Corriere La Lettura 28.10.18
La nascita delle (in)civiltà
James C. Scott, una controversia
Da sempre ci siamo abituati a credereche la formazione dei grandi regni agricoli sia stata un passo avanti verso il progresso.
Ma
i popoli nomadi vivevano molto meglio delle masse di sudditi dediti a
coltivare la terra, non di rado ridotti in schiavitù ed esposti alle
epidemie
D’altronde lo scopo delle mura non era soltanto difendere
gli imperi dai cosìdetti «barbari» ma anche trattenere dalla fuga i
contadini sottoposti a una gravosa pressione fiscale
Nomadismo e migrazioni ridefiniscono la storia
di Alessandro Vanoli
E
se ci fossimo sbagliati? O almeno, se non avessimo tenuto conto di
tutti i punti di vista? Nello studio della storia capita spesso. Ma in
questo caso il problema è più profondo; così profondo da riguardare il
senso stesso delle nostre vicende storiche. Prendete lo Stato, nel suo
senso più generico: se c’è una cosa che da sempre segna e scandisce
l’interpretazione del passato, essa è appunto lo Stato, a cominciare
dalle prime forme neolitiche: cioè le prime concentrazioni di piante,
animali domestici e persone organizzate sotto un solo potere. Qualsiasi
racconto di progresso e di civiltà parte in fondo da quelle realtà
agricole e continua poi parlando di regni e di imperi.
La storia,
così come tutti la conosciamo e l’abbiamo ripetuta, è quella del
progresso e della civiltà codificati dai primi grandi regni agricoli:
società nuove e potenti determinate a distinguersi il più possibile
dalle popolazioni da cui erano nate e che ancora si agitavano minacciose
ai loro confini. Una storia di «ascesa dell’uomo» dove il mondo
selvaggio, primitivo, senza legge e violento dei nomadi e dei
cacciatori-raccoglitori era stato rimpiazzato dall’agricoltura stanziale
che, invece, era l’origine e la garanzia della vita stabile, della
religione formale, della società e del governo della legge. In questa
storia era più o meno implicito che chi si opponeva all’agricoltura lo
faceva per ignoranza o per rifiuto dell’adattamento: perché assieme ai
prodotti della terra stava la casa, il luogo per antonomasia della
civiltà, dove gli uomini potevano per sempre sistemarsi, ponendo fine a
centinaia di millenni di nomadismo. E questa immagine della nostra
storia ha avuto sempre, per di più, il vantaggio dell’evidenza: perché
sono gli Stati che lasciano agli archeologi i resti monumentali; e sono
sempre gli Stati che elaborano forme di scrittura in grado di preservare
la memoria pubblica.
Ma la domanda è proprio qui: e si ci fossimo
sbagliati? Se stessimo esagerando l’importanza di tali forme di
sedentarizzazione? Sono molte le recenti scoperte che legittimano un
simile dubbio: sappiamo ad esempio che l’agricoltura stanziale nacque
ben prima degli Stati e sappiamo che, in termini di benessere umano, il
lavoro dei campi si dimostrò molto spesso tutt’altro che vantaggioso.
Inoltre stiamo cominciando a capire quanto gli Stati antichi furono
fragili di fronte a malattie, carestie e guerre. Dunque, dato tutto
questo, siamo poi sicuri che i nomadi non vedessero davvero l’ora di
sistemarsi e smetterla con i loro spostamenti stagionali? In fondo, dai
Galli ai Sioux, la storia è piena di esempi di popolazioni intere che
hanno combattuto sino all’ultimo per non essere controllate da uno
Stato. E siamo davvero sicuri che i nomadi se la passassero peggio dei
sedentari dal punto di vista della salute e della qualità della vita? In
realtà forse è vero il contrario, erano cioè gli agricoltori, legati
alle terribili fatiche della terra, a fare una vita grama e a ritrovarsi
con una dieta a dir poco ristretta. E soprattutto, siamo davvero sicuri
che lungo il corso della storia, lo Stato abbia poi contato davvero
così tanto ai fini degli scambi economici, delle trasformazioni
culturali e dei rovesci militari?
Il politologo americano James
Scott, nel libro Le origini della civiltà (Einaudi), parte da qui per
mettere in discussione uno dei cardini stessi del nostro senso della
storia e della politica. Lo fa cominciando da lontano, dagli albori del
Neolitico, sulla scorta di una tradizione di studi ormai decennale che
si sta sforzando di indagare il nostro passato più profondo alla luce di
scienze come la biologia e la paleontologia, per trarne interpretazioni
valide per i più ampi processi storici. E in effetti la storia politica
proposta da Scott lega profondamente biologia e cultura; e facendolo
rimette in discussione alcuni degli assunti più scontati del nostro
immaginario storico. A cominciare dallo Stato appunto. Una storia
antica, antichissima, quella ricostruita da Scott, che prende le mosse
dall’uso del fuoco e dalle prime modificazioni del paesaggio, per
arrivare alla coltivazione dei cereali. Poi passa all’addomesticamento
degli animali per il lavoro agricolo; e affrontando questo argomento
traccia un parallelo con l’addomesticamento di esseri umani, gli
schiavi, utilizzati per alimentare la vita economica degli Stati con la
loro forza lavoro. E questa concentrazione di esseri umani dediti
all’agricoltura appare certamente la precondizione per la fondazione
dello Stato, con le sue gerarchie politiche, la tassazione estrattiva e
il servizio di massa.
Lo sguardo si volge poi alle narrazioni
prodotte da queste nuove forme politiche, che agirono sin da quei tempi
lontani e che si vedono già nella propaganda prodotta dai primi regni
agricoli sorti tra Tigri ed Eufrate intorno al 3000 a.C.: una mitologia
incentrata sulle origini divine del grano; una mitologia, aggiunge
Scott, che avrà una lunghissima fortuna, tanto che appare ormai
incancellabile l’associazione tra civiltà e cereali, grano, orzo, mais o
riso che siano. E, assieme alla mitologia del grano, l’idea che i
sedentari avessero adottato una forma di vita superiore e più attraente
delle forme mobili di sussistenza. L’idea che l’essere sedentario,
abitare una casa, fosse il segno di una raggiunta civiltà.
Ma è a
questo punto che si mostra tutta la complessità della storia. Perché in
realtà, con buona pace dei sedentari, gran parte della popolazione
mondiale, quella definita dallo Stato come «barbari», continuò a vivere
fuori dai confini. Certo, i nomadi hanno lasciato poche registrazioni
delle loro attività e delle loro visioni del mondo, ma questo non vuole
dire affatto che se la passassero peggio degli stanziali. Anzi non è per
nulla detto che lo Stato fosse la migliore offerta possibile,
l’occasione per un salto di civiltà.
Certo, la maggior parte delle
tracce storiche sono state prodotte dallo Stato e dunque ad esso
favorevoli, ma a guardar bene vi sono anche moltissimi indizi contrari:
la coercizione, la schiavitù, le forti tassazioni, le malattie
epidemiche. E se è vero che molti tra i nomadi desiderarono le ricchezze
degli Stati, non è affatto detto che tutti volessero farne parte.
Prendete
le mura, ad esempio. Alla fine del II millennio avanti Cristo buona
parte delle città della Mesopotamia era circondata da mura: per la prima
volta lo Stato aveva generato una corazza protettiva. E l’esistenza di
una simile corazza era il segno evidente di qualcosa di prezioso: almeno
una coltivazione permanente e un deposito di provviste. Sin da quei
tempi lontani lo Stato raccontò come le mura fossero state innalzate per
difendere il suo popolo dalle minacce esterne. È questo che si legge
già nell’epopea di Gilgamesh ed è questo che sarebbe stato ripetuto per
secoli e millenni, dall’Impero cinese, dai Romani e da tutti gli altri
costruttori di potenti civiltà. Ma ci sono ottime prove per dimostrare
che la vicenda fu decisamente più complessa: la Grande Muraglia, per
fare un esempio importante, non era solo un baluardo per arginare le
incursioni dei nomadi, ma anche un ottimo strumento per tenere dentro i
confini statali i contadini che dovevano pagare le tasse. Due scopi
apparentemente contrapposti, ma che nella storia si sarebbero trovati
spesso congiunti: difendersi dai barbari ed evitare la fuga dei sudditi.
Sì, perché gli Stati non ne hanno mai parlato volentieri, ma la
tentazione di passare tra le file dei barbari e, dunque di ritornare
nomadi, è sempre stata più forte di quanto si racconti normalmente. In
fondo essere ai margini o completamente al di fuori del controllo
statale presentava non pochi vantaggi: la libertà da un fisco opprimente
ad esempio, oppure la possibilità di arricchirsi lungo le grandi
direttrici di traffico commerciale.
Così eccoci arrivati, senza
mai dirlo apertamente, alle soglie del nostro presente. Occorre tenere
conto dei precedenti lavori di James C. Scott per capire meglio questo
suo viaggio nel passato profondo: l’autore di Seeing Like a State (Yale
University Press, 1998) e di Elogio dell’anarchismo (Elèuthera, 2014) da
decenni spiega come gli interessi di uno Stato quasi mai coincidano con
gli interessi degli individui che gli appartengono: perché, dice, al di
là delle apparenze, quelle tra dominati e dominanti sono sempre
relazioni conflittuali e intrise d’inganno, dove i subordinati simulano
la propria deferenza all’autorità costituita, mentre i detentori del
potere inscenano la propria supremazia e il proprio amore per il popolo.
In quest’ottica il suo ultimo libro fa in fondo solo un piccolo passo
in più: il tentativo di leggere tali dinamiche su una scala storica
infinitamente più ampia.
Ma se dal punto di vista della scienza
politica tutto questo rappresenta un insieme di salutari riflessioni,
per uno storico una simile opera offre un’evidente sfida: siamo in grado
di pensare le vicende umane facendo per un attimo astrazione dagli
Stati? Siamo in grado di pensare i nomadi o i cacciatori-raccoglitori
come protagonisti di pari dignità del nostro passato? La risposta è
probabilmente no, ma varrebbe la pena di compiere qualche piccolo sforzo
in quella direzione, specie oggi. In fondo è vero che abbiamo sempre
tenuto lo Stato al centro della scena, talvolta anche inconsapevolmente:
da Thomas Hobbes a Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sino alle moderne
riflessioni di Francis Fukuyama, siamo stati educati a pensare l’ascesa
dello Stato come realizzazione della libertà individuale, come culmine
della storia del mondo. Eppure le nuove prospettive aperte dalla storia
globale ci mostrano l’importanza millenaria dei grandi flussi di
individui e ci abituano a guardare al mondo relativizzando l’importanza
dei grandi centri di potere.
I nomadi delle steppe che insidiarono
l’Impero romano; gli Xiongnu che infestarono le terre a nord della
Cina; i Normanni che giunsero dalla Scandinavia fino in Sicilia, i
Turchi che si impadronirono dei territori musulmani; i Mongoli che
unificarono l’Asia. L’elenco potrebbe continuare a lungo mostrando
l’incredibile varietà di queste condizioni di nomadismo e la loro
innegabile importanza storica. Talvolta i barbari prosperarono lungo le
grandi vie di commercio o negli spazi aperti della pastorizia. Altre
volte conquistarono infine lo Stato e si trasformarono così nella nuova
classe dominante. Molto più spesso diventarono la cavalleria o i
mercenari dello Stato, che li utilizzò allo scopo di tenere sotto
controllo altri barbari.
E da qui, come storici, dovremmo magari
fare ancora un passo avanti, sino al presente. Perché è evidente che in
questo nostro mondo, che ci appare ormai pensabile solo in termini di
Stati, i nomadi sono ancora in movimento: enormi flussi di persone
attraversano mari e continenti sfuggendo dagli Stati o vivendone ai
margini. E allora, non fosse che per questo, di fronte al rigurgito di
tanta vecchia retorica nazionalista e al desiderio primitivo di nuovi
muri, forse varrebbe la pena di volgerci anche al passato profondo, per
tornare a chiederci quanto di antico vi sia in questo nostro mesto
presente.