Repubblica 25.10.18
Il caso dj Fabo
L’inferno della non vita
di Roberto Esposito
La
decisione di rinviare la sentenza sull’incostituzionalità dell’articolo
580 del codice penale non costituisce certo un passo avanti nel
delicato rapporto tra legge e libertà delle persone. Costatando un vuoto
legislativo nel merito di una questione di importanza capitale per i
cittadini, non fa che prolungarlo, almeno fino al prossimo anno.
Nell’articolo 580, redatto nel 1930, sotto il regime fascista, si
equipara l’istigazione al suicidio all’aiuto dato a chi abbia
autonomamente maturato quella tragica scelta. In tal modo, omologando un
palese reato a un atto di dolorosa solidarietà nei confronti di chi
intende interrompere una sofferenza insostenibile, si produce un duplice
danno. Si contraddice il principio costituzionale
dell’autodeterminazione individuale sulla scelta più rilevante - quella
di stabilire il limite oltre il quale la propria vita perde ogni senso. E
si abbandona alla solitudine più disperata colui che versa in una
situazione estrema.
Lo stesso governo che non ha fatto nulla —
come del resto il governo precedente — per accelerare la discussione
della legge sul fine vita assistito, ha inteso sottrarre alla Consulta
la possibilità di esprimersi su una questione di tale rilevanza
costituzionale, civile, morale. In questo vuoto legislativo, chi non
resiste più alla sofferenza è costretto a scappare all’estero come un
ricercato per ottenere quello che lo Stato italiano vieta. E per giunta
non può neanche chiedere un aiuto a chi è disposto, a suo rischio
personale, a fornirglielo. Già i casi Welby ed Englaro, pur diversi tra
loro e da quello di dj Fabo, hanno evidenziato una frattura profonda tra
il codice penale e le esigenze maturate nella coscienza di larga parte
dei cittadini. Come mantenere inalterata una legislazione promulgata in
tempi in cui lo Stato si dichiarava padrone della vita degli individui,
oggi che la biotecnologia ha moltiplicato le possibilità di prolungare
in una vita artificiale un corpo definitivamente abbandonato da ogni
energia vitale?
Aldilà del conflitto di competenza sollevato da
questo caso, ciò che colpisce è l’incapacità della classe politica di
stabilire a chi appartengano le chiavi della nostra vita. Se il suo
inizio non è nella disponibilità di chi viene al mondo, non può esserci
sottratta anche la decisione ultima sulla sua fine. Chi altri, se non
colui che soffre, può stabilire la soglia di sopportazione di tale
sofferenza? O si aspetta che sia lo Stato a definire quali sono le vite
"non degne di essere vissute", come nella Germania nazista? L’atto
estremo del suicidio, quando il male abbia raggiunto il punto di non
ritorno, non appartiene alla morte, ma ancora alla vita. Ne costituisce
anzi l’ultima, decisiva, manifestazione. Chi può arrogarsi il potere di
strappargliela?
Per fortuna da poco sono state approvate in Italia
le leggi sul testamento biologico e il reato di tortura. Ma non è una
sorta di oggettiva tortura prolungare una vita che chiede di spegnersi?
Certo, si tratta di situazioni ben diverse. Ma unite da un filo
inquietante. Anche chi tortura fa di tutto per mantenere in vita la sua
vittima, per ritardarne la morte, impedendogli di morire prima di
arrendersi al dolore. La grande letteratura — da Dante a Kafka — ha dato
un nome a questa permanenza tra la vita e la morte. Lo ha chiamato
inferno. L’inferno non è l’abbandono di un corpo sfinito alla morte, ma
la condizione di chi sperimenta la morte durante la vita.
L’impossibilità di morire quando il corpo, e anche l’anima, lo chiedono
con tutte le loro forze. Infernale è l’eternità di un tormento senza
fine. Una vita che anticipa il vuoto della morte, una morte mascherata
da vita.