giovedì 25 ottobre 2018

Repubblica 25.10.18
L’agente scagionato
"Noi mandati al macello per coprire le colpe di altri"
di Maria Elena Vincenzi


ROMA «Io sono un pubblico ufficiale. Mi dica lei cosa devo pensare di chi, pubblico ufficiale come me, ha falsificato le carte per nascondere le sue responsabilità. Io posso solo dire che non sarei mai riuscito a farlo. Perché di reati, se davvero verrà accertato che le cose sono andate come sembra, ne sono stati commessi due. I falsi, certo.
Ma anche quello di mandare degli innocenti al patibolo. Io e due miei colleghi siano stati a processo per sei anni per questa storia». Nicola Minichini, assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria, è stato imputato nel primo processo per la morte di Stefano Cucchi. Ora è parte civile, sempre assistito da Diego Perugini, nel processo bis.
Come sono stati quei sei anni e cosa prova ora?
«Se le dicessi che sono stati un tormento sarei riduttivo.
Sono stati anni di pianti e disperazione. Ho una moglie e due figli. Uno all’epoca faceva le elementari, il maggiore le medie.
Lei sa che cosa vuole dire dovere spiegare al proprio bambino che non sei un mostro? Che non è vero ciò che gli dicono, che io non ho ucciso nessuno? Lei sa cosa vuole dire camminare per le strade del quartiere e essere additato come quello che ha ammazzato un ragazzo di 30 anni? Perché, anche se tutti sanno che sono una persona perbene, il tarlo s’insinua. Anche i miei figli hanno visto quella foto di Stefano Cucchi tumefatto. Ecco, io ho dovuto spiegare loro che io non c’entravo niente. Nonostante il processo, nonostante i giornali».
Ma lei è stato sempre assolto.
«Sì, ma da innocente sono stato sotto processo sei anni».
E ora? Cosa prova scoprendo che il pestaggio avvenne per mano dei carabinieri?
«Provo tanta rabbia per quello che mi è successo. Solo ora realizzo la mia innocenza.
Finalmente la mia verità non è più solo la mia come è successo in tutti questi anni».
Ma lei non ha mai pensato che Stefano Cucchi potesse essere stato picchiato prima?
«Certo. In alcuni momenti del processo era evidente. E io ancora oggi non so perché non si sia voluto indagare su quello che era successo prima che Cucchi arrivasse a piazzale Clodio.
C’erano tanti elementi che suggerivano di farlo».
Lei sospettava quindi, che fossero stati i carabinieri?
«Certamente, già dagli atti della prima indagine. Ma lui non me lo disse, altrimenti avrei relazionato. Quando è entrato questo ragazzo, ho visto dei segni sotto agli occhi.
Lo feci visitare perché mi disse che aveva mal di testa».
Come si sente oggi?
«Solo ora sfogo la rabbia che ho avuto in corpo per anni. A volte ho l’impressione che l’opinione pubblica dimentichi che, oltre alla famiglia Cucchi, ci sono altre tre famiglie che hanno vissuto uno strazio. Ora che ci sono nuove pedine in gioco, si volta pagina e noi veniamo dimenticati. Il mio era l’unico stipendio in casa: per difendermi ho chiesto soldi ai miei genitori, ai suoceri, agli amici. Per fortuna la mia amministrazione mi ha permesso di continuare a lavorare».