domenica 28 ottobre 2018

Corriere La Lettura 28.10.1
Senza Stato si sta meglio
La saggezza dei «barbari»
I cacciatori-raccoglitori erano prosperi e avevano molto tempo da dedicare alla socialità. Oggi ci sono popoli che non si adattano alla logica delle autorità costituite
di Adriano Favole


«Popoli statali e non statali, agricoltori e raccoglitori, “barbari” e ”civilizzati” sono gemelli». Il libro di James Scott non solo archivia la visione evoluzionista del rapporto tra «civiltà» e «barbari», ma difende un’idea di complementarità tra società che scelsero agricoltura e Stato e società che scelsero (o furono costrette a scegliere) la raccolta e la caccia, la pastorizia, il nomadismo o, semplicemente, un’altra agricoltura rispetto a quella dei cereali. «Le tribù», scrive ancora Scott, «sono innanzitutto una fantasia amministrativa dello Stato: iniziano dove lo Stato finisce».
Scott si muove alle «origini» della civiltà dei cereali e nelle periferie degli antichi imperi. La sua lettura però è illuminante su pagine della modernità e della contemporaneità. Per esempio a metà Ottocento la Francia prendeva possesso della Nuova Caledonia, un arcipelago melanesiano che proprio nelle prossime settimane si esprimerà in un referendum per l’indipendenza. Le popolazioni locali, in seguito chiamate kanak, praticavano una forma di orticoltura itinerante basata sulla coltivazione di tuberi. La ricerca di terre nuove e fertili portava queste popolazioni a disegnare nel paesaggio degli chemins («cammini», «sentieri»), scanditi dal succedersi di genealogie e topologie. Una volta insediati in un nuovo terreno, i kanak tornavano periodicamente sui propri passi, alla ricerca di specie alimentari ibride, nate dall’incontro tra tuberi domestici e selvatici. Come scrisse l’etnobotanico André Haudricourt, i kanak erano orticoltori xenofili, sempre alla ricerca di nuove varietà di tuberi. Un atteggiamento, la xenofilia, che si riverberava nelle modalità con cui persone di origine «straniera» (per esempio locutori di altre lingue melanesiane) venivano innestate nei clan locali.
L’arrivo dei francesi e della civiltà dei cereali fu sconvolgente. La coltivazione del grano e l’allevamento di bovini richiedevano grandi e stabili appezzamenti di terra che furono assegnati ai coloni, spingendo i kanak verso le montagne. Le economie e gli immaginari itineranti dei kanak diventarono problematici in un sistema che «fissava» la proprietà delle fattorie. La legge dell’indigenato «inventò» di fatto le tribù, confinando i locali in riserve dai confini precisi, imponendo tasse, scoraggiando la mobilità e proibendo i matrimoni misti. La civiltà dei cereali creò una netta distinzione tra «grano» e «zizzania», basata, fuori di metafora, su una logica di purezza etnica che frammentava il mondo in «bianchi» e «negri» e divideva i secondi in tribù. All’estrema periferia dell’impero francese nasceva un nuovo popolo di «barbari», rimasti fino a oggi in posizione marginale rispetto allo Stato.
La bella idea a cui Scott dà voce, la gemellarità di civiltà e barbarie, ha una lunga storia in antropologia culturale, una disciplina nata per dare volti e voci a popoli in-disciplinati che sopravvivevano nelle periferie dei grandi centri di potere. Negli anni Settanta del secolo scorso, sulla scia dei rinnovati studi sulle società acquisitive, Marshall Sahlins lanciò una tesi provocatoria. I «cacciatori e raccoglitori», come venivano chiamati un tempo, erano società dell’abbondanza, altroché un’umanità sempre al limite della sussistenza. La limitazione dei bisogni le rendeva società ricche e soprattutto con molto tempo libero da dedicare alla socialità. Negli stessi anni Pierre Clastres sottolineava, a partire dai suoi studi sulle società amerindiane, che alcune culture scelgono di proposito di porsi «contro lo Stato».
E oggi? È tutto finito? Gli Stati si sono mangiati il mondo? Non proprio. Più che come società contro lo Stato, oggi i «barbari» si manifestano come società nello Stato, popoli che chiedono riconoscimento e legislazioni particolari. I nativi del Canada sono autorizzati a sfruttare in modi peculiari il territorio e gli aborigeni australiani recuperano i vecchi land titles, «titoli» di accesso alle terre. Come mi ha detto un bushinengue in Guyana francese, in risposta alla mia preoccupazione relativa al fatto che mi aveva portato sull’altra riva del fiume, in Suriname, senza un visto di ingresso: «Noi siamo i figli del fiume. Non conosciamo i confini!». Come altre società, i bushinengue, discendenti di schiavi fuggiti ai padroni a partire dal XVI secolo, vivono ai margini dello Stato, sfruttando la loro posizione. Ma non vanno dimenticate le privazioni di una cittadinanza più libera e incompleta al tempo stesso.