lunedì 22 ottobre 2018

Repubblica 22.10.18
Corteo anti-camicie nere
A Predappio l’Anpi sbarra il passo al 28 ottobre fascista
di Silvia Bignami


Rischiano di trovarsi gli uni di fronte agli altri, neofascisti e partigiani, il prossimo 28 ottobre nella piazza di Predappio, paese natale del duce. I primi abituati da decenni a sfilare in ricordo della marcia su Roma, in un tripudio di camicie nere e saluti romani che «ci devasta ogni anno», dice il sindaco Giorgio Frassineti (Pd). Gli altri, i partigiani dell’Anpi, decisi stavolta ad impedire la nostalgica parata, sempre meno folkloristica in un Paese in cui si gonfia il vento dell’intolleranza, e ad andare piuttosto loro, in piazza.
Sempre il 28 ottobre, perché «quello è il giorno dell’anniversario della Liberazione di Predappio».
Altro che marcia su Roma, «il 28 ottobre del ‘44 le truppe alleate e i partigiani entrarono a Predappio e liberarono la città natale di Mussolini» ha scritto nei giorni scorsi l’Anpi nazionale al prefetto di Forlì, chiedendo la concessione di uno spazio per la manifestazione degli antifascisti. E chiedendo pure, sia alla Prefettura che alla Procura, di impedire la sfilata dei nostalgici, «in quanto totalmente illegale». L’appello ha ridato fiato alla sinistra.
Sinitra Italiana ed Mdp in Regione si sono unite all’appello dell’Anpi, dal Pd è partita una interrogazione al Viminale, ma il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha chiuso subito la porta a qualsiasi ipotesi di vietare la marcia dei neofascisti. «Sono per la libertà di pensiero - ha detto il vicepremier e chiunque può marciare liberamente, se lo fa nel rispetto della Costituzione». Come non detto insomma per l’Anpi, che voleva bloccare i nostalgici. E anche per il sindaco Frassineti, che si ritroverà anche quest’anno alle prese con «l’occupazione» dei neofascisti, a suon di gadget e cimeli. Un commercio della memoria del regime che indigna anche l’ex presidente del Senato Pietro Grasso: «Sosteniamo la grande manifestazione dell’Anpi e chiediamo che si metta fine una volta per tutte al commercio di oggetti inneggianti al fascismo». Grasso invita a riflettere pure sull’opportunità di realizzare a Predappio un centro di documentazione sul fascismo. Proprio su questo però il sindaco Frassineti, che è tra i principali promotori del museo, scuote la testa: «Il centro di documentazione nasce proprio per combattere il neofascismo. È un’operazione divulgativa e autorevole, per parlare di fascismo in modo serio. Oggi tutti si ricordano di noi solo il 28 ottobre per la parata di un migliaio di persone venute da fuori, ma Predappio è un Comune di sinistra, primo sull’accoglienza, e vive tutto l’anno. Io vorrei che Grasso, ma anche Martina e tutta la sinistra, venissero qui a conoscerci».

Corriere 22.10.18
Anteprima
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)

Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora


Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano. Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (…) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei centri motori — insieme ai «casi» Marx e Heidegger — del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno. A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire». Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone — superamento della proprietà, della famiglia etc. — sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come — diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione — in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché — afferma — quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo — dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) — Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E). Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che — dopo reiterate sconfitte — «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti. E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano. Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj — il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante — diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.

Corriere 22.10.18
La collana
Un mondo affamato di profondità ha ancora bisogno dei classici greci
Parte domani con il quotidiano la nuova serie interdisciplinare «Letteratura. Storia. Civiltà»
di Daniela Monti


Maestri infaticabili hanno posto le domande essenziali per l’umanità
La poesia di Omero, il pensiero di Socrate e di Platone, le grandi tragedie
«Ovviamente, per frequentare questo corso è necessario conoscere il greco antico». Emanuele Severino pronuncia queste parole durante la prima lezione di Filosofia teoretica, quella in cui presenta il programma di studio per l’anno accademico che va a cominciare. Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta: e a quel punto nell’aula sovraffollata — Severino è una star, l’eretico allontanato dalla Cattolica di Milano perché il suo pensiero è stato giudicato inconciliabile con il cristianesimo, le sue lezioni calamitano studenti anche fuori dalla facoltà di Filosofia — una buona metà dei ragazzi raccoglie le proprie cose e se ne va, lasciando gli altri a spartirsi lo spazio fra i banchi.
Quello che Severino chiedeva agli studenti — lo capiremo più tardi — non è semplicemente saper leggere e tradurre il greco. Certo, anche quello, perché le lezioni saranno tutte un rincorrersi di termini e concetti — a partire dalla formula di Parmenide «l’essere è e non è possibile che non sia» — nati nella lingua greca.
Ma quello che il professore intendeva davvero con «conoscere il greco antico» è l’esperienza del corpo a corpo, l’allenamento quotidiano, la familiarità con una cultura che insegna a pensare e a vivere. I Greci, quasi tremila anni fa, hanno elaborato una teoria, cioè una comprensione del mondo, che è ancora la nostra, e di quella teoria si sono serviti come di uno scudo contro il dolore dell’esistenza (scopo ultimo, in definitiva, di tutte le teorie, di tutte le civiltà). Eravamo coscienti, noi che allora scaldavamo le seggiole, di tutto questo?
Dalla nascita del pensiero, con il mito e la poesia, alla nascita della filosofia e della storia, i Greci hanno dato forma al nostro mondo, il mondo dell’immaginazione, della giustizia, della democrazia, dei sentimenti. Hanno portato per la prima volta alla luce il senso dell’essere e del nulla. La nostra cultura, che pensa di potersi disinteressare del pensiero greco, si è sviluppata all’interno delle categorie che da quel pensiero sono state espresse. E così la nostra civiltà.
I Greci sono stati maestri infaticabili nel porre domande, sollevare dubbi, avanzare risposte. Qual è il senso dell’esistenza umana? Un quesito che, anche nella nostra età liquida, non è ancora passato di moda. «Come le foglie, così le stirpi di uomini», scrive Omero ben prima di Ungaretti, che torna a quell’immagine per denunciare gli orrori della guerra. Che senso può avere qualcosa che è destinato a scomparire, a morire? Questa la domanda centrale: tutta la riflessione dei greci, non solo dei filosofi, si concentra nel tentativo di offrire una risposta che resista allo scorrere del tempo.
L’Iliade e l’Odissea — i primi e più grandi racconti dell’Occidente —, Le opere e i giorni di Esiodo, i versi di Solone, i paradossi di Eraclito, l’uomo misura di tutte le cose di Protagora, il percorso che porta dal mito al logos con Platone e Aristotele.
Sono i miracoli della cultura greca, insieme alla nascita della storia con Erodoto e Tucidide, alla tragedia di Eschilo, alla lirica di Mimnermo e Saffo. Gli archetipi della poesia e della prosa letteraria europea si trovano negli scritti dei Greci. E a rendere possibile tutto questo è stato l’intrecciarsi continuo di culture diverse, il crash fra saperi che prendono corpo in luoghi lontani — dagli ambienti decisivi di Atene (la cerchia intorno a Pericle, i socratici, Platone e l’Accademia, la scuola di Isocrate, il Peripato, la cerchia intorno a Demostene) alla rete di grandi e meno grandi luoghi culturali.
Che resta oggi di tutto questo? Persino i miti, con i loro protagonisti dalla personalità complicata e dal destino segnato, abissalmente più intensi e umani di tanti eroi di oggi, stanno vivendo una nuova ondata di interesse: l’operazione di volgersi ai Greci, per capire qualcosa di più su chi siamo, sta conquistando un pubblico di giovani, affamati di profondità. E la filosofia? Di teorie sotto i ponti ne sono passate tante dal tempo della grande Atene, eppure, come scrive Mauro Bonazzi, «la filosofia contemporanea altro non è che il tentativo di confutare Platone, mostrando che le sue risposte sono sbagliate». E che renverser le platonisme, «rovesciare il platonismo», sia il compito della filosofia contemporanea lo pensava anche Gilles Deleuze (e Bernard Williams, allargando il campo: «L’eredità lasciata dalla Grecia alla filosofia è la filosofia»).
«Le domande di Socrate stimolano ciascuno di noi a mettersi in gioco, nel proprio mondo e nella propria quotidianità, e avanzare verso l’unica via che può avvicinare alla felicità: la conoscenza di sé in relazione con gli altri», scrive Pietro Del Soldà nel suo Non solo di cose d’amore (Marsilio). E in un mondo ossessionato dal raggiungimento della felicità, rileggersi anche solo un dialogo platonico — il Simposio, per esempio — può davvero salvare la vita, perché rimette in circolo la voglia di conoscere, di domandare, di rispondere, di capire, riaprendo un dialogo che, nella realtà sostanziale delle cose, non si è mai interrotto.

Corriere 22.10.18
Il primo volume
Epoche e civilizzazioni che hanno fondato l’Occidente


È in edicola da domani con il «Corriere della Sera» la nuova collana dedicata alle civiltà letterarie antiche e medievali «Letteratura. Storia. Civiltà. Grecia antica, Roma antica, Medioevo». Una biblioteca in 26 volumi (nel piano dell’opera qui a destra sono riportate le prime 15 uscite) in collaborazione con Salerno editrice, e per la prima volta in edicola, al costo di e 9,90 più il prezzo del quotidiano. Epoche e civiltà, che sono state tra le più ricche e affascinanti della storia, sono presentate in un percorso cronologico che inizia con La polis. Dall’epica omerica all’enciclopedia aristotelica del sapere, titolo del primo volume diretto da Giuseppe Cambiano, Luciano Canfora, Diego Lanza (curatori di tutta la sezione dedicata alla Grecia antica). Nel volume viene ripercorsa la nascita della poesia e della prosa letteraria, generi strettamente legati alla fioritura della città greca e ai luoghi della vita sociale. I testi nascevano infatti nello spazio-tempo della loro fruizione, come le feste, i simposi, il teatro, il tribunale. Il primo volume offre un panorama di ciascun genere, riconducendolo ai luoghi della nascita e sviluppando al contempo una storia dell’elaborazione culturale, dalla rappresentazione dell’uomo dell’epica omerica alla sfaccettata articolazione dell’enciclopedia aristotelica del sapere. La collana in edicola ripercorre gli intrecci tra opere, autori e condizioni storiche e sociali, a partire dalla Grecia e Roma antiche fino al Medioevo latino e volgare. Tra le prossime uscite (tutte settimanali): L’Ellenismo. Egemonia e diffusione della cultura greca (30 ottobre) e I Greci e Roma, tra modelli classici e rimescolamenti di genere (6 novembre). (j. ch.)

Repubblica 22.10.18
L’inchiesta
Il generale e gli ufficiali
Così i vertici dell’Arma depistarono su Cucchi
L’indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma
La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone
di Carlo Bonini


Roma. Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate indipendentemente da Repubblica indicano che fu l’intera catena di comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009.
L’operazione di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di registri interni, e comunicazioni all’autorità giudiziaria, si consumò tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata e comandante interregionale dei Carabinieri " Ogaden" di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Con lui, almeno tre gli ufficiali coinvolti. L’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa ( oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto- ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo ( allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il maggiore Paolo Unali ( allora comandante della Compagnia Casilina). Infine, i marescialli Roberto Mandolini ( vice comandante della stazione Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola ( comandante della stazione Tor Sapienza).
I fatti, dunque. A cominciare dall’ultimo fotogramma di questa storia.
La mail con l’ordine di manomettere la verità
Il maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di dimostrare da chi e quando arrivò l’ordine di falsificare le carte da cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima dell’indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del pestaggio che aveva appena subito. Ma era necessario che si costruisse una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del "tossico", alla sua epilessia. A maggior ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della morte di Stefano.
Labriola, pure indagato per falso, è convinto che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all’interno della caserma che comanda. Ma sbaglia, perché quando, all’inizio della scorsa settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché — dice — sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno.
Le carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là di ogni ragionevole dubbio che l’ordine di falsificazione delle annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e Gianluca Colicchio ( i due piantoni che presero in carico Stefano la notte dell’arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti- Montesacro, cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze del processo Cucchi- bis — ha detto la verità. « È vero, modificai la relazione di servizio — aveva spiegato — Mi chiesero di farlo, perché la prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica, forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non saprei dirlo con esattezza».
Il falso cucinato da Colombo per ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la manomissione testuale, l’iniziale ricostruzione ( « Cucchi Stefano riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non potere camminare. Viene aiutato a salire le scale») in un passaggio assai più prolisso. Che precostituisca spiegazioni alternative alla domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: « Cucchi Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza».
Anche l’annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso, a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in cui era possibile leggere che Cucchi « dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia » . Ma esclude di aver mai redatto e firmato un’annotazione con stessa data e numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano «dichiara di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio».
Il 18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell’intera scala gerarchica.
Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata.
La riunione del 30 ottobre e l’appunto farlocco
Che il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell’allora Comandante provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che autorizzerebbe, da sola, a pensar male. Ma è quel che accade il 30 ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura del coinvolgimento dell’intera catena di Comando nei falsi. Alla riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i marescialli Mandolini ( stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza, Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore che possono travolgere l’intera Arma e mettere fine alla carriera di un ufficiale — Tomasone — che è la luce degli occhi dell’allora Comandante generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale successore ( « Sono la stessa cosa » , si diceva di loro). Il 23 ottobre Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano. Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il ricatto " trans" ai danni dell’allora Governatore del Lazio Piero Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla propria persona, sul suo " onore di carabiniere" che « l’Arma non c’entra».
Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di verbale. Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. E c’è un motivo. La riunione deve infatti verificare che "le carte siano a posto" e i nervi dei protagonisti " saldi". Diciamo pure che è una rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17 ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in quella Casilina dall’arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto " testa" e coordinamento della catena gerarchica. Perché prevedono il coinvolgimento di almeno due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo.
Sono stati infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell’annotazione del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio ( viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio della stazione di Tor Sapienza ( abbiamo visto come). Si deve fare in modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell’arresto di Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni.
Il sigillo dell’operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa, comandante del Gruppo Roma che l’Arma trasmetterà alla Procura. Si dà atto di un’inchiesta interna che non c’è mai stata e che, naturalmente, assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte.

Repubblica 22.10.18
La crisi demografica
Più over 60 che under 30 sorpasso nel Paese che invecchia
di Corrado Zunino


ROMA Per la prima volta dal 1861, cioè da quando ci contiamo, in questo Paese che non figlia ma mantiene livelli di sanità alti, chi ha oltre sessant’anni è più numeroso di chi ne ha meno di trenta. Il 2018 segna il sorpasso degli over sessanta (sono il 28,7 per cento della popolazione italiana) sugli under trenta (il 28,4, ora). Lo dice l’Istituto di studi e ricerca Carlo Cattaneo analizzando dati Istat.
All’interno della fascia "giovani" è interessante, e doloroso, notare come il blocco generazionale che va da zero a quattordici anni — fino al 1971 il più numeroso dei sei presi i n considerazione — oggi è il penultimo con il 13,3 per cento del totale. Insidiato da vicino dagli over 75. Di più, dal 1991 ad oggi, parliamo quindi degli ultimi 27 anni, i "giovani" sono diminuiti di 11,2 punti mentre gli "anziani" sono cresciuti del 7,6 per cento.
Il tweet con cui l’Istituto Cattaneo ha immesso questa novità nel dibattito politico — lo studio completo sul "sorpasso" uscirà più avanti — si chiude con questa frase: «Ecco perché la politica (e la Legge di bilancio) si occupa più dei primi che dei secondi». Più degli anziani, intende, che dei giovani. La Fondazione spiega: «Una delle questioni da sottolineare è che una quota di giovani intorno al 15-16 per cento non vota. Quindi i governi, in maniera fisiologica e scarsamente lungimirante, non costruiscono politiche per loro. Da troppo tempo manca un manifesto programmatico di lungo periodo dedicato a questa generazione».
Di fronte a un calo delle nascite che dura dagli Anni ‘70, Alessandro Rosina, ordinario di Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, dice: «Il sorpasso è la naturale conseguenza del de-giovanimento infelice del nostro Paese. In Italia cresce il numero degli anziani, e questa è solo una buona notizia.
Anche in Francia cresce, con cifre raffrontabili alle nostre. Il problema, da noi, è la rarefazione della gioventù. Lo squilibrio demografico non può certo essere colpa della longevità, fenomeno da accompagnare con politiche adeguate. L’Italia, purtroppo, ha eroso la base della piramide, disinvestito sulla presenza quantitativa delle nuove generazioni italiane. Anche la Germania ha denatalità», e questa è una seconda comparazione europea, «ma lì i governi hanno compensato le diminuzioni quantitative con un forte potenziamento qualitativo».
Investendo in formazione, ricerca e sviluppo, nelle politiche attive.
Da noi si rischia un abbassamento della qualificazione media degli studenti. «L’Italia», chiude Rosina, «considera i giovani un costo a carico delle famiglie, non un investimento della collettività.
Questo punto di vista è pienamente abbracciato dalla politica, che sempre più sposta risorse sugli anziani. Il primo Renzi e i 5 Stelle in campagna elettorale hanno provato a invertire la direzione, ma quando hanno iniziato a governare hanno scelto di tutelare i genitori anziché i figli».
La lunga stagione di disinvestimenti su questa doppia fascia di italiani — da 0 a 29 anni — è diventata uno status quo: «Se mi sento abbandonato a me stesso su temi come l’istruzione e la cultura della famiglia rinvio le scelte, quindi rinuncio e accetto la mia condizione di single poco formato. Convincendomi, a posteriori, che è una condizione positiva. Ci stiamo adattando a un basso sviluppo e rinunciamo al futuro per difendere condizioni di benessere o quasi benessere. Oggi la povertà di una famiglia con un under 35 nel nucleo è aumentata, la povertà con un over 65 è diminuita. Per redistribuire risorse verso i più giovani il taglio alle pensioni più generose ha un senso».
Francesco Sinopoli, segretario della Federazione lavoratori della conoscenza, vede la piramide demografica dal punto di vista dei ragazzi (studenti) all’interno di un sindacato, la Cgil, sempre più a tutela dei pensionati. Dice Sinopoli: «La desertificazione giovanile è la più grande emergenza dei nostri tempi.
Chiunque frequenti il Sud, le Isole e le zone interne lo sa da anni. Un terzo del Paese è in queste condizioni: mancano i giovani. Per invertire questa disgrazia sociale serve favorire migrazioni di insediamento e un’occupazione femminile con ritmi e tempi che consentano la maternità. Poi c’è la scuola. Non si possono togliere insegnanti parallelamente alla riduzione degli studenti. Bisogna investire nel tempo pieno, combattere gli abbandoni».

Il Fatto 22.10.18
L’uomo bianco che spara al nero oggi è l’eroe del momento
Ezio Mauro ripercorre in un reportage inedito la storia di Luca Traini
di Furio Colombo


Forse Ezio Mauro, pur sapendo di avere scritto il libro giusto al momento giusto, non avrebbe mai immaginato che una esuberante serie di festeggiamenti avrebbe celebrato il suo eroe. Nel tempestivo libro di Mauro – L’uomo bianco, Feltrinelli – Luca Traini, che forse non è sano di mente (forse non si può essere razzisti fino al punto di tentare una strage per le quiete vie di Macerata ed essere sani di mente) ma certo è assassino, compare già pronto ad uccidere, con le sue armi, le sue munizioni, le sue convinzioni, la sua auto che deve portarlo a scovare, strada per strada, i colpevoli del processo che lui ha già celebrato: colpevoli in quanto neri, in quanto migranti, in quanto hanno osato cercare rifugio in Italia.
Come in un documentario costruito con attenta rappresentazioni dei luoghi e delle sequenze, Mauro ci fa vedere il muoversi per la città del sicario (qui la parola è giusta, Papa Francesco) mentre si prepara ad uccidere. E intanto una ben documentata voice over ci dice, con il linguaggio di una riflessione triste, amara e profonda, che Luca Traini vive in un mondo, politico, umano, morale, che lo sta spingendo a ciò che sta per fare: appena un nero è a tiro, lui sparerà. Un morto e sette feriti (tutti i feriti sono scampati per caso alla strage). È il tempo in cui in Italia tutti i porti sono stati chiusi per impedire sbarchi di chi cerca un rifugio. È il tempo in cui una certa Sara Casanova di Lodi, diventata sindaca di una città che ha anche dato il titolo a un grande romanzo, proibisce la mensa scolastica ai bambini neri, proibisce persino lo yogurt. E il ministro dell’Interno commenta quasi ridendo: “È ora di finirla con i furbetti”. È il tempo in cui, a Bari, una banda di bulli, in linea con questa cultura italiana, cattura un bambino nero (italiano) di otto anni e lo vernicia di bianco. È il tempo in cui fermano il sindaco di Riace che si è messo in testa di accogliere tutti i migranti e di dividere il pane con tutti. Tutti verranno invece deportati (ordini dall’alto) dovunque staranno peggio. E il sindaco viene arrestato.
Ecco, il libro di Ezio Mauro ci racconta, con il filo teso di un racconto che non si può interrompere, come siamo arrivati fin qui, a partire da Calderoli e Borghezio che sembravano soltanto una triste presa in giro della politica. No, adesso, ci spiega Mauro, la politica italiana è questa.

Il Fatto 22.10.18
L’onda nera di Milano: i “nuovi” fascisti a caccia di comunisti e migranti
Tricolori e tartarughe. Un corteo organizzato da Casapound a Milano
Braccia tese al raduno del 29 aprile al cimitero Maggiore per i caduti di Salò
di Davide Milosa


Al Mac Mahon la Gilda del Giovanni Testori ora è un travestito che all’angolo con piazza Pompeo Castelli sorride ai clienti. Tempi che cambiano. Costumi e non solo. Milano laboratorio sociale per l’Italia. Avamposto da sempre per comprendere ciò che sarà. La politica e i suoi estremi. Rivoli carsici pronti a emergere e a esondare. Eccolo allora il neofascismo meneghino che conquista strade e quartieri. Una risacca nera potente che, iniziata prima delle elezioni del 4 marzo, ancora non si è fermata. Prende tutto, anche le scuole, oltrepassa i confini del centro, si prende periferie e provincia: Legnano, Abbiategrasso, Lodi. Bandierine su una mappa che la Questura tiene costantemente aggiornata. Milano nera, dunque. Forte del legame di idee con il capo del Viminale che in città si vede spesso, sempre con scorte e cordoni di sicurezza. Non c’è solo Matteo Salvini, c’è anche Gianluca Iannone, leader di Casapound che vive stabilmente in città. E certo, si ragiona in Questura, la presenza del capo dà fiducia.
Torniamo allora in via Mac Mahon, tra piazza Prealpi e piazza Pompeo Castelli. Zona rossa da sempre. Anarchica anche. Qui il 30 aprile 2015, poche ore prima delle devastazioni del primo maggio, la polizia sequestra mazze e bastoni. Via De Predis covo rosso. Ora però molto è cambiato, Casapound qui è arrivata in forze. Ha cavalcato il disagio, ha dato sostegno ai comitati di quartiere, rubricando a sua battaglia anche la questione degli sfratti. “Basta stupri vendichiamoci” e poi ancora insulti ai “rossi”. I muri dei palazzi sono un tazebao privilegiato per annusare i cambiamenti. Senza contare le azioni criminali. Quella di via Bramantino. Qui il 15 settembre è stata devastata la scuola di cultura popolare. Un luogo prezioso per i migranti. Non la pensa così un gruppo, allo stato ancora ignoto, che nella notte spacca tutto e lascia sui muri scritte omofobe e naziste, svastiche anche e slogan pro Salvini.
Azione che, va detto, il ministro ha subito criticato. Non distante dal Mac Mahon, in viale Certosa che corre veloce verso il cimitero Maggiore, la buriana nera soffia fastidiosa. In via Pareto, tra birre, strette di mano vigorose e saluti fascisti. Luogo privilegiato degli Hammerskin, movimento internazionale al quale quello milanese (il più numeroso in Italia assieme ai veneti) è legato da anni. Hammerskin e Lealtà e azione, microcosmo ristretto e iniziatico. Qui, tra negozi di lapidi e fiori, nel 2007 sorse il centro sociale Cuore nero. Il tempo di fare i lavori e la notte prima dell’inaugurazione tutto andò a fuoco. Dopo 11 anni ancora non c’è il colpevole.
Nella galassia nera, poi, le tematiche anti-migranti sono condivise. Il caso della caserma Montello di via Caracciolo ha dato fuoco alle polveri di un solidarismo nero con Casa pound e Lealtà azione a puntellare con cortei e manifestazioni i neo nati comitati di zona. Oggi nella caserma i migranti non ci sono più. Ma quella protesta è servita a dare forza al proselitismo neofascista. E poi ci sono le sedi.
Bandierine nere sulla mappa di Milano: Forza Nuova, Casa Pound, Lealtà e azione, da via Govone a via Lauria, fino a via Palmieri, quartiere Stadera, non lontano dal Gratosoglio dove ci sono immobili occupati da gruppi antagonisti. Senza contare il mondo della scuola. Anche qui la risacca è arrivata. Diversi i consigli di istituto dove vi è presenza di membri del Blocco studentesco espressione di Casapound. Si tratta, in particolare, di istituti tecnici della periferia, tra Lambrate e Quarto Oggiaro. Solo nel maggio scorso, circa 200 studenti dell’istituto Vespucci per protestare contro le condizioni di degrado della loro scuola sono scesi in corteo con bandiere e simboli politicamente ben definiti. Idee neofasciste vengono propagandate anche allo stadio. Due i luoghi individuati dalle forze dell’ordine.
La curva Nord dell’Inter e soprattutto la curva dell’Hockey Milano, dove, durante le partite dello scorso campionato campeggiavano i simboli di Casapound. È in questo settore che da poco tempo, gli investigatori hanno fotografato il ritorno di vecchie conoscenze dei Nar e di Terza posizione. Ultras, e movida anche. Il fenomeno è recentissimo e viene monitorato dalla Questura. Si tratta di gruppi di giovani legati all’area nera che girano per lo più nella zona di corso Garibaldi e corso Como. Spesso hanno caschi e bastoni e spesso, come successo solo pochi mesi fa, non si fanno remore ad attaccare ragazzi al grido: “comunista di merda”. Milano nera e non solo. Visto che la provincia attorno appare solidale. Abbiategrasso, Legnano fino a Sant’Angelo Lodigiano dove sabato sabato scorso si è tenuta la festa regionale di Casapound. Tra gli invitati Gianluca Iannone e l’avvocato Augusto Sinagra, candidato alle politiche scorse per Casa pound, nonché difensore di Licio Gelli e di alcuni colonnelli del regime argentino di Videla. Ovviamente non è mancato il nazirock di gruppi come i Topi Neri e Ddt. È Milano nera.

La Stampa 22.10.18
Raid razzisti
Due ragazzi picchiati con bastoni
di Elisa Forte


Una banda di xenofobi e violenti è in azione a Brindisi. Il bilancio è di due aggressioni razziste e una terza sventata. Armati con mazze da baseball i componenti del gruppo hanno picchiato due immigrati e hanno cercato di pestare anche un terzo uomo. Il primo, B.C., 20 anni, senegalese, ha raccontato di essere stato aggredito mentre andava in palestra. «Sono stato circondato e preso a bastonate. Mi aspettavano in cinque, incappucciati e armati di bastoni. Mi hanno picchiato e sono fuggiti lasciandomi a terra sanguinante». B.C ha riportato lesioni al braccio, alla testa e al volto: ha una prognosi di 15 giorni.
La seconda vittima è stata pestata (30 i giorni di prognosi) da due uomini incappucciati pochi minuti dopo mentre stava tornando a casa dal lavoro con la sua bicicletta. Elija K., 30 anni, segretario della comunità cittadina del Ghana, residente a Brindisi da otto anni dove vive con moglie e tre figli, ha denunciato l’accaduto alla Digos. Ha raccontato di essere stato colpito con violenza prima alla spalla destra e poi alla testa. «Mentre mi picchiavano – ha detto ai poliziotti – urlavano: “Uccidilo, uccidilo”. Un passante ha visto tutto ma non si è preoccupato di intervenire. Per la prima volta ho paura per me e la mia famiglia». Una terza aggressione, sempre nei confronti di uno straniero, invece, è stata sventata dall’intervento di un brindisino che ha urlato, minacciando di chiamare la polizia. Erano in cinque contro uno ma alla fine sono fuggiti.
Ipotesi vendetta
Questi attacchi potrebbero essere una sorta di vendetta, secondo gli investigatori. Due episodi rendono questa ipotesi plausibile. Poco prima dei due raid una ragazza di Brindisi di 15 anni ha denunciato di aver subito un’aggressione e un tentativo di violenza sessuale da parte di tre stranieri, non identificati. E un cittadino della Guinea ha danneggiato diverse auto in via Bastioni San Giorgio, di fronte alla caserma dei carabinieri. Non è facile per gli investigatori capire se le aggressioni possano avere delle connessioni. Saranno le immagini delle telecamere a confermare o meno l’ipotesi di razzismo sulla quale si sta indagando. Intanto, sui social un’ondata di commenti razzisti ha invaso le bacheche. Il prefetto di Brindisi, Valerio Valenti ha invitato «a moderare i toni» e ha fatto un appello a «chiunque sia in grado di fornire testimonianze, aiutando in tal modo gli investigatori a definire gli esatti contorni della vicenda».

La Stampa 22.10.18
Nel tunnel della crisi peggiore
L’assenza di valori unitari
di Franco Debenedetti


La crisi politica che attraversiamo potrebbe risultare la peggiore che abbiano visto gli italiani viventi. E sì che di drammatiche ce ne sono state. Andando a ritroso: nel 2011, quando sull’Europa si abbatté lo tsunami originato dal terremoto dei subprime; nel 1990-92, quando la crisi, politica, economica, morale, fece crollare il sistema che aveva governato l’Italia per più di mezzo secolo; la guerra civile negli anni di piombo. Perfino nel 1943, quando l’Italia fu teatro di guerra guerreggiata.
In tutte quelle crisi una larga maggioranza concordava sulla direzione verso cui convergere: i valori dell’Occidente, di libertà, di democrazia, di rapporti economici, di benessere. Non oggi: di quella stella polare viene negata l’esistenza, E ciò rende questa crisi diversa da tutte quelle di cui abbiamo memoria.
Era per ricongiungersi all’Occidente dopo il fascismo che con ansia seguivamo sulla cartina l’avanzata degli alleati. Sono i valori dell’Occidente quelli che le Brigate Rosse volevano sradicare: a sconfiggerli fu l’unità di tutto il Paese, sindacati e Pci compresi. Negli anni 90, pur scosso nei suoi riferimenti politici, vacillante in larga parte della sua struttura industriale, perduto l’aggancio monetario dello Sme, il Paese accettò le riforme con cui Amato lo stabilizzò, poi parve adottare l’alternanza destra sinistra delle grandi democrazie occidentali, infine scelse l’euro. E nel 2011, quando l’Italia fu vicina a perdere la fiducia dei mercati finanziari, il consenso al governo Monti fu tale che gli venne rimproverato non averne approfittato per riformare, dopo le pensioni, anche il mercato del lavoro.
In tutte quelle occasioni, al di là delle ascendenze ideologiche e delle preferenze contingenti, su una cosa gli italiani in larga maggioranza concordavano: che i percorsi di uscita dalla crisi dovessero essere tutti all’interno di una preliminare scelta di campo, la convergenza su valori e obbiettivi dell’Occidente.
Oggi è invece l’opposizione all’Europa – il nostro Occidente più prossimo – ad accomunare Lega e Movimento 5 Stelle. Non la richiesta di riforme, come è dei tanti progetti in circolazione, ma la contestazione dei principi su cui si fonda: cessione di sovranità in cambio di offerta di solidarietà, rinuncia al torchio monetario nazionale in cambio della stabilità dei prezzi, rinuncia ai sussidi in cambio di mercati concorrenziali. Gli opposti populismi sono uniti dalla convinzione che, dei nostri mali, l’entrata nell’euro sia la causa, e l’uscita possa essere la soluzione; e dall’attesa che dall’emergenza migranti, dalla nostra crisi finanziaria, dalle elezioni di maggio esca un’Europa radicalmente diversa dall’attuale. La razionalità scientifica è una delle acquisizioni che hanno fatto grande l’Occidente e che l’Occidente ha dato al mondo: non la pensa così chi la rifiuta. Le democrazie occidentali (cioè tutte le democrazie) sono rappresentative: alla realizzazione di quella diretta è stato preposto un ministro.
A rendere questa crisi diversa e più grave di tutte le altre è anche il non vedere come uscirne ritornando alla convergenza con l’Occidente. Non il default, che al contrario ci isolerebbe. E neppure la spaccatura dell’alleanza, il ricorso alle urne, la vittoria (probabile) della Lega, l’appoggio (possibile?) di quanto resterebbe del Pd. Resterebbe il lascito del rifiuto dell’Occidente nel Mezzogiorno: la sua borbonizzazione, il sussidio elevato a sistema, la statalizzazione come rimedio. Che non ci sia più un partito capace di tenere insieme Nord e Sud, persone che cerchino di colmare una storica arretratezza: anche per questo la crisi attuale potrebbe essere la peggiore che noi abbiamo conosciuto.

Corriere 22.10.18

L’intervista Steve Bannon
«L’Italia è un modello Ma il governo ora aggiusti il bilancio»
L’ex stratega della Casa Bianca: «Qui si ridefinisce la politica del XXI secolo. Alle Europee in molti guarderanno a Salvini»
intervista di Federico Fubini


L’Italia è un esperimento importante, dice lei.
«È il centro dell’universo politico».
Addirittura?
«Sì, perché state ridefinendo la politica nel ventunesimo secolo».
Steve Bannon, architetto della vittoria di Donald Trump nel 2016, ex stratega nella sua Casa Bianca, oggi presissimo dalla sua avventura politica europea, da giovane ha navigato su un Destroyer della US Navy. Parla ancora da marinaio: quelli del governo italiano, dice, si stanno facendo le loro «sea legs». Le gambe che servono a stare in piedi sul ponte quando sotto il mare si fa mosso.
In che senso?
«Ascolti, ho seguito la vostra campagna elettorale, i 5 stelle e Matteo Salvini. L’intensità, il dinamismo, l’energia, l’entusiasmo, i giovani».
Parla della capacità di innovazione in campagna elettorale?
«Non solo. Loro tiravano fuori le questioni fondamentali: la sovranità, cosa significa la cittadinanza, le migrazioni. E dopo ho visto la capacità di fare un governo che mette insieme Nord e Sud, sinistra e destra, una forza più populista e una più nazionalista. È l’equivalente americano di Trump che lavora con Bernie Sanders, si intendono su certe cose e governano insieme. È importante che gli italiani capiscano il profilo e il coraggio di Luigi Di Maio e Salvini. Amazing, incredibile».
Perché «amazing»?
«Entrambi hanno preso ruoli di governo dei quali dovranno rispondere, e non c’è politico al mondo il quale, avendo vinto, accetti che il capo del governo sia un altro. Invece si sono messi d’accordo che chi va al G7 o all’Oval Office a sedersi con Trump sarà una terza persona. Un mix unico al mondo. E nessuno dei problemi che devono gestire è stato causato da loro».
Eppure ora c’è una perdita di fiducia verso l’Italia. Non solo sui mercati: gli stessi italiani hanno iniziato a spostare soldi all’estero.
«Non lo definirei un collasso della fiducia. Credo si stiano facendo le loro sea legs. È un governo nuovo, stanno un po’ improvvisando. A Roma le strade saranno anche piene di buche, ma il M5S rappresenta la rivolta contro la corruzione. È una cittadinanza consapevole, che non è perfetta ma migliorerà. E sì, ci sono intoppi lungo la strada: ci saranno controversie tra il 2,4% o l’1,8% di rapporto deficit-Pil e sul contenuto di quel 2,4%».
Il problema sono le dimensioni del deficit?
«No».
Lo è la composizione del bilancio?
«Penso sia sulla sostanza di quello che fanno: le pensioni, queste cose».
Troppi sussidi, mentre la manovra dovrebbe incentivare imprese e produttività?
«Nel contratto fra M5S e Lega c’erano gli elementi di un’agenda per la crescita. La flat tax è una tassa che pagano tutti, anche i ricchi. Uno dei problemi con cui dovrete fare i conti in Italia è che i ricchi, gli industriali, sono riusciti a delocalizzare in altri Paesi, a mettere via i soldi in Svizzera e a non pagare. L’Italia è ricca, un Paese con una spinta imprenditoriale terrificante, artigiani incredibili. Ma pochi ingegneri. Uno dei problemi più grossi è la diaspora. Avete uno dei tassi più alti di laureati in ingegneria o scienze che se ne vanno in Germania, Gran Bretagna o Stati Uniti. Dovete fermare l’emorragia».
Pensa che ciò spieghi in parte il ritardo di crescita sul resto d’Europa?
«Al 100%. Ascolti: quelli dei M5S sono sotto pressione, l’impegno sul reddito di cittadinanza l’hanno preso. E poi l’altra questione sono le pensioni. Ma troveranno una soluzione».
Sembra di capire che lei vorrebbe una manovra con meno assistenzialismo e più spinta agli «animal spirits» dell’economia.
«Apprezzo le proposte di M5S. Ma date le condizioni finanziarie dell’Italia, devi fare i conti con un serie di fatti spiacevoli e uno di questi è che i mercati globali dei capitali e in particolare la Ue hanno un voto. Bisogna rendersi conto che ce l’hanno. La buona notizia è che non hanno il voto finale. Apprezzo che Salvini e Di Maio non si limitino a adeguarsi, sono pronti a resistere per gli italiani. Sul piano economico sono raffinati».
E se portassero l’Italia fuori dall’euro?
«Fuori dall’euro? No, ascolti: questa roba è per un altro giorno. Ora devono fare un bilancio che si focalizzi sulla crescita, si devono prendere cura del problema dell’economia: il capitalismo di relazione, l’evasione, il sommerso, la questione migratoria… Questo governo ha già abbastanza da fare, per ora. Devono anche pianificare le elezioni europee. Siamo lontani anni dal discutere l’euro. Quel che vogliono questi partiti è riformare la Ue. Non guardano all’uscita, puntano a un’unione di nazioni sovrane. Sono convinto che i Paesi debbano avere ciascuno la propria moneta. Ma c’è un accordo di trent’anni fa, fa parte della realtà».
Dunque il primo passo per i populisti italiani è vincere alle Europee?
«Il primo passo è un’attenzione maniacale alla situazione economica dell’Italia. Ora i leader hanno capito la reazione alla manovra di bilancio. Gli italiani devono capire che in giro per il mondo ci sono leader molto duri e focalizzati. Dunque, numero uno, il governo deve aggiustare l’economia».
E numero due?
«In vista delle Europee Salvini sta diventando una figura internazionale, giusto? Tra poco in Italia e in tutta Europa, nei bar il tema di conversazione diventeranno le Europee».
Non è un successo della Ue, essere diventata un unico spazio politico?
«Ma le gente inizierà a chiedersi cosa significa essere una nazione sovrana. Ricordatevi, la Bce e i tecnocrati volevano mettere lì (al governo, ndr) un altro tecnocrate, dicendo a due terzi degli italiani che il loro voto non conta. Ora invece arriveranno le Europee che obbligheranno gli elettori a pensare a cosa vogliono».
Cosa dovrebbero volere?
«C’è il progetto franco-tedesco, gli Stati Uniti d’Europa: più integrazione, più burocrazia che detta le regole. Salvini, il leader ungherese Viktor Orbán e altri sono il contrappeso. Le Europee sono una scelta fra Stati Uniti d’Europa o un’unione di nazioni sovrane».
Lei da trumpiano vuole indebolire l’Europa.
«No. L’America guarda all’Occidente giudeo-cristiano come a un blocco di nazioni indipendenti. Ma l’amicizia profonda con l’Europa è molto solida. Pochi in America capiscono la Ue. Capiscono la Germania, la Francia, l’Italia».
Che tipo di sostegno offre ai sovranisti europei?
«La possibilità di fare eventi insieme, dove la gente condivide idee. Poi faremo sondaggi in profondità, che non sono mai stati fatti nelle elezioni europee, su base nazionale, provinciale, sui segmenti sociali».
Costerà molto.
«Un paio di milioni di bucks, di verdoni. Ma ho dei donatori e ci metto anch’io dei soldi».
Donatori americani?
«No, no, europei facoltosi. Gente che ha venduto le proprie imprese o che è in là con gli anni e viene da origini operaie. Gente che vede nei populisti una voce per la gente umile, come me. Si ricordi, una delle differenze fra la politica europea e americana sono i soldi. Nelle presidenziali del 2016 sono stati spesi 4 o 5 miliardi di dollari. Salvini e Di Maio insieme non avranno speso neanche dieci milioni di euro».
Cosa è meglio?
«Credo al modello europeo. Ma io posso produrre analisi dei dati che individuano dove si trovano gli elettori per farli andare al voto. E posso fornire una war room a risposta rapida. Nel 2016 ne ho gestito una 24 ore su 24 per Trump: agende di cose da dire, risposte quando attaccano il candidato, gente da mandare in tivù. E l’Europa non ha abbastanza discussioni alla radio, che per i conservatori in America è una cosa massiccia. Stiamo pensando anche a quello».
E i social media?
«Lì sono gli italiani che hanno da insegnare a noi».

Corriere 22.10.18
Trump riapre la corsa agli armamenti
Verso la fine dell’intesa. Il Pentagono: l’arsenale atomico Usa è da rafforzare. Mosca: molto pericoloso
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON I numeri forniti dal Pentagono hanno spinto Donald Trump ad annunciare, sabato 20 ottobre, il ritiro dal Trattato sui missili nucleari a corto e medio raggio. Da mesi il Segretario alla Difesa, James Mattis, avverte la Casa Bianca. Gli Stati Uniti dispongono di 1.797 testate atomiche che, sommate a quelle degli alleati francesi e britannici, diventano 2.207. Quasi un terzo in meno dell’arsenale russo: 3.587 testate. Inoltre una buona parte delle bombe americane sono obsolete, stoccate per lo più nei depositi europei dalla fine della guerra fredda. In Italia, nelle basi di Ghedi e di Aviano, ce ne sono 70.
L’uscita di Donald Trump, a margine del comizio in Nevada, non è stata dunque improvvisata. Già nel febbraio scorso, lo stesso Mattis aveva scritto in un documento ufficiale, «Revisione della posizione nucleare», queste parole: «I nostri avversari sono Russia e Cina. La Russia sta aumentando il peso degli ordigni atomici, espandendo e modernizzando le forze nucleari, violando i trattati sul controllo delle armi, mettendo in atto comportamenti aggressivi. È una disparità che va eliminata».
Nei prossimi giorni John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale, vedrà Vladimir Putin a Mosca e gli comunicherà ufficialmente la fine dell’Inf, «l’Intermediate-Range nuclear forces treaty» firmato da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov l’8 dicembre del 1987. L’accordo consentì la drastica riduzione dei missili schierati da una parte e dall’altra in Europa, bloccando l’escalation cominciata con l’installazione degli SS-20 sovietici.
La mossa di Trump ha accentuato la tensione già alta tra Casa Bianca e Cremlino. Il viceministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov ha definito il «ritiro unilaterale» un’iniziativa «molto pericolosa», che potrebbe condurre a «ritorsioni tecnico-militari», per il momento non specificate. Lo stesso Gorbaciov, oggi 87 anni, è polemico: «A Washington si rendono conto di dove potrebbe portare tutto ciò?».
Le prime reazioni europee sono contrastanti. Il ministro della Difesa britannico, Gavin Williamson, dichiara al Financial Times: «Appoggiamo in modo risoluto la scelta degli americani. Il Cremlino si sta facendo beffe dell’accordo». Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, è decisamente più cauto: «Il trattato è stato un pilastro della sicurezza europea per 30 anni. Sollecitiamo gli Stati Uniti a tenere conto delle possibili conseguenze».
Ma lo scenario su cui sta lavorando Mattis è un altro. L’ex generale dei marines ha spiegato a Trump e a Bolton quali siano i punti di forza e di debolezza dell’apparato nucleare: si può contare su una rapida capacità di risposta e sull’affidabilità delle «piattaforme», dai missili intercon-tinentali ai sottomarini; è urgente, invece, sostituire i vecchi ordigni, rilanciare i laboratori di ricerca e, se necessario, riattivare i test.

Corriere 22.10.18
Trump riapre la corsa agli armamenti
Verso la fine dell’intesa. Il Pentagono: l’arsenale atomico Usa è da rafforzare. Mosca: molto pericoloso
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON I numeri forniti dal Pentagono hanno spinto Donald Trump ad annunciare, sabato 20 ottobre, il ritiro dal Trattato sui missili nucleari a corto e medio raggio. Da mesi il Segretario alla Difesa, James Mattis, avverte la Casa Bianca. Gli Stati Uniti dispongono di 1.797 testate atomiche che, sommate a quelle degli alleati francesi e britannici, diventano 2.207. Quasi un terzo in meno dell’arsenale russo: 3.587 testate. Inoltre una buona parte delle bombe americane sono obsolete, stoccate per lo più nei depositi europei dalla fine della guerra fredda. In Italia, nelle basi di Ghedi e di Aviano, ce ne sono 70.
L’uscita di Donald Trump, a margine del comizio in Nevada, non è stata dunque improvvisata. Già nel febbraio scorso, lo stesso Mattis aveva scritto in un documento ufficiale, «Revisione della posizione nucleare», queste parole: «I nostri avversari sono Russia e Cina. La Russia sta aumentando il peso degli ordigni atomici, espandendo e modernizzando le forze nucleari, violando i trattati sul controllo delle armi, mettendo in atto comportamenti aggressivi. È una disparità che va eliminata».
Nei prossimi giorni John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale, vedrà Vladimir Putin a Mosca e gli comunicherà ufficialmente la fine dell’Inf, «l’Intermediate-Range nuclear forces treaty» firmato da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov l’8 dicembre del 1987. L’accordo consentì la drastica riduzione dei missili schierati da una parte e dall’altra in Europa, bloccando l’escalation cominciata con l’installazione degli SS-20 sovietici.
La mossa di Trump ha accentuato la tensione già alta tra Casa Bianca e Cremlino. Il viceministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov ha definito il «ritiro unilaterale» un’iniziativa «molto pericolosa», che potrebbe condurre a «ritorsioni tecnico-militari», per il momento non specificate. Lo stesso Gorbaciov, oggi 87 anni, è polemico: «A Washington si rendono conto di dove potrebbe portare tutto ciò?».
Le prime reazioni europee sono contrastanti. Il ministro della Difesa britannico, Gavin Williamson, dichiara al Financial Times: «Appoggiamo in modo risoluto la scelta degli americani. Il Cremlino si sta facendo beffe dell’accordo». Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, è decisamente più cauto: «Il trattato è stato un pilastro della sicurezza europea per 30 anni. Sollecitiamo gli Stati Uniti a tenere conto delle possibili conseguenze».
Ma lo scenario su cui sta lavorando Mattis è un altro. L’ex generale dei marines ha spiegato a Trump e a Bolton quali siano i punti di forza e di debolezza dell’apparato nucleare: si può contare su una rapida capacità di risposta e sull’affidabilità delle «piattaforme», dai missili intercon-tinentali ai sottomarini; è urgente, invece, sostituire i vecchi ordigni, rilanciare i laboratori di ricerca e, se necessario, riattivare i test.

Corriere 22.10.18
L’incubo degli euromissili e la paura (30 anni dopo) di un’escalation nucleare
A rischio l’accordo Reagan-Gorbaciov
Strappo di Trump sui missili nucleari Mosca: pericoloso
di Franco Venturini


John Bolton, consigliere per la sicurezza del presidente Trump, porta oggi a Mosca un ultimatum che ci riguarda. Se la Russia non smette immediatamente di violare il trattato Inf, dirà Bolton a Putin, gli Usa confermeranno la loro uscita dall’accordo. E così gli euromissili, ben noti agli italiani che negli anni Ottanta li schierarono nella base siciliana di Comiso per bilanciare gli SS-20 sovietici, torneranno a far pendere sull’Europa la spada dell’olocausto nucleare. Talvolta la Storia è tanto veloce da coglierci in contropiede.
Si sapeva che il trattato firmato da Reagan e da Gorbaciov nel 1987 per eliminare tutti i missili basati a terra con una gittata tra i 500 e i 5.500 chilometri era oggetto di vivaci polemiche tra Mosca e Washington. Già Obama aveva accusato la Russia di barare, ma non si era sognato di denunciare l’Inf (Intermediate Nuclear Forces) anche per la decisa opposizione degli alleati europei. Ma Trump è di un’altra pasta, ha rapporti prevalentemente cattivi con l’Europa. E così, senza pensarci su due volte, ecco che il presidente rende nota la sua decisione di stracciare l’accordo e di aprire la porta a una nuova guerra fredda europea. A meno che Bolton convinca Putin, ipotesi piuttosto improbabile.
Le capitali europee hanno già cominciato a protestare con l’eccezione di Londra da tempo ai ferri corti con il Cremlino, ma in questo momento, se è indispensabile schierarsi, è ancor più necessario capire cosa stia accadendo. Da parte russa, ammesso e non concesso che il sistema missilistico 9M729 dislocato a Kasputin Yar rappresenti effettivamente una violazione dell’Inf (i servizi militari europei, a cominciare da quello tedesco, ne dubitano) il tentativo strategico sarebbe antico e ben noto: far paura agli europei e allontanarli dagli americani, indurli a una sorta di «finlandizzazione» socio-elettorale, ottenere infine un decoupling nucleare che lascerebbe l’Europa praticamente indifesa. Questo era il disegno del dislocamento degli SS-20 sovietici negli anni Ottanta, al quale l’Occidente rispose con il contro-schieramento dei Pershing-II e dei Cruise fino ad arrivare agli accordi dell’Inf. Una storia da guerra fredda, che dovrebbe risultare superata in tempi di confronti cibernetici e di «guerre ibride».
Ma se cambiamo fronte e guardiamo alle possibili tentazioni americane, allora potremmo scoprire che una guerra fredda in Europa è ancora d’attualità. Donald Trump, lo sanno tutti, non ama l’Europa con la quale ha avuto soltanto contrasti: dall’ambiente al commercio, dall’Iran alle armi letali per l’Ucraina, dalle spese Nato alla politica delle sanzioni. Esistono allora due alternative strategiche per l’America First: rompere la cornice comunitaria (e ci stanno provando sovranisti e populisti con la collaborazione di Bannon) oppure rimettere in riga i singoli alleati in tema di sicurezza, un settore che gli europei trascurano da sempre. Il ritorno degli euromissili per colpa della Russia farebbe mirabilmente al caso, anche se sarebbe auspicabile che Washington esibisse qualche prova delle violazioni dell’Inf da parte di Mosca.
Ma ovunque sia la verità, che esista responsabilità della Russia o interesse dell’America, gli europei continentali rischiano ora di dover affrontare una situazione nuova. Ne saranno forse lieti i nostri soci orientali, che da tempo denunciano le malefatte strategiche del Cremlino (con l’eccezione dell’Ungheria, mentre la Polonia è addirittura pronta a finanziare una base americana permanente sul suo territorio). Ma gli altri, e l’Italia in particolare, sarebbero disposti ad ospitare trent’anni dopo altri euromissili puntati contro la Russia? A fare da bersaglio? E come reagirebbero le opinioni pubbliche oggi catturate da altre inquietudini, se tornasse ad essere combattuta in Europa una guerra fredda nucleare accettata, o addirittura voluta, dalle due grandi superpotenze atomiche del mondo, esattamente come negli anni Ottanta?
Il viaggio di Bolton, la risposta di Putin e l’incerta credibilità di Trump (che in passato si è più volte contraddetto, soprattutto in tema di rapporti con la Russia) sottolineano crudelmente l’assenza dell’Europa da un confronto strategico che si giocherà sulla sua pelle. Ma segnalano anche l’avvento di un mondo diverso e più pericoloso di quello del 1987, con la Cina terza protagonista e ben presente nella voglia statunitense di buttare alle ortiche le limitazioni dell’Inf, con le lobby militari e le loro nuove tecnologie che premono sulle dirigenze politiche (tanto a Washington quanto a Mosca), con la minaccia nucleare pronta a un grande ritorno quando pareva tramontare. Soprattutto se americani e russi oltre a disdire l’Inf non prolungheranno il «Nuovo Start» sui missili intercontinentali, che scade nel 2021. Di tutto ciò ci auguriamo che tenga conto nel modo più energico il presidente del Consiglio Conte, atteso da Putin mercoledì. E s’intende che l’Italia deve dire la sua anche a Trump. Se possibile prima che Putin e Trump si incontrino, come se nulla stesse accadendo, l’11 novembre in Francia per ricordare la Prima guerra mondiale.

Il Fatto 22.10.18
Alexandria Ocasio-Cortez (29 anni)
Usa, la nuova sinistra è socialista e donna
Si rinnova il Congresso e i democratici sono favoriti: potrebbero riprenderne il controllo, anche grazie ai candidati più radicali
di David Broder


Potrebbe sembrare che gli Stati Uniti si spostino sempre più a destra. Le notizie della detenzione dei bambini migranti, della nomina dello sciovinista Brett Kavanaugh alla Corte Suprema e della riduzione fiscale di 1,5 trilioni di dollari – abbinate alle provocazioni quotidiane del presidente Donald Trump – indicano la radicalizzazione del Grand Old Party, il Partito repubblicano. Ma le elezioni di midterm (si terranno il 6 novembre) potrebbero cambiare questo quadro. E non solo perché sembra che i democratici riprenderanno il controllo della Camera.
Il fenomeno più significativo in questo ciclo elettorale è l’affermazione del “socialismo” in un Paese che non ha mai avuto un grande partito operaio. Ispirati alla campagna ingaggiata dal senatore indipendente del Vermont, Bernie Sanders, nella primaria democratica del 2016 contro Hillary Clinton, alcuni nuovi candidati, soprattutto candidate, agguantano la bandiera del vecchio partito del liberalismo statunitense per pronunciare una frase finora esclusa dal lessico politico americano: “Io sono un socialista”.
Anzi, si parla del “socialismo democratico”. Non è tanto un cenno al partito, quanto ad una concezione riformistica del progetto socialista stessa, e all’area politica dei Dsa, Democratic Socialists of America, un’associazione politica non legata al partito ma che spesso partecipa alle primarie democratiche. Tra i più visibili candidati del Dsa c’è Alexandria Ocasio-Cortez, la ventottenne che ha sconfitto il congressman, il parlamentare, in carica (e molto legato al vecchio establishment) Joseph Crowley nella primaria democratica nel 14° distretto di New York.
L’ultimo socialista che si è definito tale e che abbia raggiunto la Camera, è stato Ron Dellums nel 1971. Ma in questa tornata elettorale è quasi certo che ne verranno eletti almeno due. Per il 6 novembre, infatti, i sondaggi danno la nuova star Ocasio-Cortez quasi all’80 per cento dei voti a New York. E nel 13° distretto del Michigan, la militante dei Dsa Rashida Tlaib è la sola candidata. Figlia di un palestinese, immigrato in America per fare l’operaio alla Ford di Detroit, Tlaib sarà la prima donna musulmana ad essere eletta al Congresso.
I Dsa non sono un partito di massa: nelle condizioni americane anche far eleggere due candidate sarebbe una svolta storica. Ma pur partendo da una base molto bassa, i passi in avanti sono considerevoli. Cinque anni fa i Dsa avevano 5.000 iscritti; nel settembre del 2018 hanno sorpassato la soglia dei 50.000. La sua attività si estende anche alla partecipazione nei movimenti, alle piazze e alla formazione politica dei militanti. Movimenti quali Occupy Wall Street e Black Lives Matter sono stati decisivi per la formazione di una generazione di giovani militanti che hanno poi cercato uno sbocco politico.
È senz’altro stata la campagna di Bernie Sanders nel 2016 (ha preso il 43% dei voti nella sua sfida a Hillary Clinton, raccogliendo 180 milioni di dollari in piccole donazioni effettuate on line) a galvanizzare i socialisti, a rafforzare l’idea che sia possibile per i Dsa sfidare l’establishment democratico attraverso le primarie nonostante il potere dei corporate donations e la morsa sulle strutture del partito di una vecchia classe politica. Anche l’elezione di candidati Dsa ai parlamenti degli Stati, quali l’ex-soldato trentenne Lee Carter in Virginia o Julia Salazar a New York (verrà eletta senza opposizione il 6 novembre), hanno rafforzato questa tattica. Anche dove non possono essere eletti, i candidati sponsorizzati dai Dsa hanno acquisito una visibilità e una capacità inedite di comunicare il messaggio riformista. Il mese scorso anche Cynthia Nixon (l’attrice che interpretò Miranda in Sex and the City) si è dichiarata una “socialista democratica”, per poi prendere il 34% dei voti democratici nella sfida al governatore in carica, il potente Andrew Cuomo, figlio d’arte con qualche ambizione presidenziale: il padre italoamericano Mario ha ricoperto la stessa carica a New York tra l’83 e il ’94.
Al di là del socialismo organizzato, le rivendicazioni promosse della campagna Sanders hanno trovato eco anche in altre aree democratiche, quali i Justice Democrats, legati a Young Turks di Cenk Uygur (il talk show on line più guardato nel mondo). 26 candidati progressisti legati a quest’area, tra cui Ayanna Pressley (Massachusetts) e Ilhan Omar (Minnesota), si presentano per le elezioni di midterm, avendo sconfitto l’establishment democratico alle primarie grazie alle battaglie per la sanità pubblica e per l’abolizione dell’Ice, Immigration and Customs Enforcement, la polizia anti-migranti voluta da George W. Bush e oggi resa sempre più aggressiva da Trump.
Per molti versi quella in corso non è tanto la “rinascita” della sinistra americana quanto l’ascesa di un fenomeno inedito. Alle elezioni del 1920 il militante pacifista incarcerato Eugene V. Debs prese un milione di voti, ma in generale il movimento operaio ha sempre avuto un ruolo molto marginale nelle istituzioni statunitensi, sebbene ci siano alcune campagne sindacali importanti, quali la domanda per un salario minimo orario di 15 dollari.
Storicamente i sindacati americani non hanno mai avuto una espressione politica indipendente e duratura; in molti casi i loro rappresentanti sono stati cooptati nell’establishment stesso, o hanno mantenuto un rapporto momentaneo con gli eletti democratici. Forze quali l’ala più moderata del Civil Rights Movement hanno saputo influenzare in qualche modo l’azione delle aree liberali del Partito democratico, ma quest’ultimo è sempre stato un “alleato” non troppo fedele.
In questo senso la parabola di Barack Obama ha avuto un ruolo determinante. Ascesa e declino del primo presidente nero (e uno dei più progressisti nella storia americana) e la sua gestione della crisi economica e degli scontri razziali nel suo Paese hanno ispirato movimenti contestatori quali Occupy Wall Street e Black Lives Matter. Così come in Inghilterra con Jeremy Corbyn la piazza si è riconnessa con il vecchio socialista Sanders e con uno storico partito politico, a Londra i laburisti e oltreoceano i democratici.
Allo stesso tempo, le aspre campagne di Fox News ed altri contro Obama stesso, tacciandolo di essere un “socialista” (solo perché propugnava una riforma del sistema sanitario americano molto meno ambizioso di quelli europei) hanno curiosamente sdoganato quella parola così estranea. La grigia campagna di Hillary non ha che rinforzato il desiderio di trovare un’alternativa più forte e scoprire che cosa fosse il socialismo.
In tutto questo può anche nascere, quindi, un inedito movimento giovanile interessato all’idea di “riordinare” il modello sociale americano. Negli anni ’30 qualcuno chiese a John Steinbeck perché non esistessero movimenti socialisti negli Stati Uniti. Lo scrittore rispose che il problema risaliva al sogno americano dei giovani operai: “I poveri non vedono se stessi come membri oppressi da un padrone, bensì come milionari temporaneamente in difficoltà”. Ma per i giovani americani che non riescono a trovare lavoro o casa, la promessa di diventare un milionario sembra oggi più lontana della rivendicazione di una soglia minima per vivere. Secondo un sondaggio Gallup, il 51 percento degli under29 si dichiara favorevole al socialismo (in un’accezione assai larga di questo termine).
Analizzando il successo dei candidate quali Tlaib e Ocasio-Cortez alcuni analisti insistono sulla loro etnia, o sul loro genere, piuttosto che sul socialismo stesso. Non si può dubitare della rilevanza di questi temi nella vita politica americana, ma è anche vero che c’è un intreccio tra origini e credo politico. Se si pensa ai problemi quali la detenzione dei sudamericani che arrivano per cercare lavoro, o la guerra alla droga (che dagli anni 1980 in poi ha portato all’incarcerazione in massa degli afro-americani), c’è ovviamente un legame tra queste discriminazioni e la povertà. Ocasio-Cortez spiega: “Non riesco a immaginare qualsiasi questione etnica che non abbia anche implicazioni economiche, e non riesco a pensare a qualsiasi questione economica che non abbia anche implicazioni etniche. L’idea che dobbiamo per forza distinguerle, scegliendone solo una, è una truffa”.
Questi primi passi partono da una base molto bassa. Ma se i Dsa americani riuscissero a legare la promessa dell’avvenire ai sogni dei giovani emarginati, l’ascesa socialista in America potrebbe avere delle conseguenze importanti per tutti noi.

Il Fatto 22.10.18
“Diamoci un taglio”: arriva Jacobin Italia nel paese orfano del Partito comunista
A novembre il primo numero del trimestrale


Jacobin Magazine negli Stati Uniti ha rappresentato un primo segnale del risveglio della sinistra “socialista”. Una rivista nuova, ispirata alla rivolta dei giacobini neri di Haiti scoppiata subito dopo la Rivoluzione francese. Oggi quella rivista avrà una “sorella” in Italia. La casa editrice Alegre, infatti, diretta da Giulio Calella, si appresta a pubblicare Jacobin Italia – il primo numero trimestrale uscirà a novembre, mentre il sito sarà pronto tra qualche giorno – un’iniziativa per “trovare le parole, rimettere mano alle teorie e raccontare le storie che meglio spiegano le contraddizioni e che forniscono strumenti pratici per l’azione collettiva”. La redazione è ampia e plurale e vede scrittori come Wu Ming e Alberto Prunetti, ricercatrici come Marta Fana, Francesca Coin o Sara Farris, giornalisti come Giuliano Santoro, il redattore europeo di Jacobin Usa, David Broder, autore dell’articolo di queste pagine, e molti altri.
“In questo Paese senza sinistra non ci sono modelli da importare” dicono i promotori della rivista, per questo Jacobin sbarca in Italia in forma autonoma. “Sfideremo la crisi della carta stampata ma intervenendo anche quotidianamente attraverso il sito internet. Vivremo anche nella società, promuovendo e sollecitando momenti di discussione collettiva. Iscriversi al Club dei Giacobini che si costituì nella Francia rivoluzionaria nel 1790 costava 36 lire. Associarsi alla nostra avventura giacobina costa 36 euro”.

Corriere 22.10.18
La Giordania chiede a Israele le sue terre
di Davide Frattini


Quei dieci chilometri quadrati al confine con Israele servono al re per riguadagnare terreno politico. Abdallah ha dovuto affrontare negli scorsi mesi le proteste dei giordani contro il piano del governo di alzare le tasse e contro le misure di austerità imposte dal Fmi. Chiedere indietro agli israeliani le zone di Baqura (a Nord sul fiume Giordano) e di Ghumar (verso Aqaba) lo aiuta a dimostrare di poter essere duro non solo quando ci sono i dimostranti da disperdere. Che le terre potessero tornare alla Giordania dopo 25 anni sta scritto nelle appendici all’accordo firmato da suo padre Hussein e l’allora premier Rabin. Eppure gli israeliani erano convinti che Abdallah avrebbe prorogato l’intesa sull’affitto. Nelle stesse ore dell’annuncio stavano commemorando l’uccisione del primo ministro, ammazzato nel ‘95 da un fanatico ebreo per aver perseguito la pace con gli arabi. Adesso Netanyahu spera di poter negoziare con il re: è importante per il suo governo che il patto con il regno hashemita non traballi.

Corriere 22.10.18
Saggi Romanov, l’inferno in cantina
Nel 1918 fu uccisa la famiglia imperiale. Storici e scrittori chiedono un processo
Fabrizio Dragosei ricostruisce per Mursia lo sterminio eseguito su ordine di Lenin. Una lettera a Putin per fare giustizia
di Gian Antonio Stella


«Imputato Yakov Yurovskij, alzatevi!». Davanti all’ordine del presidente del tribunale, il compagno Yurovskij non si alzerà mai: è morto da decenni. E così Pavel Medvedev e gli altri uomini che presero parte un secolo fa, nel 1918, allo sterminio della famiglia dello zar Nicola II.
Anche gli scrittori, intellettuali, periti, storici russi che hanno appena inviato una lettera aperta a Vladimir Putin chiedendo di trascinare davanti a una corte di giustizia mandanti e autori della carneficina sanno benissimo che nessuno si presenterà in aula. Ovvio. Lo stesso papa Stefano VI, quando nell’897 processò il suo predecessore papa Formoso reo d’esser filogermanico, sapeva bene che era morto. Ma l’odio e la volontà politica d’un pubblico processo al «todesco» ebbero la meglio: «Il cadavere del Pontefice strappato al sepolcro in cui riposava da mesi — scrive Gregorovius — fu abbigliato coi paramenti papali e messo a sedere su un trono. (…) Allora il Papa vivente chiese al morto con furia dissennata: “Come hai potuto, per la tua folle ambizione, usurpare il seggio apostolico?”». Dopo la condanna, «i paramenti furono strappati di dosso alla mummia; le tre dita della mano destra con cui i Latini impartiscono la benedizione furono recise e con urla selvagge il cadavere fu trascinato via per le strade di Roma e gettato infine nel Tevere».
Ferocia impunita. Come feroci e impuniti furono un millennio più tardi gli uomini a cui Lenin affidò la strage della famiglia imperiale la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918: «I Romanov vennero svegliati con l’ordine di prepararsi a partire immediatamente. Fu loro spiegato che si era creata una situazione di incertezza e che quindi bisognava raggiungere un luogo più sicuro — racconta Fabrizio Dragosei nel nuovo libro La Rivoluzione russa e la fine dei Romanov (Mursia) —. La zarina e le figlie indossarono di nascosto le sottovesti all’interno delle quali avevano pazientemente cucito durante la prigionia chili e chili di pietre preziose che avrebbero dovuto essere utili in caso di fuga ed esilio. Così, in realtà, si ritrovarono a indossare delle specie di corsetti antiproiettile che complicarono non poco le cose per gli assassini. La famiglia fu radunata nella cantina che Yurovskij aveva già ispezionato. (…) Dopo che lo zar e la moglie furono sistemati su due sedie portate all’ultimo minuto, Yurovskij annunciò con concitazione che “il soviet dei lavoratori” aveva deciso di giustiziarli. Nicola, preso alla sprovvista, fece appena in tempo a chiedere “Cosa?” quando fu raggiunto da un colpo sparato dallo stesso Yurovskij. I soldati aprirono il fuoco a loro volta, riempiendo la stanza di fumo, di frastuono e ferendosi anche tra di loro. Lo zar, la zarina e la figlia maggiore Olga morirono all’istante, così come il dottor Botkin, il cuoco Kharitonov e il valletto Trupp. Una nuova salva di colpi uccise la principessa Tatiana e ferì gravemente il piccolo Aleksej. Maria e Anastasia erano ferite solo leggermente, grazie alle loro sottovesti. La cameriera Demidova era stata protetta da un cuscino pieno di gemme che teneva in grembo. Gli esecutori si avvicinarono, sparando nuovamente e usando le baionette».
Pavel Medvedev, che rivendicherà d’aver sparato lui il primo colpo a Nicola II, aggiungerà nelle memorie che, nell’inferno di fumo e pallottole, «credette di vedere “un cuscino bianco che si muoveva dalla porta verso il lato destro della stanza”. Probabilmente si trattava del povero barboncino dei Romanov che correva pazzo di terrore…».
Che senso c’è, oggi, a fare quel processo che, scrive Dragosei, non riuscì nel febbraio 1919 al giudice istruttore Nikolaj Sokolov che, dopo la conquista di Ekaterinburg da parte dell’Armata bianca (e prima della riconquista sovietica), condusse un’inchiesta sull’eccidio, riuscendo a trovare «brandelli degli abiti, l’anello di zaffiro dello zar, gli occhiali e la dentiera del dottor Botkin?».
Il punto è che «per decenni tutta la questione dell’assassinio della famiglia imperiale venne tenuta segreta». Di più: per spazzare via i tentativi di qualche storico di ricostruire un giorno l’eccidio negato (la prima versione fu infatti che «a seguito della scoperta di un complotto delle guardie bianche volto a rapire l’ex zar e la famiglia, il soviet di Ekaterinburg aveva ordinato l’esecuzione di Nicola Romanov» e che «la famiglia era stata spostata in un posto sicuro») Yurij Andropov, capo del Kgb, ordinò nel 1975 la demolizione della villa del massacro. Ordine eseguito (scherzi della storia) dall’uomo che solo tre lustri dopo avrebbe messo al bando il Partito comunista e sciolto l’Urss: Boris Eltsin.
Fatto è che «il luogo della sepoltura venne scoperto da uno storico dilettante locale, Aleksandr Avdonin» nel 1979, ma «solo dopo il 1991 e lo scioglimento dell’Urss, le salme furono dissotterrate e si poté avviare la procedura per il loro riconoscimento, grazie anche alla comparazione del Dna con quello fornito da alcuni esponenti di case reali europee (compreso il principe d’Edimburgo, imparentato direttamente con Nicola II)».
Quel riconoscimento delle salme però, sancito dalla traslazione dei poveri resti nella chiesa di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, non è mai stato ufficialmente avvalorato né dal patriarca Aleksij II né dal suo attuale successore, Kirill. Tanto che nel luglio scorso, anniversario del massacro, Kirill «ha guidato centomila fedeli in processione da Ekaterinburg alla foresta dove i corpi vennero sepolti. Sull’identificazione, però, niente». Anzi, il metropolita Tikhon Shevkunov ha spiegato che «l’indagine in quanto tale non è ancora terminata e, in aggiunta ai test genetici, numerosi altri studi ancora aspettano di essere completati»…
E qui torniamo alla lettera a Putin per chiedere un processo a Lenin e agli esecutori del delitto. Firmato per primo dall’oligarca Vasilij Bojko (famoso per aver imposto anni fa la catechesi nei suoi stabilimenti) e ispirato a quanto pare dal potentissimo padre Tikhon, «il confessore di Putin», l’appello ricorda al presidente russo che «è necessario che nell’investigare un affare così complesso come l’assassinio della famiglia dello zar coincidano i risultati di tutte le perizie: genetica, storica, antropologica, stomatologica e altre». Infatti «secondo i codici giudiziari russi solo il giudice di tribunale può emettere la sentenza definitiva sulla parentela tra singole persone». Conclusione: la Duma «dovrebbe varare una legge speciale su un’indagine globale al cui termine svolgere un processo agli assassini e mandanti (sia pure defunti)».
Solo un interesse storico? Mah… Dio non voglia che ci sia di più. Nella scia di secoli di ostilità verso gli ebrei (in Russia furono fabbricati i falsi Protocolli dei Savi di Sion e lo stesso Nicola II, scrive Dragosei, pensava d’esser vittima d’un «complotto giudaico») perfino il vescovo Tikhon si è spinto infatti a dire: «Vagliamo molto seriamente la versione dell’uccisione rituale. Una notevole parte della commissione istituita dalla Chiesa non ha dubbi che l’assassinio sia stato rituale». Travolto dalle reazioni della comunità ebraica, è vero, ha poi precisato che lui, per carità, non intendeva… Però la malizia è rimasta lì. In sospeso…