domenica 28 ottobre 2018

Repubblica 28.10.18
Giorgio Agamben
Uno dei più noti filosofi italiani
Il capitalismo è la nuova religione, la banca ha preso il posto della Chiesa, la democrazia è perduta. E lei, professore?
"La mia vita è una mappa costruita con gli stracci della Storia"
Colloquio con Antonio Gnoli


Sono trascorsi poco più di vent’anni da quando Giorgio Agamben inaugurò una ricerca filosofica orientata, fin nelle radici, sui grandi temi della teologia, del diritto e della politica. Dal 1995 al 2015 sono usciti nove libri che ora tornano tutti insieme in un solo grande volume di quasi 1400 pagine. Un’opera monstre, già apparsa in Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Spagna e Francia, che ha conservato il titolo originale Homo sacer appunto, pubblicata da Quodlibet. Guardo quest’uomo accomodarsi su una grande poltrona di bambù. Gli dico se non scorge qualcosa di utopico in questo suo lavoro. Prende tempo, poi dice: «Sono il contrario di un utopista, perché penso che l’unico luogo dell’utopia sia qui e ora. A meno che questa non sia in realtà l’intenzione segreta di tutti gli utopisti».
Come è nata l’idea di raccogliere i nove libri in un solo volume?
«Ciascuno di essi è parte di un’unica ricerca che si potrebbe definire come un’archeologia della politica occidentale. Li ho sempre pensati mentre li scrivevo come un tutto unitario. Solo così diventa visibile il fitto gioco di rimandi interni, delle riprese e dei contrappunti che li compone quasi musicalmente in unità. In ogni opera, penso, c’è come un nucleo incandescente che coincide con la sua origine, col suo momento sorgivo».
Quel momento lo hai trovato nell’homo sacer. Chi è, cosa rappresenta, perché ritieni sia così importante?
«Quest’oscura figura del diritto romano arcaico, un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio, ritengo sia il nucleo incandescente che non ha ancora spento il suo fuoco. Quel che ho subito capito è che in quella formula enigmatica si nascondeva la struttura segreta della politica occidentale: l’inclusione della vita nella sfera del diritto e della politica attraverso la sua esclusione come nuda vita».
Il richiamo alla " nuda vita" rinvia all’idea di biopolitica che Michel Foucault elaborò negli anni Sessanta e Settanta. In che misura sei erede di quella visione filosofica?
«La biopolitica segna per Foucault il passaggio dallo Stato dell’Ancien Régime fondato sulla sovranità a quello moderno fondato sulla popolazione e la cura della vita. Io ho cercato di svolgere questo concetto sia verso il passato, mostrando che la biopolitica ha radici più antiche, sia verso il presente, mostrando come la deposizione attuale delle ideologie politiche in nome dell’economia significhi in realtà l’assunzione della vita biologica come ultimo compito storico dell’umanità».
Perché definisci la tua ricerca archeologia filosofica?
«Qualunque altra forma la filosofia assumesse finirebbe immancabilmente nella chiacchiera. Se uno dei compiti del pensiero è quello di condurci nel cuore del presente, esso può farlo solo inseguendo le ombre che l’interrogazione del presente proietta nel passato. Ho sempre trovato estremamente seria la battuta di Flaiano: " Io faccio progetti solo per il passato". Tutte le mie ricerche vanno in quella direzione, per scoprire che cosa nel passato è ancora possibile».
Il tuo rapporto con il passato si fonda su un concetto che chiami " archè" che significa inizio, principio ma anche comando. Più volte hai precisato che non va confuso con origine.
Cioè con il concetto che è alla base delle religioni monoteiste. Come quando si dice: "Dio è origine di tutte le cose".
«Ciò che chiamo archè non è l’origine ma lo scarto tra il punto di insorgenza di un fenomeno e la tradizione storica che ce lo ha trasmesso. Nella preistoria in senso stretto, dove non ci sono documenti, questo intervallo è evidente; ma un momento preistorico è sempre presente anche in ogni ricerca storica e la grandezza di uno storico si misura proprio dalla sua capacità di non occultare e di portare alla luce la preistoria nella storia».
"Archè" per esempio è la parola democrazia. C’è una sostanziale differenza tra il modo in cui la concepirono gli antichi e il nostro?
«La differenza essenziale è che per gli antichi la democrazia era un concetto di cui diffidare o comunque da prendere con le pinze, mentre per noi sembra essere immediatamente positivo. L’ambiguità del termine viene dal fatto che esso designa due cose distinte: da una parte un principio filosofico- politico, cioè la sovranità popolare, dall’altra una tecnica di governo, che nel nostro tempo ha assunto la forma di quel sistema mediatico- elettoralistico che ha svuotato di ogni senso il primo. Il vero problema non è oggi la sovranità, ma il governo, non il re, ma il ministro, non la legge, ma la polizia. Se la democrazia greca si fondava su una politicizzazione della cittadinanza, quella attuale si fonda su una progressiva spoliticizzazione dei cittadini. Una società fatta di telecamere e di dispositivi di sicurezza non può essere democratica».
Nelle tue indagini archeologiche hai spesso affrontato il tema della teologia politica. Qual è il rapporto tra religione e politica?
«Ho cercato di mostrare che dalla teologia cristiana derivano due paradigmi politici in senso lato, distinti ma collegati: la teologia politica che fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano e la teologia economica che fonda nella provvidenza divina il paradigma del governo degli uomini. In questa prospettiva la lettura degli innumerevoli trattati sugli angeli come ministri del governo divino è stata molto più utile e divertente di quella dei manuali di filosofia politica e di politologia».
Questo divertimento si estende anche alle liturgie della politica?
«L’analisi delle liturgie, delle acclamazioni e degli aspetti cerimoniali del potere tanto religioso che profano, mi ha permesso di capire perché il potere, che sembra essere essenzialmente azione efficace, ha invece bisogno del momento apparentemente inutile e inoperoso della gloria. Del resto, proprio nel libro Il regno e la gloria, ho mostrato che la gloria e le acclamazioni non appartengono al passato, ma sono più presenti che mai nelle società moderne nella forma della pubblica opinione e dei media che organizzano e controllano il consenso».
Accennavi prima alla teologia economica. C’è un nesso, come pensava Walter Benjamin, tra religione e capitalismo? Davvero la banca ha preso il posto della Chiesa?
«Che il capitalismo sia una religione non è una metafora. Il capitalismo è una religione in cui Dio è il denaro. Dopotutto, il denaro non è che un titolo di credito che, da quando il governo americano ha sospeso la convertibilità in oro, si fonda solo sulla fiducia, cioè sulla fede. La parola greca che nel Nuovo Testamento significa fede è la stessa che significa credito. La banca, che non è altro che una macchina per creare e gestire credito, ha preso il posto della Chiesa e dei preti e, governando il credito, amministra la fede, l’ultima incerta fiducia che il nostro tempo ha ancora in sé stesso».
La scrittura è una parte fondamentale del tuo lavoro. A questo proposito hai spesso parlato della poesia e del pensiero come due intensità che percorrono l’unico campo della lingua. Quale compito attribuisci alla scrittura?
«C’è un momento poetico in ogni opera di pensiero e un momento filosofico in ogni opera poetica. Per questo la scrittura è importante, per questo un filosofo che non si pone un problema poetico non è un filosofo, il che non significa che debba scrivere poesie o romanzi; al contrario, è solo nella scrittura filosofica che consiste il suo compito poetico».
In che rapporto sta questa scrittura con la verità?
«Vi sono delle verità che non è possibile dire senza mettere in questione se stessi nell’atto di enunciarle. Chiamerei questi atti "veridizioni", per distinguerli dalle asserzioni di tipo scientifico o fattuale, in cui il soggetto è del tutto indifferente alla verità dell’enunciato. La verità dell’asserzione "due più due fa quattro" è indipendente dal soggetto che la pronuncia, mentre in una veridizione il soggetto si costituisce e si mette in gioco nell’atto stesso di proferirla».
La tua idea di filosofia punta meno all’argomentazione logica e più all’intensità. Cosa vuol dire?
«Divido le cose in due grandi classi: le sostanze e le intensità. Le prime possono essere definite e separate chiaramente l’una dall’altra, le seconde sono invece delle tensioni che, come la corrente elettrica, possono investire e animare qualsiasi ambito. Un esempio di intensità è la politica che, come oggi vediamo, può di colpo investire tanto la religione che l’economia, tanto il vestiario che l’arte. Va da sé che il pensiero è per eccellenza un’intensità».
Nella tua riflessione filosofica insisti sul concetto di " inoperoso". Che significato gli attribuisci?
«L’inoperoso — un concetto che è stato spesso frainteso — non significa per me inattività o inerzia. Significa piuttosto un’operazione tesa a rendere inoperose le opere della religione, dell’economia, della politica e di ogni sfera dell’agire umano, per aprirle a un nuovo possibile uso».
Spiegati meglio.
«Un esempio è proprio la poesia. Che cos’è infatti una poesia se non un’operazione nel linguaggio che disattiva le sue funzioni informative per rendere possibile quel particolare e più felice uso della lingua che chiamiamo appunto poesia?».
Senza alcun trionfalismo guardi con attenzione agli stracci della storia, cioè a quanto in essa è implicito, residuale, marginale. Cosa comporta questa scelta di campo?
«L’attenzione agli stracci della storia è per me, come per Benjamin, un principio di metodo. Non bisogna dimenticare che ciò che è veramente importante si presenta spesso nel mondo attuale in forme marginali, malfamate e perfino ridicole. Simone Weil ha scritto una volta che solo uomini caduti nello stato estremo di degradazione sociale possono dire la verità. Credo che questo sia vero anche per le testimonianze storiche che devono interessarci: sono come relitti che rischiano continuamente di andare perduti, ma proprio questo rischio costituisce la forza incomparabile della loro testimonianza».
Mi ha stupito l’idea di voler scrivere un’autobiografia in forma di cartografia.
«È un’idea che mi affascina da sempre. Ho anche provato a incollare insieme le mappe di città diverse, in modo che una strada di Roma sboccasse in una piazza di Napoli e una via di Parigi in un campo veneziano. Mi affascina, inoltre, l’idea di una compresenza dei tempi, di cui l’esempio perfetto è la città in cui sono nato, Roma, dove sopra un mitreo c’è una basilica paleocristiana, e sopra ancora una chiesa romanica, che si trasforma alla fine in una cattedrale barocca».
Verrebbe da dire archeologia della città. Ma cos’è oggi una città?
«Credo che le città stiano morendo e si vadano sempre più trasformando in musei. Forse per questo mi trovo bene a Venezia, una città che è morta da decenni e si trova quindi nello stato che segue alla morte, cioè lo spettro. E a Venezia ho imparato che uno spettro può essere più vivo di quasi tutte le città che ho conosciuto».
I libri a volte sopravvivono a coloro che li hanno scritti. Tu ne hai raccolti ben nove in uno solo. Bobi Bazlen parlò dell’importanza del " libro assoluto". Ti riconosci in questa asserzione?
«Ogni opera filosofica — forse ogni opera — è sempre un frammento, è sempre incompiuta. Non si conclude un’opera come non si conclude una vita: la si abbandona. Abbandonare significa in questo senso lasciare andare. E come nella specie umana l’essere che nasce è sempre immaturo, così l’opera è sempre incompiuta, proemio o prologo a una conclusione che resta sempre a venire. Malgrado la sua mole, dunque, il mio non è un libro assoluto nel senso di Bazlen, perché ha bisogno di un prima e di un dopo, di una preistoria e di una poststoria».
Una curiosità: hai mai conosciuto Bazlen?
«L’ho incontrato una sola volta, quando avevo poco più di vent’anni. Che mentre mi interrogava sulle mie preferenze letterarie indovinasse a prima vista il mio segno astrologico non poteva non sorprendermi. Credo però che per avvicinarsi alla verità del personaggio occorra prima rimuovere la leggenda cartacea che gli è stata costruita intorno. Una volta, rispondendo a chi insisteva perché scrivesse, egli si è definito in questo modo: "Sono una persona perbene che passa quasi tutto il suo tempo a letto fumando e leggendo».
La vera originalità, hai detto una volta, si conquista da epigono. Sei epigono di chi?
«Quando si cerca di sviluppare quel che nell’opera di un autore è rimasto non detto, si raggiunge fatalmente un punto in cui non si sa più se quello che si è trovato appartiene a noi o a lui. La vera originalità è in questa zona di indifferenza, dove è impossibile assegnare un nome e un’identità. Come autore, sono in questo senso un essere che si genera solo a partire da altri».