il manifesto 28.10.18
Franco Fortini e i nostri «dieci inverni»
I
comunisti. L'intransigenza di Fortini non è mai unidimensionale, è
stato più che mai attento a non dimenticare il nemico - come invece i
comunisti hanno scordato di fare nel 1989
di Rossana Rossanda
Bene
ha fatto Quodlibet a ripubblicare Dieci Inverni di Franco Fortini,
anche se è lontano il tempo in cui egli li ripubblicò per la prima
volta.
Sono interventi che ruotano tutti intorno a un tema: il
silenzio, o peggio, la complicità dei partiti comunisti occidentali,
dunque anche nostra, sulla repressione che infuria in quegli anni sui
dissenzienti nei paesi di «socialismo reale». La storia ne è stata fatta
soltanto parzialmente, volta a volta sopravanzata dagli eventi e
dall’uso che ne fecero gli avversari di classe, basti ricordare la
campagna democristiana del ’48 e le «forche di Praga».
Ammesso che
oggi io conti qualcosa, allora non ero nessuno, un modestissimo
“apparatcik” della Federazione comunista milanese, addetta al «lavoro
culturale» (qualcuno ricorderà il libro di Luciano Bianciardi) e quindi
in una posizione che mi permetteva, anzi mi obbligava, di osservare
dappresso il conflitto tra il mio partito e Franco Fortini.
Noi
comunisti avevamo una visione eroica di noi stessi, per essere la forza
politica più attaccata dal governo e dalle destre in quanto
rappresentanti della classe operaia.
In questo c’era una verità,
gli amici stentano a credere se dico che per diversi anni a me, che
appunto non ero nessuno, fu tolto senza spiegazione alcuna il
passaporto, per cui essere contemporaneamente attaccati anche da un
compagno socialista, tanto più in quanto egli aveva ragione, ci bruciava
assai, come la nostra sordità bruciava a lui, che ci rimproverava
incessantemente di tacere sugli incredibili processi e le intollerabili
esecuzioni che avvenivano nelle «democrazie popolari».
Ero stata
incaricata tra l’altro di rimettere in piedi la Casa della cultura di
Milano, la cui prima forma era stata disastrata dalle elezioni del ’48;
avevo chiesto a Fortini di farne parte, egli aveva accettato ma non per
tacere nei confronti di quello che gli pareva un vero disastro sul piano
politico e morale.
Per cui quando uscivano le sue rampogne e
seguiva il contrattacco su Società o su Rinascita, mi trovavo giusto
sulla linea del fuoco incrociato: Franco mi telefonava esulcerato di
prima mattina e non era facile calmarlo, Roma (Rinascita) era lontana,
Firenze (Società) anche e non si poteva contare su un intervento della
Federazione socialista di Milano, allora diretta da Rodolfo Morandi, più
che silenziosa nei confronti del Pci, tanto più che era in corso la
vertenza sui consigli di gestione in fabbrica.
IL MIO RAPPORTO con
Fortini per anni fu permanente ma difficile, per sfociare soltanto alla
fine degli anni Cinquanta in un’amicizia che non sarebbe più cessata
malgrado le sfuriate reciproche.
Oggi è più facile vedere quanto Fortini avesse ragione.
Il
Pci non attaccò l’Unione sovietica mai, neppure con una prudente
discussione fino a che Berlinguer non cominciò la sua critica nel ’69
alla conferenza dei partiti comunisti e operai a Mosca, né si fece mai
su questo un’autocritica; nel dopoguerra la sua linea contro
l’imperversare di Zdanov consisté nel dare alle stampe, tramite Einaudi,
i Quaderni dal carcere di Gramsci, definito da Togliatti fondatore del
Pci nonché martire del fascismo e perciò inattaccabile.
Per cui
Franco Fortini non rinunciava a imputargli una viltà se non una
copertura delle pratiche orrende delle democrazie popolari, che pesavano
su noi tutti, anche quando il problema, dopo il 1956, si fece
bruciante: 1947-1957 sono appunto i dieci inverni, le gelate ideologiche
che ricostituiscono le tappe di un percorso per noi in pura perdita
(Politecnico, i primi sciagurati interventi di Togliatti sulle arti
figurative, in cui si trovò contraddetto prudentemente anche da Guttuso,
la difesa dei modestissimi ma ben intenzionati romanzi neorealisti come
L’Agnese va a morire o il Metello – ricordo che Muscetta li
rimproverava di passare più tempo in camera da letto che alla camera del
lavoro – e dei film neorealisti non senza passare sulle braci ardenti
delle scienze, Aloisi e il caso Lyssenko, fino alla contesa con i
critici cinematografici «sciolti dal giuramento»).
NON SO VALUTARE
quanto questi interventi abbiano pesato sul percorso della letteratura,
delle arti e delle scienze, ma sono persuasa che ebbero una conseguenza
fatale per la disfatta attuale dei partiti comunisti: da allora fummo
segnati per sempre dal marchio di essere un partito dittatoriale. Anche
se è facile, ma non ci assolve, confrontarci con altri partiti come
quello francese che espelleva a destra e a manca, mentre il Pci è meno
violento.
Per cui nella cerchia degli 81 partiti comunisti ci facemmo la fama di essere il più intelligente e tollerante.
Certo
mi impressionò, quando due o tre anni fa mi sono imbattuta per caso sui
verbali stenografici del processo in cui fu coinvolto, finendo poi
fucilato, anche Bucharin, accorgendomi che quel materiale era stato
pubblicato formalmente dall’Urss mentre neppure i più illustri compagni
di strada come Romain Rolland o Jean Pierre Vernant (che non erano
neppure legati dalla milizia comunista) hanno voluto o non si sono
sentiti di alzare la voce contro le nefandezze indirizzate dal
procuratore Viscinski appunto a Bucharin.
Ammesso che noi possiamo scrollarci di dosso la medesima responsabilità: io me ne vergogno ancora.
ALCUNI
FRA DI ESSI avanzano una giustificazione: «Perché mi schierai con la
posizione dell’Urss? Ma per battere il fascismo». Come se sarebbe stato
più difficile batterlo prendendo le difese di Slanskj.
IN VERITÀ
questi scritti di Fortini vanno riletti oggi perché la sua analisi va
ben oltre il rifiuto di tollerare quello scandalo, anzi di tollerarlo
tantomeno in quanto veniva dalla sua parte politica, riguardano il
rapporto fra rivoluzione e cultura, indicando anche la debolezza di
posizioni non perseguitate o almeno non messe a morte.
L’intransigenza
di Fortini non è mai unidimensionale, è stato più che mai attento a non
dimenticare il nemico – come invece i comunisti hanno scordato di fare
nel 1989, fin dal primo scambio fra Occhetto e Craxi.
Del resto
non è semplice distinguere volta a volta il crinale ideologico su cui
passa lo scontro di classe. Non è semplice ma proprio per questo Dieci
inverni è un testo prezioso per la riflessione ancora oggi (penso anche
al modo in cui Fortini giudica le ragioni non solo nei disaccordi ma
anche negli accordi come su Ladri di biciclette, o sulla posizione di
Vittorini, del quale è stato sempre amico e sodale, dopo la chiusura di
Politecnico).