martedì 23 ottobre 2018

Repubblica 23.10.18
Il convegno al Senato
Così Vittorio Foa ci insegna a costruire una democrazia
di Simonetta Fiori


ROMA Ci sono tanti modi per rendere omaggio a un protagonista del Novecento. E quello scelto da Andrea Ricciardi e Federica Montevecchi nel convegno ospitato ieri al Senato sarebbe piaciuto a Vittorio Foa, allergico a incenso e monumenti. Poco spazio per la retorica e una domanda di fondo: a dieci anni dalla morte, in che modo Foa continua a parlare ai ragazzi (e non solo ai ragazzi)? E cosa riesce a dirci in un passaggio storico di segno regressivo? I rumori di fondo di un’Italia smarrita entrano prepotentemente nella Sala Capitolare in cui si svolge l’incontro dedicato a un padre costituente, a un antifascista che pagò con la galera la sua opposizione al regime (e che in tempi più recenti così replicò a un Mirko Tremaglia sostenitore dell’equiparazione tra resistenti e ragazzi di Salò: «Vedi, quando vinse il fascismo io finii in galera; quando vinse l’antifascismo tu diventasti Senatore della Repubblica»).
Nel ricordare la figura di Foa è impossibile fare finta di niente.
Impossibile ignorare la deriva sovranista e gli attacchi all’edificio costituzionale. L’intervento di Anna Rossomando, la vicepresidente del Pd che si è spesa perché il convegno su Foa si tenesse al Senato, è ricco di riferimenti all’attualità, alle «minacce alla democrazia liberale», al «dileggio dei saperi liquidati come espressione dell’establishment». E il cupo scenario contemporaneo affiora anche dalla riflessione di Eugenio Lo Sardo, sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato dove in un primo momento si sarebbe dovuto tenere il convegno, che ora ringrazia il Senato per avere accolto la giornata di studi: «È importare dare un segnale, esprimere la volontà di appartenenza a una comunità che ha scelto la democrazia. E vuole essere di esempio al mondo proprio per la sua costruzione democratica». E non è casuale che nel pomeriggio anche la presidente del Senato Casellati abbia voluto rendere omaggio a un artefice della Carta.
La memoria non è passato ma presente. E deve essere coltivata verso personalità politiche «capaci di coniugare coscienza e conoscenza», come dice Montevecchi, «capaci soprattutto di mostrarsi nel comportamento esemplare che non ha bisogno di essere dichiarato: quale siderale distanza da un evo segnato dall’abuso della parola in assenza di comportamenti significativi».
L’attualità di Vittorio Foa è nel sapere fare domande, interrogativi ancora vitali a distanza di decenni. Domande che riguardano la sua stessa parte politica, ossia la tradizione intellettuale della gauche. «Già negli anni Novanta», dice Ricciardi, «Vittorio si accorge che gli strumenti interpretativi elaborati nel Novecento non sono più sufficienti per costruire il futuro della sinistra». E anche la memoria non serve a niente se non sollecita i problemi di chi ti ascolta. Sulla memoria è interessante la testimonianza della figlia Anna, studiosa di storia, che ha ricordato le riflessioni del padre sul tema della Shoah in età molto avanzata. «Non gli sembrava giusto concentrare il ricordo nello spazio di una giornata. Le vicende del Sudafrica, con Desmond Tutu e la commissione Verità e Riconciliazione, lo spingono a sottolineare come questa memoria abbia un grave handicap, il mancato riconoscimento della colpa: la colpa dell’indifferenza, dell’aver taciuto, dell’aver collaborato con gli assassini. Penso che quanto accade oggi in Italia gli avrebbe sollecitato altri dubbi sul nostro modo di ricordare, altre domande sull’incapacità della memoria di sradicare l’odio e il razzismo». E a questo proposito appare di sorprendente attualità la lettera scritta alla figlia Bettina impegnata in un lavoro di ricerca in Africa. «L’Italia adesso è agitata dal problema del razzismo. La nostra cultura secolare è di emigrazione, ora siamo tutti impreparati all’immigrazione e la si vede come un’ondata smisurata. Lo scatenamento razzista ha caratteri violenti, spesso omicidi. Certo ci sono i razzisti doc come ci sono gli antirazzisti doc, in mezzo ai quali siamo tutti razzisti con il dovere di vincere il rifiuto del "diverso" che rompe i nostri equilibri psicologici e vitali.
Ci sono obblighi sociali (di accoglienza e di assistenza). E ci sono anche obblighi culturali ed educativi». Era il 3 aprile del 1990, quasi trent’anni fa. E da allora sembra che poco sia cambiato, se non in peggio.