Repubblica 20.10.18
Miriam Sylla
"Siamo andate oltre la paura c’è una musica che ci guida"
Adesso voglio ballare».
Accenna qualche passo di una danza. Il trucco le è restato sulle palpebre, nonostante tutto: gli urli, le corse, i 23 punti.
Siamo
uomini o siamo ballerini, si chiedeva una canzone una decina di anni
fa. Al tempo Miriam Fatime Sylla era solo una bambina nata a Palermo, i
genitori ivoriani erano arrivati in cerca di un’esistenza nuova e
intanto stavano crescendo una, forse, futura campionessa del mondo. Se
Egonu è la classe infinita, Sylla è la musica che suona dentro la
squadra, l’emozione che si vede, i suoi punti sono il segno della fatica
fatta per arrivare, della molta vita nei suoi 23 anni. Ed è come se
l’Italia si reggesse sulla sua frenesia, sulla sua assoluta mancanza di
mezze misure.
Cosa vuol dire giocare un tie-break sapendo di non poter sbagliare di un centimetro?
«Non
si può descrivere la tensione di quei momenti, quando ti concentri su
te stessa, sui tuoi sogni e contemporaneamente devi pensare a come non
far cadere quel benedetto pallone, tenerlo vivo, darlo alle compagne e
mettersi in linea col palleggiatore per attaccare. La paura è tanta, sì.
Non è stata dura, ma molto di più. E in giornate come questa ti salvi
se hai qualcosa di molto grande dentro».
Loro non vi mollavano: avete pensato mai "ora la perdiamo"?
«In
molti momenti, ma poi al punto successivo ti metti lì e aspetti, è un
rito di purificazione, arriva il pallone e ricomincia tutto ogni volta,
devi spingerlo verso la palleggiatrice e schiacciarlo e non faresti
nessun’altra cosa al mondo in quel momento».
Sente di essere lei
l’energia vitale della squadra? Tutti la cercano dopo un punto, i suoi
urli sono la scala Mercalli dell’umore della squadra.
«Urlo per
dire "ci siamo ancora", è un modo per farmi sentire anche dall’altra
parte della rete, a volte urlo anche parolacce e forse si vede, ma noi
siamo un circuito, ci alimentiamo a vicenda, abbiamo un cuore
grandissimo».
Ci pensa a quanti italiani avranno gridato con voi?
«Io
il tie-break non me lo ricordo, ho un vuoto ora, e sono passati dieci
minuti, davvero non ricordo neppure di averlo giocato, di esserci stata
in campo. Ricordo i miei bagher, sì, e la paura di sbagliarli».
Come sta adesso?
«Ho
dolore in ogni singolo muscolo del corpo, ma è la testa a farti
correre, non i muscoli. Con la Serbia si ricomincia per l’ennesima
volta, e stavolta è l’ultima».
Che finale sarà con la Serbia?
«Abbiamo
dei conti in sospeso da prima delle Olimpiadi di Rio, è un’altra
battaglia e ci teniamo ad affrontare loro, soprattutto loro.
Partiamo
alla pari ma noi abbiamo una voglia enorme. In questi cinque mesi
abbiamo pianto, abbiamo lavorato e ci siamo fatte del male per arrivare
dove siamo adesso».
Eppure sembrate spensierate, divertite. E state per finire nella storia dello sport italiano.
«Ci
piace ballare, seguire una musica che abbiamo dentro, siamo molto
istintive. Gli italiani si staranno innamorando del nostro modo di stare
in campo, e me li immagino stremati e affondati nel divano, dopo
l’ultimo punto di Paola. Vi abbiamo fatto soffrire, ma è stato così
bello. La rivedremo forse cento volte questa partita e ci chiederemo "ma
eravamo davvero noi, in quel campo"? Adesso è meglio finirla qui, se no
dopo la finale di che parleremo?». – c.c.