Repubblica 23.10.18
Faurisson una vita dedicata alla menzogna
di Wlodek Goldkorn
Robert
Faurisson, morto domenica a casa sua a Vichy, all’età di 89 anni, è
stato l’uomo che ha dedicato la sua vita a demolire il più importante
dei tabù su cui poggia la civiltà occidentale dopo la seconda guerra
mondiale. Quel tabù, recente, ma così forte da aver cambiato il nostro
modo di vedere l’intera storia dell’umanità, ha un nome, che a sua volta
porta il nome di un luogo maledetto e che non avrebbe dovuto esistere
né essere immaginato, ma che è esistito e fu edificato da esseri umani.
Umani
che, a loro volta, per citare Hannah Arendt, pensavano di avere il
diritto di eliminare dalla faccia della terra un’intera categoria di
altri esseri umani e perfino la loro memoria. Stiamo parlando di
Auschwitz. E di un tabù che esiste grazie alla forza della memoria di
alcuni uomini e donne capaci di raccontare l’inenarrabile, ciascuno a
modo suo; e tra questi un grande scrittore come Primo Levi e
un’importante testimone come Liliana Segre.
La memoria può essere
declinata in tanti modi quanti sono i testimoni, gli interpreti, gli
esegeti. Essendo materia politica perché ci parla del futuro, la memoria
è per definizione oggetto di contesa e di divisioni. Ma un conto è
discutere sulla forma che si vuole dare al racconto della Shoah e
perfino alle cause della catastrofe epistemologica, etica ed estetica
della civiltà europea, altra storia è negare che la Shoah ci sia stata.
Ecco, Faurisson era diventato celebre (per modo di dire) quando nel 1978
pubblicò un pamphlet in cui negava che sei milioni di ebrei fossero
morti nelle camere a gas. Da allora, in Occidente, sono state fatte
leggi per punire il negazionismo e lui stesso fu condannato dai
tribunali, ma ancora prima dalla comunità degli storici: a partire da un
gigante come Pierre Vidal-Naquet.
Finché ci sarà la memoria, ci
saranno le polemiche intorno alla storiografia della Shoah. E anche il
modo in cui vengono costruiti i musei per ricordare quel che è successo è
stato e sarà oggetto di discussioni, spesso molto aspre. E ci fu
perfino chi diceva che i campi di sterminio nazisti erano una specie di
reazione al bolscevismo. Ma Faurisson è andato oltre. Ci spieghiamo:
oggi, tranne qualche eccentrico, nessuno osa dichiararsi razzista,
augurare l’estinzione di altri popoli; merito di una specie di super-io
ormai interiorizzato, legato appunto al tabù di Auschwitz. Abolire quel
tabù come voleva Faurisson avrebbe significato riaprire le porte
dell’abisso.