Repubblica 25.10.18
Cucchi, l’ultimo depistaggio così l’Arma fece sparire la mail che provava il falso
Inchiesta
sabotata fino al 2015. Il carabiniere: "Da Tomasone riunione tipo
alcolisti anonimi" Indagato un altro colonnello. L’intercettazione in
caserma: "Magari morisse, mortacci sua"
di Carlo Bonini
Roma
Oltre quattrocento pagine di nuovi atti depositati ieri dal pm Giovanni
Musarò nel processo ai responsabili dell’omicidio di Stefano Cucchi e
l’iscrizione al registro degli indagati di un nuovo ufficiale ( il
tenente colonnello Francesco Cavallo), documentano al di là di ogni
ragionevole dubbio che — come ricostruito da Repubblica lunedì scorso —
fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a
predisporre i falsi che dovevano occultare la verità e sigillare la
congiura del silenzio. Soprattutto — ed è questa la circostanza che dà
la misura della dimensione " sistemica" di una storia che rischia di
travolgere i vertici dell’Arma — documentano che l’ultimo dei depistaggi
si consumò nel novembre del 2015. A sei anni dalla morte di Stefano,
quando un nuovo pm e una nuova inchiesta avevano finalmente afferrato il
bandolo della matassa identificando nei carabinieri che lo avevano
arrestato i carnefici di Stefano. Mentre infatti l’allora Comandante
generale Tullio Del Sette invitava pubblicamente al " chi sa parli",
uomini del Nucleo investigativo di Roma, su disposizione dell’allora
Reparto operativo, omisero di raccogliere e consegnare alla Procura
della Repubblica la prova chiave — una e-mail — che dimostrava come,
nell’ottobre del 2009, l’ordine di truccare le carte fosse arrivato per
via gerarchica dai vertici del Comando provinciale di Roma. Una prova
che il pm Giovanni Musarò avrebbe impiegato altri tre anni a trovare,
grazie alla sua tenacia e capacità inquirente, al suo Procuratore,
Giuseppe Pignatone, che ha tirato dritto senza timidezze, e al lavoro
della squadra mobile di Roma della Polizia. L’evidenza ultima di «
un’attività di depistaggio ossessiva, scientifica » , per dirla con le
parole di Musarò.
La mail del 2009
La mail, dunque. È il 27
ottobre del 2009, Stefano è morto da cinque giorni, come, nelle
conversazioni registrate dalla centrale operativa, si era augurato
all’alba del 16 uno dei carabinieri che lo avevano preso in carico la
notte dell’arresto ( « Magari morisse, mortacci sua » ). E l’Arma dei
carabinieri di Roma, appena travolta dal caso Marrazzo, non può
permettersi la verità. I falsi grossolani con cui sono stati
sbianchettati i registri di fotosegnalamento della caserma Casilina
perché non si possa risalire alla circostanza che lì Stefano è stato
portato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 e lì è stato
pestato devono infatti essere " sostenuti" da altri falsi. Necessari a
impedire alla Procura di scoprire che, sempre in quella notte, i due
piantoni in servizio alla caserma di Tor Sapienza ( dove Stefano ha
trascorso la notte), i carabinieri Francesco Di Sano e Gianluca
Colicchio, hanno notato i segni delle violenze che ha subito. Viene
mosso il maggiore Luciano Soligo, comandante della Compagnia Montesacro,
da cui Tor Sapienza dipende.
Ha raccontato a verbale Massimiliano
Colombo Labriola, comandante di Tor Sapienza: «La mattina del 27
ottobre 2009 il maggiore Soligo mi disse che le annotazioni di Colicchio
e Di Sano non andavano bene (…) Arrivò in caserma verso le 9,30. Entrò
nel merito di ciascuna annotazione, parlando prima con me e poi con i
due militari, contestandone il contenuto. Durante quella discussione
Soligo ricevette telefonate dai suoi superiori. Rispondeva "Comandi,
signor colonnello" e ogni volta mi faceva segno di uscire. I suoi
superiori erano il colonnello Alessandro Casarsa, all’epoca comandante
del Gruppo Roma (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale
ndr.) e il suo Capo Ufficio, il tenente colonnello Francesco Cavallo.
Dopodiché mi chiese di trasmettere i files con le due annotazioni dei
militari in formato word alla mail di Cavallo, cosa che feci. Dopo
un’ora, ricevetti la risposta con allegate le modifiche che aveva fatto
delle due annotazioni originali con la frase "meglio così"» .
A
quel punto Soligo convoca i due piantoni per fargli firmare le due
annotazioni "modificate". Nel nuovo testo, le catastrofiche condizioni
di Stefano vengono imputate al freddo, alla branda in acciaio della
camera di sicurezza, all’epilessia, alla sua condizione di ex tossico.
Di Sano firma il falso. Colicchio, dopo averlo fatto, si accorge delle
modifiche e si rifiuta. « Urlai a Soligo di andare affanculo» ,
spiegherà interrogato dal pm. E questo, nonostante Soligo gli passi al
telefono Cavallo per provare a renderlo docile.
Il 28 ottobre
2009, il pacco è pronto. Nel sistema informatico dell’Arma (il "docspa")
viene inserita la relazione modificata di Di Sano e quella originaria
di Colicchio. Il maresciallo Colombo Labriola, che è uomo previdente,
conserva per sé sia gli originali che i falsi, nonché la mail del
Comando di Gruppo che li documenta.
"Alcolisti anonimi" in divisa
Il
30 ottobre, l’allora Comandante provinciale di Roma, il generale
Vittorio Tomasone ( oggi comandante interregionale a Napoli) convoca una
riunione al Comando. In una stessa sala siedono dietro a un tavolo lui e
il colonnello Casarsa. Davanti a loro, il comandante della Compagnia
Casilina, il maggiore Unali, il maggiore Soligo, il maresciallo Roberto
Mandolini, l’uomo dei primi falsi della caserma Appia, il maresciallo
Colombo Labriola e tre dei carabinieri coinvolti nell’arresto di
Stefano. Il giorno prima, il 29, il pm Barba che indaga sulla morte di
Stefano aveva cominciato a sentire come testi i carabinieri coinvolti
nella vicenda Cucchi. La riunione serve a capire cosa è stato detto in
quella sede e far ascoltare a tutti quale sarà la storiella che di li in
avanti, per nove anni, verrà raccontata a una famiglia e a un Paese
intero. Racconta a verbale il maresciallo Colombo Labriola: «Sembrava
una riunione degli alcolisti anonimi. Ognuno, a turno, si alzava in
piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda. Non si
parlò della "doppia annotazione" imposta a Di Sano e Colicchio. Nessuno
obiettò nulla, né so spiegarmi perché non fu fatto alcun verbale e
perché fummo sentiti tutti insieme. Ricordo solo che Tomasone zittì
Mandolini che aveva interrotto uno dei carabinieri che avevano arrestato
Stefano per integrare il suo racconto, dicendogli che il carabiniere
doveva esprimersi usando le sue parole perché se non fosse stato in
grado di farlo con un superiore non sarebbe riuscito a farlo neanche con
un magistrato» . Insomma, una prova generale di una recita a soggetto.
Il depistaggio del 2015
Bisogna
ora spostare le lancette del tempo. È il novembre del 2015. E si
consuma l’ultimo oltraggio alla verità. Il pm Musarò, titolare
dell’inchiesta cosiddetta Cucchi bis chiede all’allora Comandante
provinciale di Roma, il generale Salvatore Luongo, oggi capo ufficio
legislativo della ministra della Difesa Elisabetta Trenta, di
trasmettergli tutti gli atti in possesso dell’Arma sul cosiddetto "caso
Cucchi". Luongo affida la pratica all’allora neocomandante del Reparto
Operativo, Lorenzo Sabatino, ufficiale ambiziosissimo, per sette anni
comandante del Nucleo investigativo di via Inselci, oggi comandante
provinciale dei Carabinieri a Messina dopo un periodo al Ros, reparto di
eccellenza dell’Arma. Sabatino incarica direttamente della raccolta dei
documenti la quarta sezione del Nucleo investigativo. Che si presenta
dunque a Tor Sapienza di fronte al maresciallo Colombo Labriola. È una
scena madre. Che il maresciallo racconta così: «Arrivarono un capitano e
almeno due sottufficiali. Gli diedi le annotazioni di Di Sano e
Colicchio sia nella versione "modificata" che originale. L’ordine era di
dare tutto e io non volevo nascondere niente. E per far capire che
avevo eseguito un ordine su disposizione dei superiori e spiegare così
il perché di quelle due annotazioni, circostanza di cui i colleghi
stessi si erano subito resi conto, mostrai la mail ricevuta dal
colonnello Cavallo. Il capitano, allora, uscì fuori dalla mia stanza per
parlare al telefono. Quando rientrò, presero tutto, ma non la mail» .
Tutto.
Ma non la mail.La prova che inchioda la catena gerarchica per i falsi
non viene dunque raccolta per ordine del Reparto operativo con cui il
capitano ha confabulato. E la ragione è semplice. Senza quella mail,
Musarò non andrà oltre una storia di falsi cucinata da « qualche mela
marcia » di basso grado. Una scommessa sbagliata. E per l’Arma
catastrofica.