele, che ogni lettore di Dante conosce, con la Terra al centro di tutto e l’uomo al centro della Terra, osservatore privilegiato di questo spettacolo divino. E c’è l’universo degli scienziati moderni e contemporanei, infinito e tumultuante, in cui la Terra occupa una posizione assolutamente marginale e la vita degli uomini è il risultato di una fortunata coincidenza e di millenni di evoluzione. Sarebbe difficile, in effetti, o meglio assurdo, continuare come se nulla fosse cambiato. Ma i problemi rimangono.
Oppenheimer pronunciò quella frase durante gli esperimenti sulla bomba atomica. È una frase angosciante, ed è la descrizione perfetta della condizione moderna. Conoscere per Aristotele e Dante voleva dire contemplare Dio, vedere il mondo con i suoi occhi, comprendere il disegno che tiene tutto insieme. Ma non era solo quello, come aveva spiegato Platone e avrebbero chiarito ancora meglio i grandi arabi, Avicenna ad Averroè, esponenti anch’essi di un illuminismo che, dal punto di vista cronologico, risulta quindi il secondo: chissà perché ci dimentichiamo sempre di chi non è europeo o americano.
Il punto decisivo era che, conoscendo ciò che è, si sarebbe conosciuto anche ciò che è bene e ciò che è male. Dio, il creatore del cielo e della terra, l’arbitro del bene e del male. Il primo «illuminismo», quello di Platone e Aristotele, per usare le categorie di Wilson, e il secondo illuminismo arabo portavano direttamente a Dio (il che spiega tra l’altro l’uso che Ratzinger faceva dell’espressione: in questi termini è legittimo parlare persino di illuminismo cristiano), e alla conoscenza del bene. Nell’universo di Oppenheimer, derivante dal terzo illuminismo di matrice scientifica, ci sono solo particelle che si fondono. E mentre prendeva forma il progetto della bomba, se ne chiariva la portata mostruosa. Dubbi e perplessità tra gli scienziati non mancarono. Ma la gioia di scoprire i misteri profondi dell’universo, l’atomo e le sue proprietà, era qualcosa di ancora più grande e travolgente. Questo significava l’allusione al peccato: il desiderio di conoscere, che prendeva il sopravvento sulle preoccupazioni etiche. Ecco la verità del serpente: una conoscenza quasi divina, nessun fondamento possibile per il bene e il male. Perché i filosofi platonici dovessero governare è chiaro: conoscendo l’essere (le idee, Dio) conoscevano il bene. Chi stabilisce cosa è bene e cosa è male nel mondo di Oppenheimer?
È la sfida dei nostri giorni. Dalla genetica all’intelligenza artificiale, dall’astrofisica alla sociobiologia, le conoscenze a cui siamo arrivati significano una potenza inimmaginabile fino a poco tempo fa, ma che ancora non sappiamo come usare. Il problema non è la scienza di per sé — il desiderio di conoscere è quanto di più umano ci possa essere — ma l’uso che se ne fa, e la tendenza degli uomini a cercarsi nuovi idoli quando quelli vecchi sono scomparsi. Chi deciderà se vi sono limiti e quali, che cosa è giusto fare e cosa no, cosa è bene e cosa male? Sembrano domande astruse, per chi, come un medico o uno scienziato, è impegnato a sviluppare una tecnica che migliorerà la vita di qualcuno. Sono problemi immensi nel momento in cui queste stesse tecniche possono modificare in modo radicale quello che siamo (o pensiamo di essere).
In effetti viviamo in un’epoca paradossale. L’ambizione della scienza era di arrivare a conoscere quello che siamo, la nostra natura, che è il risultato di una storia lunghissima. E adesso che siamo così vicini a svelarne il mistero, ecco che le nuove tecniche genetiche ci rivelano che siamo in grado di modificare questa natura profonda (il Dna). L’intelligenza artificiale, intanto, sembra preparare un futuro in cui condivideremo alcune delle nostre caratteristiche fondamentali (il pensiero, e magari la coscienza) con esseri, le macchine, che difficilmente potremmo considerare «umani». Ma allora chi, che cosa, siamo?
Insomma: impossibile prescindere dai risultati delle scienze. Confrontandosi con questi saperi, la filosofia e la religione troveranno nuovi stimoli e impulsi. Inaugurando un nuovo illuminismo, che a questo punto sarebbe il quarto, come auspica Wilson nel libro Le origini della creatività (Raffaello Cortina)? Magari. Non è detto però che tutte le risposte di cui siamo in cerca possano venire dalla scienza soltanto — anzi. Il problema della sua tesi, per quanto interessante, è che tende a relegare i saperi umanistici nel regno dell’immaginazione (la creatività) o della divulgazione, riservando alla scienza l’indagine seria sulla realtà. Davvero i saperi umanistici come la filosofia (o la letteratura) non hanno niente da dire sul mondo, quando usano il loro linguaggio e seguono le loro strade? Perché non tenere aperti altri modi di pensare e cercare, che aiutano comunque a chiarire la portata dei problemi? Del resto, da dove vengano la vita o il pensiero non lo sappiamo. Molto resta da fare. Nel 384 d.C. Quinto Aurelio Simmaco rivolse un discorso appassionato all’imperatore Valentiniano, che aveva deciso di rimuovere dal Senato romano l’altare dedicato alla dea della Vittoria, pagana. Per l’imperatore la verità era solo cristiana: per questo l’altare pagano andava rimosso. La verità? «Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande» replicò Simmaco. Difficile dargli torto. Un po’ di confusione male non fa.