Corriere La Lettura 28.10.1
Senza Stato si sta meglio
La saggezza dei «barbari»
I
cacciatori-raccoglitori erano prosperi e avevano molto tempo da
dedicare alla socialità. Oggi ci sono popoli che non si adattano alla
logica delle autorità costituite
di Adriano Favole
«Popoli
statali e non statali, agricoltori e raccoglitori, “barbari” e
”civilizzati” sono gemelli». Il libro di James Scott non solo archivia
la visione evoluzionista del rapporto tra «civiltà» e «barbari», ma
difende un’idea di complementarità tra società che scelsero agricoltura e
Stato e società che scelsero (o furono costrette a scegliere) la
raccolta e la caccia, la pastorizia, il nomadismo o, semplicemente,
un’altra agricoltura rispetto a quella dei cereali. «Le tribù», scrive
ancora Scott, «sono innanzitutto una fantasia amministrativa dello
Stato: iniziano dove lo Stato finisce».
Scott si muove alle
«origini» della civiltà dei cereali e nelle periferie degli antichi
imperi. La sua lettura però è illuminante su pagine della modernità e
della contemporaneità. Per esempio a metà Ottocento la Francia prendeva
possesso della Nuova Caledonia, un arcipelago melanesiano che proprio
nelle prossime settimane si esprimerà in un referendum per
l’indipendenza. Le popolazioni locali, in seguito chiamate kanak,
praticavano una forma di orticoltura itinerante basata sulla
coltivazione di tuberi. La ricerca di terre nuove e fertili portava
queste popolazioni a disegnare nel paesaggio degli chemins («cammini»,
«sentieri»), scanditi dal succedersi di genealogie e topologie. Una
volta insediati in un nuovo terreno, i kanak tornavano periodicamente
sui propri passi, alla ricerca di specie alimentari ibride, nate
dall’incontro tra tuberi domestici e selvatici. Come scrisse
l’etnobotanico André Haudricourt, i kanak erano orticoltori xenofili,
sempre alla ricerca di nuove varietà di tuberi. Un atteggiamento, la
xenofilia, che si riverberava nelle modalità con cui persone di origine
«straniera» (per esempio locutori di altre lingue melanesiane) venivano
innestate nei clan locali.
L’arrivo dei francesi e della civiltà
dei cereali fu sconvolgente. La coltivazione del grano e l’allevamento
di bovini richiedevano grandi e stabili appezzamenti di terra che furono
assegnati ai coloni, spingendo i kanak verso le montagne. Le economie e
gli immaginari itineranti dei kanak diventarono problematici in un
sistema che «fissava» la proprietà delle fattorie. La legge
dell’indigenato «inventò» di fatto le tribù, confinando i locali in
riserve dai confini precisi, imponendo tasse, scoraggiando la mobilità e
proibendo i matrimoni misti. La civiltà dei cereali creò una netta
distinzione tra «grano» e «zizzania», basata, fuori di metafora, su una
logica di purezza etnica che frammentava il mondo in «bianchi» e «negri»
e divideva i secondi in tribù. All’estrema periferia dell’impero
francese nasceva un nuovo popolo di «barbari», rimasti fino a oggi in
posizione marginale rispetto allo Stato.
La bella idea a cui Scott
dà voce, la gemellarità di civiltà e barbarie, ha una lunga storia in
antropologia culturale, una disciplina nata per dare volti e voci a
popoli in-disciplinati che sopravvivevano nelle periferie dei grandi
centri di potere. Negli anni Settanta del secolo scorso, sulla scia dei
rinnovati studi sulle società acquisitive, Marshall Sahlins lanciò una
tesi provocatoria. I «cacciatori e raccoglitori», come venivano chiamati
un tempo, erano società dell’abbondanza, altroché un’umanità sempre al
limite della sussistenza. La limitazione dei bisogni le rendeva società
ricche e soprattutto con molto tempo libero da dedicare alla socialità.
Negli stessi anni Pierre Clastres sottolineava, a partire dai suoi studi
sulle società amerindiane, che alcune culture scelgono di proposito di
porsi «contro lo Stato».
E oggi? È tutto finito? Gli Stati si sono
mangiati il mondo? Non proprio. Più che come società contro lo Stato,
oggi i «barbari» si manifestano come società nello Stato, popoli che
chiedono riconoscimento e legislazioni particolari. I nativi del Canada
sono autorizzati a sfruttare in modi peculiari il territorio e gli
aborigeni australiani recuperano i vecchi land titles, «titoli» di
accesso alle terre. Come mi ha detto un bushinengue in Guyana francese,
in risposta alla mia preoccupazione relativa al fatto che mi aveva
portato sull’altra riva del fiume, in Suriname, senza un visto di
ingresso: «Noi siamo i figli del fiume. Non conosciamo i confini!». Come
altre società, i bushinengue, discendenti di schiavi fuggiti ai padroni
a partire dal XVI secolo, vivono ai margini dello Stato, sfruttando la
loro posizione. Ma non vanno dimenticate le privazioni di una
cittadinanza più libera e incompleta al tempo stesso.