il manifesto 28.10.18
Il Platone smascherato
Saggi di
filosofia. Adriana Cavarero ha fornito per tutta la vita un’appassionata
e originale lettura «di genere» del filosofo greco: ora i suoi saggi
sono raccolti da Raffaello Cortina
di Fulvia de Luise
La
raccolta di studi platonici di Adriana Cavarero, appena uscita a cura
di Olivia Guaraldo, è qualcosa di più di un’occasione per tornare a
parlare di uno dei contributi più originali che una studiosa abbia
fornito a una lettura ‘di genere’ del grande filosofo antico. Mi
riferisco al libro Nonostante Platone (Editori Riuniti, Roma 1990) e in
particolare al saggio Diotima (un capitolo del libro riproposto nella
raccolta), che ebbe il merito di catalizzare l’attenzione sull’ambiguità
del personaggio che figura al centro del Simposio platonico: Diotima,
appunto, la sapiente straniera che rivela a Socrate il significato
esistenziale dell’eros, in termini talmente impregnati di femminilità da
fare del suo nome un simbolo di opposizione alla visione maschilista e
patriarcale del mondo.
La potenza del personaggio, che dalle
pagine platoniche propone la metafora del «parto (tokos)» come modello
di azione creativa e la cura riparatrice della «mancanza» (endeia) come
antidoto alla fragilità della condizione umana, era tale da affascinare
le pensatrici, in una stagione combattiva e intellettualmente feconda
del femminismo italiano. Fino a dare corpo reale a Diotima, come se si
trattasse di una voce diversa da Platone stesso; e intitolare a lei la
ricerca del collettivo veronese, intrapresa col fine di riscrivere la
storia, reinventare il linguaggio, rovesciare la rete simbolica
dell’universalismo maschile, per fare spazio al «pensiero della
differenza». Studiose come Luce Irigaray (L’amour sorcier, in Irigaray,
Ethique de la difference sexuelle, Les éditions de minuit, Paris 1985,
27-39) e Luisa Muraro (La maestra di Socrate e la mia, in Diotima.
Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, 27-43) videro in
Diotima la maestra di un’ironia sovversiva. Adriana Cavarero diede
invece subito corpo al sospetto che l’operazione platonica fosse più
complessa e a suo modo subdola: conferire una straordinaria potenza
espressiva a una donna sapiente per far compiere proprio a lei un vero e
proprio inganno filosofico, un «furto» simbolico della potenza
generativa, che è quanto appartiene nel modo più proprio alla figura
femminile e all’esperienza delle donne, per farne solo una metafora
della produttività del pensiero maschile. Mantenendo il primato della
mente sul corpo, che è, come è noto, l’asse portante della gerarchia di
genere.
Intorno all’idea di «furto», Cavarero stava costruendo in
realtà un’operazione ben più ambiziosa e non solo anti-platonica:
praticare a sua volta questa forma di attività criminale, penetrando
nella scrittura poetica e filosofica degli antichi Greci per trafugare
le eroine intrappolate in ruoli concepiti da menti maschili (Penelope,
la servetta di Tracia, Demetra e Persefone, oltre Diotima), ridisegnando
le loro figure e riscrivendo con voce di donna le loro storie.
Richiamare
tutto ciò mi è necessario per dire della sorpresa con cui ho accolto
questa raccolta di saggi platonici: una sequenza di studi distribuiti
tra il 1973 e il 2017, che testimonia non solo di un corpo a corpo
accanito e sempre critico con Platone, durato l’intera vita da studiosa
di Adriana Cavarero, ma di un’ammirazione profonda per un pensiero che
si dà in forma aperta e sperimentale, per una scrittura che conserva la
drammaticità irrisolta delle questioni, senza perdere la sua tensione
verso la trasparenza dell’idea. Il nome della raccolta, semplicemente
«Platone», suggerisce l’interesse e la continuità del confronto con il
padre della filosofia occidentale, di fatto il primo scrittore
filosofico, che resta referente obbligato e oggetto del contendere di un
secolare conflitto interpretativo.
Trattandosi appunto del
“padre” della filosofia occidentale, è ovvio che l’attenzione di
Cavarero resti armata, lucida nel seguire le tracce di operazioni
teoriche sospette, che, pur avendo le loro radici in un tessuto
discorsivo e dialogico, tendono però a chiudere molti percorsi come
impraticabili e ad assottigliare pericolosamente il sentiero della
verità. In ognuno dei dieci saggi raccolti nel volume, la questione
della «differenza» resta banco di prova per individuare il sotto-testo
della scrittura platonica, le implicazioni non dette di una strategia
sempre mirata ad accedere all’area di coerenza assoluta dei paradigmi.
Ed è qui che il femminile (ma anche, in senso lato, l’alterità dei
soggetti sociali più deboli rispetto all’egemonia dei soggetti
eccellenti) appare talvolta la posta in gioco, talvolta l’oggetto di un
sacrificio necessario alla “neutralizzazione” del discorso che Platone
persegue con la costruzione teorica.
In realtà, nei quattro saggi
che precedono (temporalmente e nell’ordine del volume) Diotima, Adriana
Cavarero spezza diverse lance a favore di un Platone più “pluralista” di
quanto si immagini chi vede in lui l’inventore di una metafisica del
mondo vero, che schiaccia e nega ogni alterità nel mondo reale: un
Platone che in veste di critico della democrazia risulta «meno
antidemocratico della democrazia dei sofisti» (saggio 1, p.26); o che,
di fronte al disordine politico di Atene, «assume l’operare dei tecnici
come polo positivo» (saggio 2, p.44); o ancora un Platone che, mentre
indaga nel Cratilo il valore di verità del linguaggio, immaginando che
esista o possa esistere in futuro un vero «legislatore dei nomi», lascia
anche aperta la possibilità che proprio l’essenza del nome e del
nominare, e non l’ousia immateriale dell’idea, sia «ciò su cui verte
ogni ricercare» (saggio 3, p. 72); o infine, sulla scia (nietzschiana)
di Giorgio Colli, un Platone che registra le ultime tracce del vitale
dionisiaco, svelando la matrice erotica di ogni metafisica del bello,
prima di cedere all’istanza razionalistica dell’apollineo, «consegnando
al destino occidentale il primo sistema, la prima costruzione piramidale
finalisticamente ordinata» (saggio 4, p.76).
Dopo Diotima si fa
più evidente lo sforzo di smascheramento che Adriana Cavarero rivolge
alle pagine platoniche. Direttamente ispirato al tema della «differenza»
e alla problematica femminista sviluppata, in quegli stessi anni
Ottanta-Novanta, anche da altre studiose e antichiste (Luce Irigaray,
Giulia Sissa, Silvia Campese), appare l’impegnativo saggio Corpo in
figure. Il discorso di Timeo, che scandaglia l’ambiguo racconto del
Timeo platonico sulla costituzione del mondo naturale, da cui risulta
che la sessuazione, destinata a legare il maschile e il femminile
nell’unità sincronica della specie umana, si sviluppa tuttavia nella
forma di una degradazione: dal «modello originario universale» del
maschio, alla figura corporea manchevole della donna, che, occupando il
primo gradino di una serie discendente verso l’animalità, va «a lacerare
la monosessuata perfezione originaria del prototipo maschile» (saggio
6, p.116); e ciò mentre, sul piano cosmico, il femminile va a occupare
lo spazio informe della Chora, compagna e antagonista dell’opera
plasmatrice del Demiurgo secondo le idee.
La requisitoria procede
per altre vie nei tre saggi che seguono, prevalentemente legati
all’incontro di Cavarero con la prospettiva di ricerca di Hanna Arendt,
studiosa tutt’altro che consonante con il filone di indagine della
«differenza» femminile, ma incline a leggere Platone sotto l’angolatura
fornita da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1944), e
cioè come un portatore non innocente dei germi di un pensiero politico
tendenzialmente totalitario, in quanto ostile alla pluralità dei
soggetti e delle opinioni del mondo politico reale. Sarebbe difficile
entrare davvero nel merito dell’analisi puntuale e acuta svolta nei
saggi 7-8-9, che percorre luoghi cruciali della Repubblica platonica,
dall’allegoria della caverna (libro VII) alla condanna di Omero (libro
X), al nesso tra teoria e pratica dell’utopia politica (libro IX). Mi
permetto però di esprimere il mio dissenso sul fil rouge che li lega e
che, a mio parere, costringe la ricchezza analitica dell’indagine
testuale di Cavarero dentro la rete di un presupposto ermeneutico
infondato: «che Platone sia l’antesignano di una clamorosa fuga dalla
realtà della politica» (saggio 9, p.175).
Riportato correttamente
come principio-base della lettura arendtiana, l’assunto si appoggia
sull’importanza che la theoria riveste nella ricerca platonica della
Repubblica e su quell’enfasi del ‘vedere’ che si rinviene in particolare
alla fine della costruzione della «città perfettamente buona», quando
essa si rende visibile come «paradigma in cielo» e se ne discute il
possibile uso sul piano della realtà. Trasformare in un metafisico
«primato della teoria sulla politica» un risultato teorico faticosamente
raggiunto in aperto contrasto con le voci dissonanti della città reale,
significa ignorare (come è sicuramente il caso della Arendt) le
premesse conflittuali della ricerca platonica della giustizia, compreso
il disagio morale espresso dai principali protagonisti della Repubblica a
vivere in un ambiente politico degradato, in cui la possibilità stessa
di praticare un comportamento di corretta reciprocità è negata, nel nome
del più violento e naturale desiderio di sopraffazione. La visione
arendtiana di una vocazione tipicamente umana alla vita activa era
probabilmente di ostacolo a cogliere il valore propositivo di quel
distacco dall’esistente, che è il cuore normativo dell’utopia platonica.
Quale che sia il nostro giudizio sui contenuti specifici di quella
utopia.
Tornando a Cavarero, io credo che la passione autentica
per la forza provocatoria della scrittura platonica abbia alla fine
avuto la meglio e trovato la strada per esprimersi. Nell’ultimo saggio
della raccolta, un intervento del 2017, dedicato a rinvenire
«un’archeologia della post-verità», la studiosa torna al Platone critico
delle opinioni incontrollate, che suggestionano e orientano senza
difficoltà la volubile mente dei «molti»; e ricollega la portata epocale
del tema, nella città della democrazia, sia al dibattito sul rapporto
‘demagogico’ tra capo e masse, che segnò un momento cruciale della
storia del Novecento, sia all’attuale dominio delle verità “virali”,
attraverso l’immenso potere anonimo della rete in cui passano le
comunicazione di massa.
È in questo contesto che la studiosa
esprime un sostanziale apprezzamento della diffidenza platonica per quel
demos raffigurato come un «vigoroso bestione», vezzeggiato e usato dai
professionisti della politica, con sovrano disprezzo per una verità che
non esiste o non può essere distinta da una menzogna efficace.
L’interesse politico per Platone si riaccende di fronte a quella
«descrizione della fenomenologia di una politica patologica» (p.190),
che richiama, con tutte le dovute differenze, «l’attuale circo della
post-verità» (p.195). Così, restituendo a Platone tutta la ragione che
aveva sulla difficoltà a comunicare ai «molti» sensibili alle tempeste
emozionali il semplice rigore di un ragionamento fondato, Adriana
Cavarero si spinge fino a una sorta di riabilitazione di quel «primato
della teoria sulla politica», che era stato arendtianamente usato come
capo d’accusa:
Ritengo che l’elitario Platone, la cui dottrina
antidemocratica affascina così tanto le tradizioni di estrema destra e
le ideologie fasciste, l’esecrabile Platone che disprezza i molti nel
nome della verità razionale, ci possa aiutare a riflettere sulla vena
demagogica che percorre il corpo democratico, trasformandolo in qualcosa
di irresistibilmente patologico (p.197)
Da parte mia, credo sia
possibile imboccare ancora, «nonostante Platone», ma ancora con lui e
con i suoi fulminanti paradossi, la strada contraddittoria che unisce il
realismo all’utopia, permettendo anche a noi di immaginare un
«paradigma in cielo» che abbia la forza teorica di portarci fuori dalle
angustie del presente politico. E potremmo ancora domandarci, pur
mantenendo il sospetto del «furto» sulla creazione platonica di Diotima,
quale straordinaria potenza di pensiero abbia permesso al filosofo di
raffigurare la differenza profonda di una sapienza femminile, sullo
sfondo del desolante e corale disprezzo delle donne che pervade la
cultura del mondo greco.