martedì 2 ottobre 2018

Repubblica 2.10.18
Il documento
L’imbarazzante appello ai sacerdoti del vescovo cileno
di Paolo Rodari

Città del Vaticano È stato tolto dal sito dell’arcidiocesi di Santiago del Cile, per ragioni probabilmente di opportunità, l’appello ai sacerdoti firmato dal cardinale Ricardo Ezzati, attuale arcivescovo di Santiago in proroga, affinché evitino delle condotte improprie come «pacche sui glutei, toccare l’area dei genitali o delle mammelle, baciare sulla bocca» oppure «sdraiarsi o dormire insieme a bambini, bambine o adolescenti». Il testo rientrava fra i documenti ufficiali della diocesi cilena. Era intitolato "Orientaciones que fomentan el buen trato y la sana convivencia pastoral" (Orientamenti per fomentare il buon rapporto e la sana convivenza pastorale) e nelle scorse ore aveva provocato non poche critiche tra i fedeli sempre più scottati dalle coperture concesse ad alcuni preti pedofili.

il manifesto 2.10.18
Il potere politico delle armi
L'arte della guerra. Si discute della finanziaria in deficit, ma si tace sul fatto che l’Italia spende ogni anno miliardi a scopo militare
di Manlio Dinucci


Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro. Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell’opposizione, sul fatto che l’Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere miitare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l’Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.
Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l’«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare.
Quella statunitense per l’anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale. Un crescente investimento nella guerra, che permette agli Stati uniti (secondo la motivazione ufficiale del Pentagono) di «rimanere la preminente potenza militare nel mondo, assicurare che i rapporti di potenza restino a nostro favore e far avanzare un ordine internazionale che favorisca al massimo la nostra prosperità».
La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell’anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.500 miliardi di dollari. Esso viene scaricato all’interno con tagli alle spese sociali e, all’estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime.
C’è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell’industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica Bae Systems, la franco-olandese Airbus, l’italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.
Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.
La Leonardo, che ricava l’85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d’intelligence, mentre in Italia gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin. In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla Us Air Force l’elicottero da attacco Aw139. In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze) ha consegnato alla Us Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.
Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c’è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.

La Stampa 2.10.18
Afghanistan e Iraq
Ritiro col contagocce dei soldati italiani
Cento militari in meno a Kabul, in 50 lasceranno Mosul Vertice sulla Libia: verso il cambio dell’ambasciatore
di Francesco Grignetti


Vertice sulla Libia a palazzo Chigi. Partecipano il premier Giuseppe Conte e i ministri Enzo Moavero e Elisabetta Trenta. Si avvicina infatti la conferenza internazionale sulla Libia, prevista a novembre in Sicilia. E in vista di questo summit che vedrà partecipare i più importanti leader mondiali, ma anche i maggiori protagonisti della scena libica, è ormai maturo il cambio del nostro ambasciatore.
L’attuale, Giuseppe Perrone, dopo essere stato dichiarato «persona non gradita» da uno dei due contendenti, il generale Haftar, è ormai bruciato. E obiettivamente l’Italia non può lavorare a un appuntamento così importante senza un diplomatico in sella. Perrone, invece, «per motivi di sicurezza» non può rimettere piede a Tripoli. Quando la nuova ambasciatrice di Francia ha appena presentato le sue credenziali al governo Sarraj.
A parte il solito aggiornamento sulla situazione politico-diplomatica sul campo, insomma, è sulle mosse da fare che il governo giallo-verde si sta concentrando. Bene la conferma della missione militare tra Tripoli e Misurata, ma non può essere sufficiente.
Confermando la Libia, e sbloccando il Niger, dove i primi 3 team di addestratori hanno avuto il via libera qualche settimana fa, il ministro Elisabetta Trenta sta lavorando di concerto con Moavero a tenere fermi gli impegni considerati «strategici» per il nostro Paese. Discorso valido anche per Afghanistan, Iraq, Libano, Balcani.
Trenta l’aveva annunciato in Parlamento, anche a costo di suscitare qualche mugugno tra gli attivisti dei Cinque Stelle: con le missioni militari all’estero si va avanti nel senso della continuità. E con il decreto Missioni che andrà in consiglio dei ministri in settimana, è ufficiale: le missioni non si toccano. Ci sarà qualche sforbiciata, ma niente di rivoluzionario: 100 uomini in meno in Afghanistan nel prossimo anno (sui 900 presenti finora) e 50 in meno in Iraq (dove ultimamente sono circa 500).
I 50 non saranno rimpiazzati a Mosul, dove i soldati italiani avevano il compito di vigilare sul cantiere di manutenzione straordinaria - ad opera della ditta Trevi - di una enorme diga che fornisce acqua a un buon pezzo di Iraq.
Per un paio di anni a Mosul c’è stata una guarnigione di 400 nostri soldati in assetto da guerra. Le milizie dell’Isis erano a pochi chilometri, armate di droni e di artiglieria. Gente che non si preoccupava certo di lesinare sui kamikaze o sull’utilizzo di armi «sporche». Agli italiani era riservato l’anello più interno. In prospettiva, l’anno prossimo non dovrebbe esserci più nessuno. Spiegano fonti della Difesa: «Considerato l’imminente processo elettorale, in Afghanistan abbiamo agito con responsabilità; nel 2019 si procederà ad ulteriori riduzioni». Quanto all’Iraq, continuerà l’addestramento ma lo sganciamento completo da Mosul sarà completato entro i primi tre mesi del 2019».

Corriere 2.10.18
Usa, Cina, populisti, Brexit
L’uragano che minaccia lo scenario internazionale
di Antonio Armellini

Trump, la Cina, Putin, Brexit. Come il battito d’ali della proverbiale libellula dell’apologo rischiano, incrociandosi fra loro, di determinare uno tsunami nelle relazioni internazionali come le abbiamo sin qui intese.
Donald Trump ha vinto disintermediando le strutture tradizionali del suo partito; Hilary Clinton che con le strutture del suo ha operato, le ha perse. I populismi europei hanno origini e programmi diversi, ma il Presidente americano ha aperto loro un’autostrada al termine della quale si profila il dominio del click sul computer. I checks and balances della democrazia statunitense tengono la partita aperta a Washington e possono fornire utili indicazioni altrove, ma il tema di come trovare un punto di sintesi fra rappresentanza e competenza nell’era del consenso digitale, interroga in misura più o meno ampia le democrazie liberali dell’Occidente. Le possibili soluzioni sono nebulose (con buona pace della piattaforma Rousseau) ma ragionare come se fosse possibile tornare indietro è un’illusione pericolosa.
La suggestione dell’isolazionismo è un tratto ricorrente della politica americana e non è chiaro quanto in Trump essa sia ideologica e quanto espressione di uno spregiudicato mercantilismo. Con la caduta del Muro, le regole del sistema emerso dalla Seconda guerra mondiale sembrava dovessero essere riscritte, per adattarle alla globalizzazione a trazione americana indotta dalla «fine della storia». Che le cose non andassero così si è visto presto: la storia continuava e la globalizzazione ha determinato non una crescita equilibrata, ma un aumento sempre meno sostenibile delle diseguaglianze economiche. Anziché cercare di correggere un sistema che restava americano-centrico, Trump ha annunciato di volerlo smantellare in nome di un bilateralismo senza se e senza ma, ispirato allo slogan «Make America Great Again». Ha ottenuto qualche successo commerciale ma ha aperto una voragine creando nella sua politica estera vuoti in direzioni impreviste: in Medio Oriente come in Iran, in Afghanistan e in America latina. Ma non solo.
Complice l’indifferenza di Trump, Pechino si è mossa con una politica a tutto campo che la fa apparire — dazi o non dazi — sempre più come il prossimo contendente degli Usa per l’egemonia globale. In Africa, le accuse di neocolonialismo aggressivo rivoltele suonano agli orecchi europei un ironico déja-vu, ma non le hanno impedito di assumere un controllo sempre più stretto su un continente vitale per l’approvvigionamento alimentare e di materie prime del vecchio Continente. In Asia intanto, India, Giappone e Australia si interrogano su quale potrà essere la loro linea di difesa una volta venuta meno una seria presenza riequilibratrice americana.
Che la Nato sia un’alleanza in cerca di ruolo era noto da tempo, ma lo scossone inferto dalla politica putiniana di Trump rischia di essere devastante. Non si tratta delle simpatie o della dipendenza dall’uomo forte di Mosca dei vari Salvini di turno: se gli Usa ritengono non più essenziale un loro controllo politico in Europa e intendono sostituirlo con assetti definiti bilateralmente con la Russia, ai loro alleati non resterà che ricercare con essa una relazione che definisca in maniera del tutto diversa le linee d’influenza rispettive. Con conseguenze evidenti anche sulla sopravvivenza del processo di integrazione europea: aldilà delle diverse priorità e inclinazioni, esso è parte di una costruzione euro-atlantica che o rimane tale o non è.
Se Brexit fosse solo un suicido annunciato per Londra, pazienza; ma non è solo questo. Rendendo concreta l’ipotesi che in Europa si può entrare ma anche uscire, ha dato fiato alle opinioni di quanti ne considerano per diverse ragioni esaurita la spinta propulsiva. Si ha un bel dire che i vari sovranisti giocano con il fuoco fingendo di ignorare i costi insostenibili di una rottura: o che l’affievolirsi delle motivazioni originarie della scelta europea trova facile riscontro in discorsi fondati soprattutto sull’ignoranza, riversando sull’Ue responsabilità che nascono da neghittosità o insufficienze dei singoli Paesi.
In una Europa che ha idee sempre più divaricate su sé stessa, crescono quanti coltivano l’illusione che sia possibile rompere il giocattolo comunitario, recuperando illusorie libertà senza rinunciare ai vantaggi acquisiti. Brexit fa apparire possibile una via sin qui impercorribile e rischia di provocare effetti a cascata alla lunga incontenibili.
Trump potrebbe non essere rieletto nel 2020. Le ambizioni di potenza di Putin devono fare i conti con le fragilità interne. Il vento nelle vele dei populismi potrebbe afflosciarsi al confronto con la realtà. Non è detto che Brexit alla fine avvenga. Ma le libellule in volo sono molte e il battito delle ali si fa sentire: sarà bene tenerne conto.

Il Fatto 2.10.18
Mercati spiazzati, crolla la Borsa e sale lo spread
Precipitano le banche che hanno investito in titoli di Stato Incertezze sulle prospettive di crescita e sull’andamento del debito
di Stefano Feltri


“Quando i mercati potranno conoscere nei dettagli la nostra manovra lo spread sarà coerente con i fondamentali della nostra economia”, assicura il premier Giuseppe Conte. Ma i mercati, sulla base delle informazioni di cui dispongono sul deficit al 2,4 per cento del Pil per i prossimi tre anni, reagiscono in modo netto: fuga dall’Italia. Lo spread, cioè la differenza di rendimento tra i titoli italiani e tedeschi, sale da 236 punti a 281 poi scende a fine giornata a 267, il tasso di interesse sul debito a 10 anni arriva al 3,13 per cento. Uno spread più alto dovuto alle attese di un aumento dell’indebitamento ha come effetto di ridurre il valore dei titoli in pancia alle banche italiane (il mercato paga tassi più elevati di quelli sui titoli in portafoglio). E infatti in Borsa si registra un tracollo dei titoli bancari: Bpm -9,4 per cento, Intesa Sanpaolo -8,43, Bper -8,34, Unicredit -6,7. Nessun altro listino europeo perde così. Il problema è l’Italia.
Alcuni investitori, come Amundi o Natixis, nei loro report da giorni scrivevano che i tassi di mercato già incorporavano un deficit sopra il 2 per cento, anche perché non c’erano le condizioni politiche per tenerlo più basso. Nessuno aveva previsto però l’asprezza del confronto tra il ministro del Tesoro Giovanni Tria, completamente sconfitto, e i due partiti di maggioranza Lega e M5S.
I problemi che spaventano i mercati sono quindi due: le prospettive future e la composizione della manovra. In assenza di tutte le informazioni su come quel 2,4 per cento di deficit condiziona il resto dei saldi di bilancio, in particolare il debito, gli investitori si preparano al peggio. Con il ministro Tria ormai non più credibile come argine alle richieste di Luigi Di Maio e Matteo Salvini. “Si sono disegnati un bersaglio sulla fronte”, è il commento di un analista. I mercati, dice un report dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, potrebbero ora “ritenere che l’aggiustamento del bilancio non avverrà né ora né in futuro, il che potrebbe mettere in dubbio la sostenibilità del nostro debito pubblico”.
“Quello che emerge finora dalla discussione in Italia non sembra in linea col Patto di Stabilità”, dice il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis. E a novembre Bruxelles quasi certamente boccerà lo schema della legge di Bilancio perché non mantiene l’impegno a ridurre il debito. Ma le conseguenze, che dopo un lungo iter possono arrivare alla procedura d’infrazione, alla multa dello 0,2 per cento del Pil e al blocco di parte dei fondi europei, non sono il problema immediato. Il 26 ottobre l’agenzia Standard & Poor’s si pronuncerà sul rating dell’Italia, e negli stessi giorni anche Moody’s. Un declassamento, a questo punto, pare quasi certo.
Non soltanto per lo sforamento del deficit. Secondo Prometeia, una società di ricerche, “portare il disavanzo al 2,4 per i prossimi tre anni rischia di avere un effetto nullo sulla dinamica della crescita”. Perché il maggiore impatto espansivo di misure come reddito di cittadinanza e pensioni anticipate “potrebbe essere compensato da maggior incertezza e spread più elevati, in un contesto in cui il rapporto tra debito e Pil non diminuisce”.
In molti, sui mercati ma anche al Tesoro, pensano che quello che si è visto ieri sui mercati sia solo l’inizio e che la situazione potrebbe peggiorare quando ci saranno più dettagli.

Il Fatto 2.10.18
Molti Paesi d’Europa hanno deficit più alti del nostro, ma il problema rimane l’Italia
La svolta - Dopo anni di sforzi per ridurre l’indebitamento, ora lo lasceremo salire
di Ste. Fel.


Nel 2017, l’Italia ha registrato un deficit del 2,4 per cento. Perché i mercati ora reagiscono così male alla prospettiva che abbia il 2,4 anche nei prossimi tre anni, dopo l’1,7 del 2018? La risposta va cercata nel confronto con gli altri Paesi europei.
C’è un solo Stato che, a oggi, si trova sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo, la Spagna, tutti gli altri sono nel “braccio preventivo” del Patto di Stabilità.
La maggior parte dei 26 virtuosi (dalla Bulgaria a Cipro, alla Svezia) hanno anche raggiunto il proprio “obiettivo di medio termine”, che varia da Paese a Paese ma riguarda la riduzione del debito.
L’Italia, come la Polonia e il Portogallo, fino a due giorni fa era “in deviazione” dal percorso di aggiustamento, cioè andava nella direzione imposta dalle regole ma a un ritmo più lento. Nel 2017 e nel 2018, infatti, l’Italia non ha ridotto il debito quanto previsto e sicuramente non lo farà nel 2019 (la richiesta era un taglio minimo, 0,1 per cento del saldo strutturale, che ora invece peggiorerà). La Commissione Ue, dopo aver considerato una serie di “fattori rilevanti”, ha comunque giudicato sufficiente lo sforzo strutturale del 2018 che avrebbe portato il debito nel 2019 al 130,8 per cento del Pil.
I nuovi numeri annunciati dal governo cambiano lo scenario. Nel 2019 il deficit nominale medio nei Paesi dell’area euro è stimato allo 0,4 per cento del Pil, quello dell’Italia sarà sei volte maggiore, 2,4 per cento. Il deficit nominale indicato come obiettivo per l’Italia dal governo Gentiloni, 0,8 per cento, non era considerato credibile comunque: la mancata crescita già imponeva di adeguare la stima a 1,1 e quel numero non considerava le clausole di salvaguardia sull’Iva, 12,5 miliardi (0,8 per cento del Pil) da trovare per evitare l’aumento dell’imposta sui consumi. I precedenti governi le hanno sempre finanziate in deficit, quindi il deficit atteso plausibile dell’Italia era comunque 1,8-1,9. Altri Paesi hanno deficit più alti, ma sono tutti impegnati in un percorso di riduzione rilevanti. La Francia, per esempio, avrà nel 2018 un deficit del 2,8 per cento invece che del 2,6 atteso, ma lo sta riducendo comunque ogni anno dal picco del 2009 (7,2 per cento).
Nella convergenza verso finanze pubbliche solide e sostenibili, l’Italia già arrancava, ora ha scelto di andare in direzione opposta. È vero che l’Italia ha un saldo primario (le entrate dello Stato meno le uscite, prima di considerare gli interessi sul debito) del 2,7 per cento del Pil, il terzo più alto dell’Ue (verrà ridotto a 1,3 il prossimo anno). Ma non basta a renderci virtuosi, perché ci sono, appunto, gli interessi e la zavorra del debito. Nel 2019 il debito pubblico medio dell’Ue dovrebbe essere 78,5 per cento del Pil, quello dell’Italia sarà oltre il 130,8. La riduzione attesa del debito per l’Italia era dell’1,9 per cento del Pil, superiore alla media dei Paesi Ue dell’1,6 per cento. Ma ora quel numero andrà rivisto di molto, alla luce della scelta di tenere un deficit nominale del 2,4 per cento e non soltanto per un anno, ma per tutti i tre anni coperti dalla legge di Bilancio.
Anche se nella percezione diffusa l’Europa è ancora in una fase di austerità, l’Ufficio parlamentare di bilancio (l’autorità indipendente sui conti pubblici), a giugno osservava che i dati dei programmi dei vari Paesi Ue “indicano per il 2018 una politica di bilancio leggermente espansiva”, mentre per il 2019 era atteso un impulso “leggermente restrittivo” che avrebbe peggiorato gli effetti del rallentamento del ciclo economico.
In teoria non è sbagliato spendere di più quando l’economia rallenta, ma l’Italia non si limita a tenere una politica espansiva, bensì smette di cercare di convergere verso gli obiettivi concordati e spende in deficit tanto da far di nuovo aumentare il debito dopo anni in cui, pur con un ricorso al disavanzo costante, era riuscita a stabilizzare l’indebitamento con anche una piccola riduzione.

Repubblica 2.10.18
La grande illusione dei partiti leggeri
Un saggio degli americani Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro
di Nadia Urbinati


Dagli anni Sessanta si è assistito a un processo di democratizzazione che ha caratterizzato non tanto le istituzioni quanto le associazioni della società, per esempio i partiti. Un processo fatto di primarie e di altre forme di decentramento che ha creato l’illusione per cui meno organizzazione significasse più democrazia. L’esito è impietoso: le nostre democrazie hanno prodotto decisioni che forse sono più vicine all’opinione popolare del momento e hanno consentito la selezione di politici più vicini al sentire popolare e al volere dell’audience eppure... sono più cesaristiche e i suoi leader meno soggetti al controllo dei cittadini.
I partiti hanno adottato riforme interne (il PD ne è un esempio) con lo scopo appunto di diminuire al massimo l’organizzazione per essere più vicini agli elettori.
Rovesciando la "legge ferrea dell’oligarchia" si potrebbe pensare che partiti più liquidi o leggeri significhino partiti più democratici. Ma così non è. A partiti deboli è seguita una più debole democrazia. Questa è la linea guida del libro di Frances McCall Rosenbluth e Ian Shapiro, Responsible Parties: Saving Democracy from Itself (Cambridge University Press).
Combinando un metodo empirico e comparatistico con un metodo teorico, il volume propone diversi casi per dimostrare che partiti forti corrispondono a una democrazia forte, non solo perché più preferenze e interessi hanno in effetti più possibilità di essere rappresentati o avere voce, ma anche nel senso che la stessa partecipazione, elettorale e d’opinione, ha maggior spazio o uno spazio meno aleatorio. Tra i casi raccolti da Robenbluth e Shapiro vi è anche l’Italia, che per gli autori ha fallito nel corso degli ultimi anni il progetto di dare un assetto più funzionale al proprio sistema elettorale. E ha fallito, sostengono, anche per la presenza di vari fattori concomitanti: un pluralismo che ha ostacolato decisioni, una frammentazione delle dirigenze dei partiti, la presenza di leader poco saggi e ingombranti.
Al di là delle valutazioni sui singoli paesi e dell’assunto astratto del modello Westminster come il più stabile (anche se in crisi proprio nel paese che lo ha inaugurato), il tema che questo libro graffiante e controcorrente ci propone è riassumbile in una massima che la vicenda italiana dimostra con disarmante facilità: il partito leggero non è il miglior amico della democrazia. Né lo è il movimento che coltiva l’illusione di connettere e fare interagire i cittadini per mezzo di piattaforme digitali e senza un’organizzazione. Il primo è una sicura ricetta per leader autoreferenziali; il secondo crea il potere insindacabile di un piccolo gruppo. In entrambi i casi l’esito non è più democrazia ma la vulnerabilità della democrazia al potere di minoranze da un lato e del populismo dell’uomo forte dall’altro. Se, come sosteneva Robert Michels, l’organizzazione è l’arma dei molti contro i pochi, «il grande paradosso è che partiti gerarchici sono vitali per una sana democrazia».

La Stampa 2.10.18
Ponte Morandi, mail e chat furono cancellate dopo il crollo
Lo svela l’esame dei telefoni, indagato un altro dirigente Mit. Resta il nodo del commissario
di Tommaso Fregatti Matteo Indice


L’anticipazione si è materializzata durante le perquisizioni a un funzionario del ministero, che mentre gli clonavano il cellulare ha chiesto cinque volte agli inquirenti: «Ma siete in grado di recuperare pure le chat cancellate?».
In alcune occasioni si riesce e in altre no, ma è indubbio che la ricerca delle comunicazioni eliminate dopo il crollo stia diventando un fronte d’accertamento cruciale. I finanzieri del Primo gruppo, coordinati dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco, hanno scoperto che numerose mail e conversazioni WhatsApp o Telegram, scritte perlopiù prima del disastro del Ponte Morandi e inerenti sia il viadotto sia più generiche questioni di sicurezza, sono state rimosse dopo la strage del 14 agosto, nella quale sono morte 43 persone. Nel frattempo sale a 21 il numero delle persone indagate (oltre alle società Autostrade per l’Italia e Spea Engineering): la Procura ha notificato un avviso di garanzia a un altro dirigente del dicastero delle Infrastrutture, inserito nella Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie. Non si scioglie invece il nodo del commissario straordinario per la ricostruzione, la cui nomina formale era stata annunciata come imminente ieri mattina dal premier Giuseppe Conte, ma che non si è ancora concretizzata. Il candidato in pectore resta il dirigente Fincantieri Claudio Andrea Gemme, genovese, gradito alla Lega e un po’ meno al Movimento Cinque Stelle per i potenziali conflitti d’interesse: la madre è tra gli sfollati e l’azienda per cui lavora dovrebbe contribuire a riedificare il ponte.
Salvini tra gli sfollati
Per Salvini, che ieri ha incontrato gli sfollati promettendo «arriveranno le palanche», sono elementi semmai a sostegno, ma nell’esecutivo la convergenza non è totale, specie dopo alcune ricognizioni legali. Il dato più rilevante resta comunque la scoperta delle comunicazioni cancellate, che le Fiamme Gialle hanno focalizzato partendo da due dati, uno più empirico, l’altro più sofisticato. I militari, passando al setaccio una trentina di cellulari sequestrati a indagati sia di Autostrade sia del ministero, si sono resi conto che alcuni scambi chat o di posta elettronica erano presenti solo da una parte, e non integrali, mentre la corrispondenza dovrebbe essere speculare tra mittente e ricevente. Non solo. Grazie al’utilizzo d’un software speciale è stato possibile verificare alcuni “buchi” nelle sequenze d’inviatura: è insomma nero su bianco che manca qualcosa e ora occorre circoscrivere cosa. Quanto si può recuperare? Soprattutto: quale peso potrebbero avere questi scritti nell’inchiesta? Scampoli delle conversazioni sono rimasti, non essendo stati spazzati in toto da entrambi gli autori. E un altro elemento che ha allertato gli investigatori è rappresentato dalle date: i messaggi sono spariti post-disastro ma erano stati prodotti settimane o mesi prima, segno che li si è ritenuti imbarazzanti alla luce di quanto accaduto al Morandi.
Inguaiato dal collega
Difficile tuttavia ipotizzare che un comportamento del genere possa aggravare la posizione degli indagati nell’immediato, sebbene in prospettiva qualche problema potrebbe crearlo poiché proverebbe a posteriori una consapevolezza del rischio superiore a quanto si palesava pubblicamente.
Non è invece legata agli accertamenti informatici, ma a un interrogatorio, l’iscrizione sul registro degli indagati di un altro dirigente Mit. A lui i pm sono arrivati riesaminando il contenuto dell’audizione di Bruno Santoro, manager pubblico già raggiunto da un avviso di garanzia, sentito sabato scorso a palazzo di giustizia. Santoro ha ribadito come la sua divisione non avesse competenze specifiche nelle valutazioni di sicurezza, che invece sono più chiaramente in capo al dipartimento «Analisi investimenti», finito di conseguenza sotto la lente dei pubblici ministeri.

il manifesto 2.10.18
Susanna Camusso lancia la sua candidatura alla segreteria
Sindacato Mondiale. L'avversaria è l'australiana uscente Burrow. La scelta a Copenhagen a inizio dicembre


Parte ufficialmente la candidatura di Susanna Camusso per la segreteria dell’Ituc, la confederazione sindacale internazionale. Camusso si confronterà con la segretaria uscente, l’australiana Sharan Burrow. La lotta a due è una contrapposizione tra i sindacati anglofoni che appoggiano Burrow e quelli europei, sud americani e asiatici favorevoli a Camusso. La scelta avverrà a Copenhagen nel congresso dell’Ituc dal 2 al 7 dicembre. Sempre che non si arrivi ad un accordo unitario prima, possibilità accreditata dall’entourage di Camusso.
Da ieri è on line il sito che appoggia la candidatura (www.susannacamusso.info) in cui Camusso ringrazia i tanti «sindacati che mi appoggiano e mi voteranno» e propone «un Ituc che abbia i denti per sfidare il capitalismo globale», «per mettere pressione e far cambiare politica alle istituzioni finanziarie internazionali».

il manifesto 2.10.18
Macedonia, smacco per la Nato (e per la Ue)
Lontani dal quorum. Bassa l'affluenza, ferma al 37%. Ma sarà il parlamento a decidere se ratificare lo storico accordo con la Grecia sul cambio del nome, e il premier Zaev non ha la maggioranza
di Tommaso Di Francesco


Che smacco. È fallito in Macedonia il referendum sul nome del Paese tanto voluto dal premier socialdemocratico Zoran Zaev per ratificare l’accordo storico sancito con la Grecia di Alexis Tsipras per la nuova denominazione di «Macedonia del nord» dell’ex Stato jugoslavo che ancora internazionalmente si chiamava, e a questo punto si chiama ancora, con l’acronimo Fyrom.
È infatti accaduto che semplicemente i macedoni non sono andati a votare, la partecipazione è stata solo del 37% degli aventi diritto, mentre il referendum per esser valido avrebbe dovuto ottenere almeno il 50% più uno. Già è in campo una lettura politica che punta a “far finta di niente”: in fondo il 90% di quelli che hanno votato è per il sì e, ora lo si sottolinea mentre prima quasi lo si nascondeva, il referendum era solo consultivo, quindi sarà il parlamento macedone a decidere.
E PROBABILMENTE anche quello della Grecia dove l’accordo storico di Prespa – voluto da Tsipras per liberarsi della palla al piede del nazionalismo greco anti-macedone e per ingraziarsi governi e organismi internazionali di fronte ai nuovi problemi della crisi interna – ha suscitato di fatto, insieme a contraddizioni anche a sinistra, una crisi della coalizione che sostiene il governo a guida Syriza ma con la partecipazione di minoranza della destra nazionalista di Anel, il partito dei Greci indipendenti che in parlamento conferma che voterà no mettendo così in forse la tenuta della maggioranza. Ma anche a Skopje Zaev non ha la maggioranza parlamentare e difficilmente si accorderà con i nazionalisti slavo-macedoni del Vrmo-Dpmne, tantopiù che emerge rafforzato il protagonismo del presidente della repubblica Gjorge Ivanov che in campagna elettorale e addirittura prendendo la parola all’Onu, ha apertamente invitato i macedoni a boicottare il voto. Non a caso si parla di elezioni anticipate.
Dunque hanno vinto i conservatori nazionalisti e si allontana la prospettiva “progressista”dell’Unione europea e della Nato? È la tesi ricattatoria, dei media e degli organismi internazionali e che torna a pesare sui macedoni che di fronte al voto non avevano poi tante scelte nella formulazione che chiedeva se erano o no d’accordo all’ingresso nell’Ue e nella Nato attraverso un sì all’accordo con la Grecia sul nuovo nome del Paese – dove l’adesione al Patto atlantico, è messa sullo stesso piano di quella all’Unione europea e viene presentata come discrimine di democrazia mentre è solo annuncio di nuove subalternità, a partire dall’aggravio dei costi della difesa.
Ma le cose non stanno proprio così. In primo luogo va osservato che le forze della destra macedone sono assolutamente d’accordo all’adesione all’Ue e, figuriamoci, a spada tratta anche alla Nato. Ora, senza vedere le responsabilità in casa europea, si preferisce attribuire responsabilità alla Russia – invece piuttosto isolata e perfino in difficoltà nel patrocinio della sola Serbia – e ai siti online che pure una influenza hanno avuto sulla non partecipazione al voto; certo Putin se la ride, ma rilanciare il Russiagate a questa latitudine, nei Balcani, è perlomeno altrettanto risibile. Perché qui la Nato, più dell’Europa, gioca in casa e l’ha fatta e la fa da padrone su tutto il sud-est europeo, almeno a partire dalla guerra “umanitaria” per il Kosovo indipendente nel 1999, dove ha fatto valere non le ragioni della democrazia ma i rapporti di forza dei bombardamenti aerei; e dove controlla praticamente tutto, i governi e un territorio disseminato di basi militari, mentre la sua ombra armata si allunga ora sul Montenegro a proteggere l’aspirazione di “zona franca” di uno staterello corrotto, come il Kosovo, e apposta filo-occidentale.
LO SMACCO è infatti proprio dell’Occidente atlantico. Qui, nei Balcani come in Europa, non vincono i nazionalisti per la loro intrinseca forza politica ma per la debolezza e l’ambiguità della proposta internazionale.
A proposito di ingerenze, lo smacco è per Angela Merkel corsa a Skopje a sostenere il referendum come hanno fatto Federica Mogherini, il leader austriaco Sebastian Kurz, il segretario della Nato Jens Soltenberg e il capo del Pentagono James Mattis.
TORNA NEI BALCANI il nodo del ruolo della Nato. E ci si chiede: come poteva essere convincente un referendum per l’ingresso nella Nato con un premier che rivendicava la validità di questo obiettivo riconducendola alle promesse da confermare del primo referendum del 1993? Chi scrive intervistò a più riprese il padre dell’indipendenza macedone Kiro Gligorov, una figura mitica che come presidente riuscì a trattare con Milosevic e a portare fuori dalla guerra il Paese, rivendicandone l’indipendenza anche da trattati che l’avrebbero coinvolta in nuovi conflitti; e che infatti si oppose al ruolo della Nato nella guerra contro l’ex Jugoslavia. Non a caso il parlamento dovrebbe correggere quella costituzione primaria che ha fin qui salvato il Paese che Kiro Gligorov considerava una “piccola Jugoslavia”, da proteggere e garantire contro tutti nelle sue diversità etniche e linguistiche. Non a caso subì un criminale attentato nel 1994 che lo menomò. Come potevano inoltre essere convincenti un accordo e un referendum che tacciono l’iniziativa programmatica dell’unico nazionalismo davvero attivo nell’area, non più quello slavo sconfitto, ma quello albanese? L’ALBANIA È IN LIZZA proprio con la Macedonia per l’ingresso nel Patto Atlantico; e la Macedonia, culla a Tetovo e Gostivar dell’Uck e dell’irredentismo grande-albanese nell’area, ha visto la guerra civile insanguinare il Paese fino al 2002 con strascichi anche più recenti fino al 2015. Un irredentismo che si è irradiato nell’area anche grazie all’intervento militare della Nato del 1999 in appoggio all’Uck in Kosovo.
Anche nei Balcani, che qualcuno pensa pacificati e dove la storia non passa, nell’azzeramento di ogni proposta di eguaglianza di diritti sociali e di comunanza vera di interessi economici e politici internazionali, il nazionalismo – la follia che ha devastato, con l’aiuto dell’Europa, la Federazione jugoslava – si propone come l’ultima memoria residuale di fronte ad una proposta internazionale ricattatoria che conferma la subalternità e la sottomissione del Sud-Est europeo. Insomma, prima l’Unione europea si libera dell’apparentamento con la Nato, e meglio è. Ora il rischio, indubbio, è che l’evidenza di questa condizione ispiri gli istinti peggiori e una nuova, perdente quanto infinita contrapposizione.

il manifesto 2.10.18
La cellula dell’ultradestra pronta a colpire, 6 arresti a Chemnitz
Germania. In manette i neonazisti dell’organizzazione «Revolution», pianificavano un'azione per domani, nel giorno in cui si celebra la festa della Riunificazione
di Sebastiano Canetta


BERLINO Erano pronti agli attentati contro gli stranieri quanto a sparare sui politici e rappresentanti della società civile impegnati sul fronte dell’accoglienza. Se non li avessero fermati ventiquattro ore fa, avrebbero colpito esattamente domani: nel giorno in cui in tutta la Germania si celebra la festa della Riunificazione.
Una vera e propria cellula di terrorismo nero votata alla «rivoluzione di destra», smantellata un attimo prima che diventasse operativa. Ancora una volta nella città più xenofoba e razzista, dove non ci si accontenta più solo della “semplice” caccia allo straniero.
Ieri mattina tra la Sassonia e la Baviera la polizia federale ha arrestato sei neonazisti tra i 20 e 30 anni appartenenti all’organizzazione «Revolution Chemnitz». Con il blitz di oltre cento poliziotti e le squadre speciali scattato dopo la prova che il gruppo stava mettendo le mani su un autentico arsenale di armi da fuoco. Secondo la Procura di Karlsruhe pianificavano i dettagli di azioni per «sovvertire l’ordine costituito» almeno fin dall’11 settembre, a compimento dell’escalation di aggressioni ai migranti da loro stessi alimentata.
L’arresto, di nuovo a Chemnitz, di estremisti di destra pronti a passare alla strategia degli attentati conferma che l’ex Karl Marx-Stadt è la fucina del terrorismo neonazista nella Bundesrepublik. Sempre qui nel recente passato ha potuto agire quasi indisturbata Beate Zschäpe, unica sopravvissuta del «Nationalsozialistischer Untergrund» (Nsu) responsabile dei cosiddetti «delitti del Kebab», l’omicidio efferato di nove immigrati e una poliziotta.
Il capo della «Revolution Chemnitz» si chiama Christian K., ha 31 anni, era stato arrestato già due settimane fa dopo aver preso a bottigliate alcuni migranti. Insieme agli altri cinque skinhead il 14 settembre ha fondato il gruppo stilando la lista degli obiettivi da colpire: «dai rappresentanti dell’universo dei partiti fino all’establishment sociale» precisa il procuratore federale. Ieri ha ordinato la perquisizione degli alloggi dei sei neonazisti alla ricerca dei link utili a ricostruire la completa identità della cellula. Intanto oltre agli obiettivi risulta acquisito il loro tentativo di «attentato allo Stato costituzionale democratico» come ricostruiti i precedenti di cinque dei sei componenti del gruppo: tutti protagonisti nelle recenti aggressioni agli stranieri a Chemnitz.
La loro «Revolution» nera era nata per fare il «salto di qualità» dagli attacchi con il tirapugni; a sentire gli investigatori nell’ultima settimana avevano cercato in più modi di procurarsi una partita di armi semi-automatiche.
È l’inquietante dimostrazione della «portata della radicalizzazione razzista che si è raggiunta da queste parti» come evidenzia Kerstin Köditz, deputata della Linke al Parlamento della Sassonia. Una spirale «pericolosa» per i migranti come per partiti e istituzioni messi ugualmente nel mirino del nuovo terrorismo nero.

La Stampa 2.10.18
Pianificavano attentati contro gli stranieri
In cella 6 neonazi
di Walter Rauhe


Si erano dati il nome di «Rivoluzione Chemnitz» e secondo la polizia stavano pianificando attentati contro stranieri in Germania. Volevano però colpire soprattutto la Festa della Riunificazione (domani in Germania). La polizia ha sventato i piani e sgominato la banda, arrestando sei terroristi in un duplice blitz in Sassonia e in Baviera.
Gli arrestati appartengono agli ambienti neonazisti, agli hooligan e agli skinhead. Si tratta di giovani di età compresa fra 27 e 30 anni. Secondo le indagini della procura federale, che ha emesso i mandati di arresto, il gruppo aveva già provato a procurarsi armi semiautomatiche. Ai blitz hanno partecipato oltre 100 agenti di polizia e sono state effettuate numerose perquisizioni in varie località della Sassonia, che hanno fatto trovare mazze da pestaggio e un fucile ad aria compressa.
Radicalizzati in Sassonia
Cinque degli arrestati erano già noti alle forze dell’ordine per quella caccia all’uomo lanciata nei giorni della mobilitazione fra le strade di Chemnitz, dove quotidianamente cortei di cittadini spaventati ed estremisti hanno sfilato fianco a fianco, urlando lo slogan «Wir sind das Volk», «Noi siamo il popolo». Ma c’era anche chi urlava «nazionalsocialismo adesso». Dieci persone furono denunciate per i saluti hitleriani: i processi sono già iniziati e c’è stata una prima condanna. Secondo quanto riporta la «Süddeutsche Zeitung» nel mirino del gruppo terroristico, oltre a politici e stranieri c’erano anche giornalisti di diversa opinione politica. Il gruppo, proveniente dalla Sassonia come l’altro noto gruppo terrorista anti-stranieri, l’Nsu (Nationalsozialistischer Untergrund, il gruppo terrorista guidato da Uwe Mundlos e Beate Zschaepe resosi colpevole di 10 omicidi, 15 rapine e l’esplosione di tre ordigni) era composto di 7 persone e la settima, cioè il capo del gruppo, Christian K., era stato arrestato 15 giorni fa. Il gruppo si sarebbe formato ufficialmente l’11 settembre, tre giorni prima dell’assalto di Christian K. insieme ad altri cinque uomini contro alcuni iraniani e pachistani a Chemnitz. «Nessuna tolleranza nei confronti di estremisti di destra», ha ammonito il ministro degli Interni Horst Seehofer. Parla di un «pericolo grande e reale» la ministra alla Giustizia, la socialdemocratica Katarina Barley. «La nuova cellula di Chemnitz dimostra quali dimensioni abbia ormai la radicalizzazione del razzismo in Sassonia», ha detto l’esponente della Linke Kerstin Koeditz.

il manifesto 2.10.18
La notte del sabba va al museo
Mostre. «Arte e magia. Il fascino dell'esoterismo in Europa», una rassegna a Palazzo Roverella di Rovigo a cura di Francesco Parisi
Paul Sérusier, «L’Incantation», 1891-92 Quimper, Musée des Beaux-Arts
di Arianna Di Genova


ROVIGO Si entra in silenzio, seguendo l’invito del gesto iniziatico di accattivanti fanciulle rappresentate in grandi quadri: un dito sulla bocca a significare che i mondi occulti si attraversano con la coscienza allargata ma con il segreto nel cuore, permettendo a pochi individui di percorrere i sentieri dell’illuminazione, magari scalando gli scalini di un tempio.
Ma la mostra presso Palazzo Roverella di Rovigo Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa, a cura di Francesco Parisi (la rassegna è visitabile fino al 27 gennaio 2019 ed è corredata da un catalogo ricco di contributi edito da Silvana) procede in una vertigine spiraliforme. Come se fossimo in gironi, non infernali ma sotterranei, ci si immerge al centro fino a che si è rapiti dall’opera-cardine: quell’acquerello potentissimo che va sotto il nome di L’enlèvement (siamo nel 1882) di Félicien Rops, assaggio di un satanismo improntato a eros dissoluto e stregoneria, che sfonda il cielo rassicurante per popolarlo di demoni predatori. Lo fa in un’accelerazione avvitante, un po’ come ci aveva abituati Luca Signorelli nella sua Cappella di san Brizio, dentro al duomo di Orvieto.
L’ARTISTA BELGA, d’altronde, era considerato un maestro, un apripista di quell’universo inquieto, esoterico e anche spiritista che si era andato raggruppando intorno alla libreria /galleria nonché casa editrice parigina di Edmond Bailly, presto trasformatasi in un luogo magnetico per quel revival dell’occultismo fin de siècle. Fu proprio Rops a inventarne il logo: una sirena alata con denti aguzzi, da fiera selvatica. Indomabile come l’inconscio.
Intorno agli scritti di Eliphas Lévi e alla figura carismatica di Joséphin Péladan, nato a Lione città magica per eccellenza (insieme a Praga), scrittore e guru identificato con i re assiri, come documenta l’acconciatura della sua barba nel disegno di Alexander Seon esposto in mostra. Fu Péladan a istituire i Salon dei Rosacroce (a quel momento storico-mistico è stata dedicata, l’anno scorso, l’esposizione veneziana al Peggy Guggenheim), rifondando l’ordine secondo il suo pensiero e spingendolo a diventare territorio sconfinato per il pascolo dell’immaginario dei pittori simbolisti.
A Rovigo si è scelta una finestra temporale nel tentativo di maneggiare un tema vastissimo e molto insidioso – dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento – e la rassegna, con le sue oltre duecento opere e alcune prime edizioni di testi storici, è debitrice alla passione del curatore che attraverso le vie misteriose del Simbolismo ha incontrato il pullulare magico di quell’epoca indefinibile, stretta tra l’insorgere dell’industrializzazione con il conseguente abbandono della natura in favore di alienanti città e i venti di guerra che, nel giro di una manciata di anni, avrebbero travolto l’Europa.
NATURALMENTE non tutti gli artisti sono indimenticabili; molti sono presenti in veste di «testimoni» di quel percorso spirituale e poco terreno cui si erano affidati, sondando macabre visioni, notti di sabba e cascate di luce dall’aldilà.
Félicien Rops, L’enlèvement, 1882
FRA I TOPOS dell’esoterismo c’è sempre un luogo impenetrabile come la foresta, abitata da esseri inconoscibili, fedeli accompagnatori di streghe quali lupi, rospi o pipistrelli. Paul Elie Ranson, tra i fondatori dei Nabis, sfoggiava nella sua biblioteca personale un testo come Le traité élementaire de science occulte di Papus e Palazzo Roverella ospita la sua Strega nuda e il gatto. Fra i suoi compagni di iniziazione c’era anche Paul Sérusier, qui ricordato con Le bois sacré, opera che sottintende un sentimento panico della natura e un incontro con forze misteriche, primitive, antidoto al logos e alla scienza positivista.
CI SONO ANCHE GLI ALBERI tra i soggetti «animati»: il tronco rosso fiamma, minaccioso e rivelatore di Odilon Redon e il filare più accondiscendente di pioppi di Piet Mondrian, i cui tronchi però si spogliano via via delle maglie figurative per addentrarsi nei territori sospesi della teosofia attraverso le suggestioni di Édouard Schuré ma soprattutto di Rudolf Steiner che nel 1909 approdò a Amsterdam con una conferenza che destò scalpore. L’influenza per Mondrian non sarà effimera: anni dopo, nel 1920, il pittore gli chiederà in una lettera di esprimere un giudizio sul suo testo del Neoplasticismo. Per Mondrian, la teosofia era «un agente potente per presagire la liberazione dei cuori oppressi». Duchamp invece avvicinerà l’esoterismo grazie alla lezione del grande artista ceco Kupka, sodale di tutta la famiglia e attento lettore di Edgar Allan Poe, i cui paesaggi invasi da spiriti trasponeva nelle sue incisioni (L’idolo nero).
Lo stesso norvegese Munch non rimase immune dalla semina «occulta» che attraversò la sua epoca. Nella sua permanenza parigina, e in quella berlinese per tramite del teorico dell’«anima nuda» Przybyszewski, venne catturato – per sua sensibilità e angoscia personale – da quella temperie. Vampiri e donne fatalmente maligne, fantasmi che si presentano in notti da incubo saranno le sue versioni horror di una interiorità dissestata, in cerca di luce spirituale.
A RACCONTARE qualche altro filamento e fuoriuscita del tema principale di Arte e magia, Francesco Parisi ha inserito anche un gruppo di artisti italiani. Ci sono così le fotografie dell’invisibile (non spiritiche però!) di Anton Giulio Bragaglia, le diavolesse dal turbolento eros di Alberto Martini, il gufo decadente del livornese Gabriele Gabrielli (che molto lavorò intorno ai Fiori del male di Baudelaire). Ma il più aderente alla cultura esoterica, per una reale attitudine misterica e per lo spiritismo che ha intriso il suo studio romano sulle Mura (nella famiglia si contavano diversi medium), è senz’altro il ceramista Francesco Randone. Con il Ricordo del rogo recupera la forma delle urne cinerarie romane, convinto che la cottura rigeneri la materia a nuova vita. Adotterà il nome di Maestro delle Mura, firmando le sue opere con «Pater» mentre le figlie verranno ribattezzate «vestali». Nel suo atelier insegnava gratuitamente ai giovani allievi (ancora oggi esiste. dentro quelle Mura Aureliane che lui abitò, una scuola tenuta in vita dai nipoti) e lì riceveva gli amici, tra gli altri Giacomo Balla e Duilio Cambellotti.

il manifesto 2.10.18
La forza della verità nonostante il voyeurismo
Asia Argento. La lunga intervista dell'attrice e regista a «Non è l'arena»
di Mariangela Mianiti


Se il suo poco credibile accusatore, Jimmy Bennett, una settimana fa si era presentato scortato dal suo avvocato Gordon Sattro, lei è arrivata a Non è l’arena, su La7, da sola, accompagnata solo dalla sua forza e dalle sue occhiaie, quasi a voler sottolineare che la sincerità non ha bisogno di correttori coprenti.
Dopo aver ripercorso la violenza subita da Weinstein e aver raccontato il suo rapporto quasi materno con Bennet attore/ bambino (la regista e attrice lo ha diretto a 7 anni nel film Ingannevole è il cuore più di ogni cosa) Asia Argento ha ribaltato il tavolo delle accuse, ha detto che è stato lui a saltarle addosso e ad averla violentata.
«È stata una cosa inaspettata e rapidissima, non più di due minuti, che mi ha lasciato agghiacciata e pietrificata. Poi mi disse che quello era il suo sogno erotico fin da quando aveva 12 anni». Ecco, sarebbe bastato fermarsi qui e guardarla in faccia mentre diceva queste parole per crederle, così come bastò la sua invettiva contro Weinstein e il sistema che lo proteggeva pronunciata durante la premiazione a Cannes 2018 per capire non solo la profondità delle ferite subite dal produttore, ma soprattutto la potenza del movimento Metoo di cui Argento è protagonista. Sarebbe anche bastato confrontare le testimonianze di Bennett e Argento per capire dove abita la verità. Bennett, che per altro nel 2015, a 19 anni, ha subito dalla Corte Suprema di Los Angeles un ordine restrittivo chiesto dalla ex fidanzata che lo aveva accusato di averla pedinata e minacciata, mentre descriveva la presunta violenza aveva usato parole schematiche, come prese da una brutta sceneggiatura.
Massimo Giletti non si è fermato lì. Per non lasciare nessun dubbio ha scavato in ogni dettaglio della vicenda. Perché lei non si è difesa? Perché ha lasciato che lui scattasse dei selfie insieme ed è addirittura andata a pranzo con lui, dopo? Perché il suo compagno Anthony Bourdain, quando cinque anni dopo è arrivata dagli avvocati di Bennett la richiesta di 3,5 milioni di dollari, ha accettato di pagare, sebbene la decima parte?
Argento non si è sottratta, ha spiegato ogni dettaglio, ogni ragione, fino a esibire la relazione della psicoterapeuta da cui andò pochi mesi dopo la violenza per chiarire con se stessa le ragioni di quella non reazione e in cui si dice «Una delle parti peggiori del ricordo era il pensiero che non avesse saputo difendersi».
Sembrava di essere immersi in uno di quei processi per stupro in cui è la donna a dover dimostrare di non aver fatto nulla per attirare l’attenzione e, quindi, la violenza. Massimo Giletti, essendo uno che conosce bene l’arte del rimestare nel voyerismo, si è dato un gran da fare con sorrisi di complicità, ammiccamenti, tenerezze, proclami all’insegna del «Ripensateci» affinchè Sky riassuma la Argento nella squadra di X Factor. L’ultimo appello l’ha fatto addirittura in ginocchio, accanto a lei che, scossa dopo quasi due ore di intervista in cui aveva dovuto parlare anche del suicidio del compagno Bourdain avvenuto lo scorso 8 giugno, faceva fatica a trattenere le lacrime. Viene da chiedersi: c’è bisogno di tutto questo mandato in diretta per credere a una donna che dice di avere subito violenza?
Anche noi ci auguriamo che X Factor riprenda fra i giudici Asia Argento e non per le ragioni, a dir la verità povere, spiegate da Fedez che ha detto «Si temeva che questa vicenda avrebbe tolto attenzione ai ragazzi concentrandola solo su Asia. Ma ora non è più così e secondo me dovrebbe rientrare». In realtà da X Factor non avrebbero mai dovuto cacciarla e per una ragione molto semplice. Chi lavora nel mondo del cinema e della televisione sa benissimo che il movimento Metoo ha ragione e che bastava parlare con Asia Argento in privato per capire come sono andate le cose con Bennett. E invece si è arrivati a un processo televisivo che ha sì chiarito da che parte sta la verità, ma per farlo ha dovuto scarnificare l’intimità e la vita di una persona. Ma tanto, tutto fa spettacolo, no?

il manifesto 2.10.18
Sanità, è pronta la legge per la devoluzione regionale
Servizio nazionale. Le Regioni tuteleranno solo i propri residenti, e il diritto alla salute non sarà più un diritto assoluto, uguale per tutti, come dice l’articolo 32 della Costituzione
di Ivan Cavicchi


Il ministro degli affari regionali Erika Stefani, fra un paio di settimane, presenterà una proposta di legge con la quale, proprio in nome dell’autonomia, saranno devolute al Veneto ben 23 materie, compresa la sanità.
A questa prima devoluzione seguiranno quelle della Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Liguria ecc.
La devoluzione della sanità significa che la sanità passerà dalla legislazione concorrente tra Stato e Regioni (le Regioni possono fare leggi ma rispettose delle regole fissate dallo Stato) a quella esclusiva delle Regioni le quali in pieno laissez faire e con la più ampia facoltà deregolativa, potranno decidere in barba ai principi dello Stato, quello che vogliono.
Grazie al ministro Stefani, e al governo gialloverde, a 40 anni dalla nascita del servizio sanitario nazionale, il servizio nazionale potrebbe morire, perdendo almeno due dei caratteri fondamentali che sino ad ora lo hanno contraddistinto in tutto il mondo: l’universalità e la solidarietà (tutti i cittadini sono curati allo stesso modo i cittadini più forti aiutano fiscalmente i cittadini più deboli senza limiti di spazio).
Le Regioni finanzieranno in proprio i loro sistemi sanitari e saranno autosufficienti, ogni regione farà sistema a se, gli squilibri che ci sono non saranno mai recuperati al contrario si accentueranno, le diseguaglianze e le discriminazioni nel paese, per esempio tra nord e sud, saranno messe a regime.
Quindi l’art 32 della Costituzione sarà riscritto. Non sarà più la Repubblica che tutelerà la salute delle persone ma una sua parte e limitatamente a precise aggregazioni sociali. Le Regioni senza Stato diventando, sulla sanità, a loro volta Stato, tuteleranno solo i propri residenti. Il diritto alla salute non sarà più un diritto assoluto cioè fondamentale, quindi uguale per tutti, ma diventerà un diritto discreto cioè relativo alla regione nella quale si vive. La collettività quindi non sarà più quella che l’art 32 intendeva a scala nazionale ma coinciderà con la popolazione residente in un preciso ambito territoriale.
Una giovane ministra che decide con un tratto di penna la sorte di una intera popolazione, il silenzio della sinistra soprattutto del sindacato confederale, il silenzio, a parte alcune sporadiche eccezioni, della sanità nel suo complesso, i tradimenti delle Regioni che una volta si definivano rosse e che ora rincorrono a destra i loro avversari politici sul loro terreno (Emilia Romagna, Toscana, Umbria) e da ultimo fino ad ora il silenzio del ministro della salute del M5S che si accinge a perdere di fatto il suo dicastero per devolverlo, a sua volta, a quello degli affari regionali, ma soprattutto che non ci fa sapere se esiste o no un concerto tra di lei e il ministro Stefani.
Personalmente sono convinto che, anche se la Costituzione, all’art 116, prevede la possibilità di devolvere delle materie dallo Stato alle Regioni, la sanità sia una materia “indevolvibile” e andrebbe chiesto a gran voce lo stralcio della sanità dalle materie che la proposta Stefani prevede di devolvere al Veneto e alle altre regioni.
Sono anche convinto che un vulcano che scoppia non sia un affare per nessuno tantomeno per il governo in carica. Tutti rischiano di restarci sotto. La Lega potrà prendere i voti del Veneto ma non prenderà i voti di chi grazie al Veneto sarà condannato alla minorità sociale. Il M5S se non chiederà lo stralcio della sanità si mostrerà succube della Lega, ma soprattutto negherà tutto quello che sino ad ora ha scritto nei propri programmi sulla necessità di difendere e rifinanziare questo sistema sanitario.
Il Pd che con Bonaccini (presidente dell’Emilia Romagna) ha già fatto votare dal proprio consiglio regionale, la devoluzione di 17 materie, compresa la sanità, in futuro, dove pensa di prendere i voti? Gli elettori di sinistra, soprattutto quelli della sanità, ma non solo, non voteranno un partito che così disinvoltamente tradisce, proprio sul terreno del welfare e dei diritti costituzionali, la propria storia. Senza dimenticare che alla base della proposta del ministro Stefani di devolvere la sanità alle Regioni, vi sono gli errori tragici che proprio i Ds fecero nel 2001 (governo Berlusconi) riformando il titolo V della Costituzione illudendosi di rispondere alla pressione leghista di allora con un federalismo taroccato.

La Stampa 2.10.18
Autismo
I disturbi del neurosviluppo che riguardano 500 mila famiglie
di Fabio Di Todaro


I disturbi dello spettro autistico sono disturbi del neurosviluppo che impattano sulle interazioni sociali e che possono comprendere un’ampia gamma di problemi comportamentali: anomalie nella comunicazione, comportamenti ripetitivi o compulsivi, iperattività, ansietà, difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti, disturbi sensoriali e disabilità intellettiva. I sintomi possono essere molto eterogenei e, soprattutto in età precoce, sfumati. Per questo motivo è spesso difficile ottenere una diagnosi certa prima di 24-36 mesi di età. Le cause di questi problemi - in Italia riguardano 500 mila famiglie - sono ancora poco chiare. Mentre in un terzo dei casi possono essere genetiche, per la restante quota si ritiene possa esserci una combinazione di fattori ambientali, mutazioni multiple e varianti genetiche rare. Non esiste una cura, ma esistono trattamenti riabilitativi che migliorano la qualità di vita.

La Stampa 2.10.18
Il bambino di 4 anni è autistico, disertata la festa di compleanno
Modena, si è presentato soltanto uno dei 18 compagni di classe invitati
di Franco Giubilei


In questa vicenda i numeri giocano un ruolo importante: nella classe di F., bimbo malato di autismo iscritto alla scuola materna di Cavezzo, ci sono altri 22 bambini. Per organizzare la festa del suo quarto compleanno, la madre si era servita della chat della scuola e aveva invitato via What’s App i figli dei genitori iscritti al servizio di messaggeria, cioè diciotto compagni. Peccato che all’appuntamento se ne sia presentato soltanto uno. «Di tutti questi, solo in quattro mi hanno fatto sapere che non avrebbero potuto partecipare, gli altri non si sono neanche degnati di rispondere», racconta Maria Giovanna Carlini, 36 anni, la mamma di F.. E così il bambino, che a causa della sua malattia ha una percezione distorta di quanto gli accade intorno e dunque non si è reso conto dello sgarbo, ha dovuto fare a meno della vicinanza dei suoi compagni. La madre ha pubblicato su Facebook un filmato in cui spiegava l’accaduto e sul social è esplosa la polemica, perché si parla tanto d’integrazione dei disabili ma poi non ci si prende la briga di avvertire che non si potrà andare alla festicciola di un bambino.
L’orario in realtà non ha aiutato, le 6 di pomeriggio di un giorno feriale, quando molti genitori sono ancora sulla via del ritorno dal lavoro, ma la questione di fondo resta: «Bastava un messaggio – osserva la madre -. Mio figlio non posso iscriverlo a nuoto o altre attività perché non può stare in gruppo, ma i bambini autistici allora devono stare sempre da soli? Ha cominciato a manifestare i primi disturbi all’età di 15 mesi, la diagnosi esatta poi gliel’hanno fatta un anno più tardi».
Maria Giovanna Carlini ha anche contribuito a fondare un’associazione che si occupa di bambini con difficoltà cognitive ed è proprio lì, nella sede dell’associazione a Cavezzo, che doveva tenersi la festa. Come regalo, invece dei giocattoli la donna aveva chiesto una piccola donazione: «Sarebbe stata impiegata per i nostri corsi di musicoterapia, ma nessuno era tenuto a farla, era una cosa su base volontaria, andava bene anche solo la presenza degli altri bambini».
Il contributo
E’ possibile che qualcuno abbia storto il naso davanti alla richiesta di un contributo seppur simbolico, anche se Sara, la madre dell’unico bambino intervenuto, non è affatto di questa idea: «Non credo sia stato questo a tener lontani i genitori, io l’ho trovata una soluzione carina, perché ti toglie dall’imbarazzo e dal rischio di portare magari lo stesso giocattolo, e poi si trattava di una piccola somma. Semmai l’orario era un po’ difficile per chi lavora, ma almeno bisogna rispondere all’invito, sia pure per dire che non si può andare».
Una questione di sensibilità, resa ancora più delicata dalle condizioni del piccolo festeggiato, che però ha avuto modo di rifarsi: appena si è sparsa la voce via social, la famiglia di F. è stata invitata al Kids Festival a Milano, dove ha potuto giocare insieme con altri bambini in un parco tematico. «Per non confonderlo gli abbiamo detto che non era la sua festa di compleanno, perché c’era già stata e lui va preparato a eventi del genere, ma è stata comunque una bella cosa - spiega la madre –. Ci ha anche contattati un portavoce del ministro Fontana per esprimerci solidarietà».

Repubblica 2.10.18
La Casa Bianca e l’immigrazione
Deportati di notte nel deserto texano I bambini stranieri scuotono gli Usa
In centinaia, svegliati e caricati sui bus dal Kansas e New York per raggiungere le tendopoli al confine con il Messico. E i piccoli "detenuti" aumentano
di Federico Rampini


NEW YORK I nuovi " figli della mezzanotte" sono centinaia di bambini stranieri, deportati al buio per intraprendere un viaggio verso il Sud. Dai loro attuali centri di accoglienza, a New York o nel Kansas, sono « svegliati nel mezzo della notte, caricati su autbous con zainetti e merendine, per un viaggio attraverso la nazione diretti a una nuova casa: una tendopoli in mezzo al deserto del Texas occidentale » . La tendopoli è sempre quella: a Tornillo, nella zona che ho visitato a giugno per il reportage uscito su Repubblica. La nuova rivelazione sulle deportazioni notturne, uscita ieri sul New York Times, è sorprendente. Dopo lo scandalo scoppiato a giugno per la tendopoli dei minorenni nel deserto, e soprattutto per le separazioni forzate dai genitori, l’Amministrazione Trump aveva annunciato un cambiamento, promettendo che non avrebbe più strappato i figli minorenni ai genitori in attesa di processo. La spiegazione starebbe anzitutto nei numeri: il New York Times parla di 13.000 migranti minorenni in stato di detenzione, il quintuplo rispetto a un anno fa. Nello stesso periodo secondo il ministero della Sanità e dei servizi sociali la lunghezza della loro detenzione è salita da una media di 34 a 59 giorni. La tendopoli di Tornillo, a differenza di altri centri, non garantisce corsi scolastici ai minori né offre loro un’assistenza legale. Ciononostante sta diventando il centro specializzato verso il quale il governo federale sposta i ragazzi sparpagliati altrove nel paese.
Il reportage del New York Times distingue all’interno dei 13.000 minori fra quelli ( 2.500) che furono separati dai genitori quando veniva applicata la "tolleranza zero", e la maggioranza degli altri che invece sono stati catturati mentre attraversavano la frontiera da soli. La custodia federale dovrebbe essere temporanea, in attesa di trovare famiglie ( generalmente parenti o amici) che accettano di ospitarli mentre il loro caso viene esaminato dai tribunali che smistano le richieste di asilo. È difficile mantenere a lungo la promessa di non separare genitori e figli, perché la legge proibisce di detenere minorenni nelle carceri per adulti. Sempre il servizio del New York Times ammette che l’origine dei problemi non va attribuita all’Amministrazione Trump: i centri di detenzione per minorenni esistevano già sotto diversi altri presidenti, incluso Barack Obama. Quello che non sembra avere funzionato è l’effetto deterrenza che Trump aveva promesso ai suoi elettori: la " tolleranza zero" non ha ridotto gli attraversamenti della frontiera. Invece la sua " tolleranza zero" ha sortito un’altra conseguenza imprevista: sono diminuite le famiglie disposte ad accogliere questi minori. La ragione è che in passato spesso le famiglie d’accoglienza erano a loro volta immigrati senza permesso di soggiorno; i quali adesso hanno paura di uscire allo scoperto. Decine di adulti sono stati arrestati dopo essersi offerti di accogliere a casa propria i minori in attesa del processo di asilo. Oltre al suo reportage, il New York Times si rivolge alla Casa Bianca con un editoriale, chiedendo che le deportazioni nel deserto del Texas cessino. «Strappare bambini dai loro letti nel mezzo della notte – scrive la direzione del quotidiano – e allontanarli da coloro con cui hanno costruito qualche legame per lanciarli nell’incertezza, può creare danni psicologici… Molti di loro passeranno una vita intera a cercare di riprendersi dai nostri errori».

Corriere 2.10.18
Si può colorare la storia
L’intervento sulle immagini della Grande Guerra nel nuovo film di Peter Jackson (Signore degli Anelli)
Gli studiosi: «Se il messaggio è onesto si può»
di Roberta Scorranese


Toccare le sfumature di grigio della storia non è mai indolore: basta ricordare «Dunkirk» (2017) di Christopher Nolan per evocare le polemiche di chi faceva notare che la pellicola sulla Seconda guerra mondiale ha enfatizzato soprattutto il ruolo delle divisioni dalla pelle bianca. Ma il nuovo film di Peter Jackson, «They Shall Not Grow Old» (traducibile con «Non invecchieranno», che verrà presentato in anteprima al London Film Festival il 16 ottobre) si addentra in un altro territorio delicato: è giusto colorare i filmati d’archivio della Grande Guerra e restituirli poi in 3D?
È quello che ha fatto il regista de «Il signore degli anelli»: attraverso un sofisticato intervento tecnologico durato anni e articolato in laboratori indiani, canadesi e californiani, ha selezionato centinaia di materiali originali sul conflitto — tra i quali molti video custoditi nell’Imperial War Museum di Londra. Poi li ha colorati, arricchiti nella qualità video e audio e resi in tre dimensioni. Lo staff di Jackson ha spiegato che in questo modo «si restituisce voce ai soldati e si può meglio indagare nelle speranze e nelle paure dei veterani». Sì, però quelle sembrano immagini dell’altro ieri, quando invece sono trascorsi cento anni.
Non è però detto che sia sbagliato. Siamo davvero sicuri che quei filmati «originali» ci abbiano mostrato la guerra così com’era e non fossero, invece, qualcosa di già edulcorato, romanzato? Marco Mondini, storico del Novecento e autore del saggio «Il capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna» (Il Mulino), appoggia la scelta di Jackson: «Io credo che stia semplicemente ricreando lo sguardo originale che fotografi e cineoperatori avevano sul primo conflitto mondiale. Perché quella fu una guerra fortemente mediatica: per una serie di ragioni, quasi mai nei filmati dell’epoca c’è la verità». Prima di tutto, la censura: si mostravano quasi sempre immagini di soldati sorridenti, sulle vette scintillanti dell’Adamello o nelle trincee intenti a leggere lettere.
«Quasi mai si vede un corpo dilaniato, al massimo ci sono cadaveri composti e sempre appartenenti al nemico — continua Mondini — quando sappiamo bene che ci sono stati milioni di vittime su tutti i fronti. E poi il colore non è estraneo al racconto della Grande Guerra: noi oggi se pensiamo a quel conflitto abbiamo in mente le vivacissime illustrazioni di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere, uno che non andò mai al fronte, bensì, nel suo studio di Milano, fece quello che ha sempre fatto, per tutta la vita: ha inventato».
Eppure la «colorizzazione» delle immagini in bianco e nero non è mai andata giù, non solo a molti storici, ma anche a molti cinefili. Quando, esattamente trent’anni fa, l’emittente via cavo Tbs mise in onda una versione colorata di «Casablanca», si mosse persino la (avida) industria di Hollywood, che parlò di «degrado di una forma d’arte americana». James Stewart ne fece una battaglia personale sin da quando gli colorarono (sempre in quel fatale 1988) «La vita è meravigliosa», dove interpretava un grandissimo George Bailey, il quale non solo figurava in bianco e nero ma che in bianco e nero pensava (almeno all’inizio).
Un altro storico, Franco Cardini fa notare che, nei documentari, si è andati anche oltre, perché «hanno colorato filmati che riproducono raduni nazisti o riprese video sull’Olocausto», dove, in effetti, la manipolazione potrebbe ferire la sensibilità di molte più persone. Però lo storico invita a non ragionare «per nuda filologia» e a riflettere su che cosa si va a colorare: «Una corsia d’ospedale è di per sé bianca e nera o bianca e grigia, il colore sarebbe superfluo. Però se si restituisce una sfumatura a un contesto che di quella sfumatura ha bisogno, penso che sia giusto».
Dunque, la domanda è: rendere più vivida (cioè attuale, pulsante) la Grande Guerra attraverso il colore può giovare alla memoria? Può aiutare a coinvolgere i più giovani e a non dimenticare che la pace è un organismo fragile, tutto sommato giovane (almeno in Europa)? E che nei primi del Novecento ci arrivammo come dei «Sonnambuli» (per citare un bellissimo libro di Christopher Clark), cioè ignari delle sue conseguenze? Sia Mondini che Cardini evitano inutili rigidità: «L’importante — dicono — è che il messaggio di fondo sia onesto».

Corriere 2.10.18
Le trincee del medioevo
Lo scontro fra goti e bizantini in italia fu anche una lunga guerra di posizione
Un volume a più voci, curato da Paolo Grillo e Aldo A. Settia (il Mulino), passa in rassegna una serie di assedi e battaglie. Molto astuti e bellicosi si mostraronogli Ungari, capaci di prevalere sul campo a dispetto della inferiorità numerica
di Paolo Mieli


Una iscrizione celebrativa del ponte Salario di Roma racconta che quel ponte, «distrutto dal nefandissimo tiranno Totila», fu ricostruito nel 565 dal «gloriosissimo Narsete» dopo che lo stesso Narsete ebbe sconfitto i Goti «con mirabile celerità». Tale «mirabile celerità» — come si fa notare in Guerre ed eserciti nel Medioevo, a cura di Aldo A. Settia e Paolo Grillo, che sta per essere pubblicato dal Mulino nell’ambito di quattro diversi libri su «guerre ed eserciti» progettati da Nicola Labanca — consistette in un durissimo conflitto durato ben diciotto anni al quale, per giunta, presto seguirono in Italia i «non meno gravi turbamenti provocati dall’invasione longobarda». Curioso che fosse quella la percezione di «avvenimenti verificatisi fra la metà e la fine del V secolo che provocarono la frammentazione dell’Italia», rimasta tale poi per mille e cinquecento anni.
Quel periodo segnò in un certo senso l’inizio del «Medioevo militare» dal momento che, sostengono Settia e Grillo «la lunga contesa fra Goti e Bizantini anticipò procedimenti, tattiche ed espedienti, come la crescente importanza dei luoghi fortificati e la supremazia del combattente a cavallo, che caratterizzarono le guerre anche nei secoli successivi». Con una crescita nella guerra di posizione davvero considerevole: un conteggio degli assedi tra il 400 e l’800 nell’area bizantino-islamica e nell’Occidente europeo vede aumentare tali assedi dai 50 nel V secolo ai ben 252 del VI. Altro dato da mettere in evidenza è che gli eserciti bizantini di Belisario e Narsete erano composti in gran parte da mercenari unni. Che i Goti palesarono il loro «maggiore disagio nei confronti delle cerchie murarie manifestando la tendenza a distruggerle con l’illusione di costringere così il nemico a scendere in campo a viso aperto». Totila decise di distruggere sistematicamente le mura delle città affinché non potessero essere riutilizzate dagli eserciti nemici. Così fece a Benevento, Napoli, Roma, ma — affermano Settia e Grillo — «con scarso frutto poiché in alcuni casi egli stesso fu indotto a ricostruire le cerchia demolite». I Bizantini, per parte loro, non distruggevano mai le mura delle città di cui si impadronivano, «dando così implicitamente una prova della loro superiorità nella guerra d’assedio».
E le armi? Fra V e VI secolo, scrivono Settia e Grillo, il potente arco da guerra dei nomadi delle steppe, per quanto considerato in Occidente «arma ignobile», si impose nella necessità di contrastare validamente gli arcieri unni. Già Procopio di Cesarea mise in risalto come di quell’arma si servirono i cavalieri bizantini di Belisario, che nei fatti ridussero i fanti a funzione ausiliaria con il compito di formare la falange dietro la quale si riordinavano i cavalieri. Non di rado, però, i «cavalieri di entrambe le parti affrontarono i loro avversari smontando da cavallo e Narsete — riferisce Procopio di Cesarea — appiedò addirittura gli alleati barbari nel sospetto che potessero fuggire troppo in fretta abbandonando i fanti al loro destino, come in altri casi effettivamente avvenne». Fu in questo periodo che si stabilirono analogie tra Goti e altri barbari: si evitava in linea di massima di combattere di notte; la necessità di assumere i pasti al cospetto del nemico rappresentava un momento critico «che entrambe le parti cercavano di sfruttare a loro vantaggio»; il desiderio di preda prevaleva spesso su ogni altra considerazione.
L’Italia fu unita per l’ultima volta sotto il governo bizantino. Nel 568 calarono i Longobardi di Alboino e fu la fine di ogni unità. I Longobardi, durante la loro permanenza nell’area danubiana, in qualità di «federati dell’impero» assimilarono un’almeno superficiale «romanità da caserma» che sembra però limitata al nome delle cariche militari (dux, comes), a certi particolari del vestiario e dell’equipaggiamento e ad alcune regole disciplinari. Inoltre, per qualche decennio dopo l’arrivo in Italia, dovettero conservare la «consueta inciviltà di modi» loro attribuita da Procopio di Cesarea e continuarono a comportarsi «con la mentalità del federato che, militando per denaro, è pronto a cambiare facilmente padrone», tendenza che li predisponeva a lasciarsi corrompere. Gli uomini di Alboino non incontrarono grande resistenza e non già perché, come a lungo si ritenne, avessero preventivamente stretto un patto con i Bizantini, bensì per «la situazione di crisi in cui l’Italia versava a causa dei postumi di una grave pestilenza e della successiva carestia». L’impresa di Alboino si concluse con il «presunto assedio triennale di Pavia» che, scrivono Settia e Grillo, «se non è per intero un’invenzione del Diacono, si presenta come coloritura letteraria di un poco significativo episodio di resistenza locale».
Assai scarse sono, secondo i due autori, le battaglie in campo aperto delle quali si trova menzione nelle fonti: nel 643 i Bizantini furono sconfitti sul Panaro in uno scontro assai sanguinoso nel quale avrebbe perso la vita l’esarca Isacio. Di «minore impegno» dovette invece essere la battaglia avvenuta a Fiorino, fra Napoli e Avellino, dove l’esercito dell’imperatore Costante II sarebbe «fuggito terrorizzato davanti alla spettacolare prodezza del longobardo Amalongo, mostratosi capace di sollevare di peso un nemico con la sua lancia». A Cornate d’Adda nel 693 i Longobardi si affrontarono invece fra loro in un «tipico grande scontro di cavalleria» nel quale il ribelle Alahis rimase ucciso e molti dei suoi annegarono nel fiume.
Conquistata gran parte dell’Italia, i Longobardi assimilarono con prontezza i criteri difensivi propri della tarda romanità e dei precedenti regni barbarici: «Le fortificazioni alpine, in coordinamento con le numerose città fortificate, continuarono così per qualche secolo a essere strumento di una difesa elastica contro la penetrazione dei Franchi e degli Avari». Le chiuse alpine, costituite da un sistema di avvistamento e di rifugio che, almeno dal IV secolo d.C. sbarrava le valli principali, per quanto scarsamente presidiate, erano in grado di esercitare un’azione ritardatrice e di logoramento dell’aggressore lungo gli assi di scorrimento diretti a sud, mentre venivano messe in allarme le forze dislocate in pianura. Tale tradizionale modo di procedere «appare invece mutato dopo la metà del secolo VIII quando Astolfo nel 755 e nel 756 nonché Desiderio nel 773, di fronte agli attacchi dei Franchi, impegnarono tutte le loro forze in corrispondenza delle chiuse alpine con l’evidente intento di bloccare la progressione nemica nella sua fase iniziale»; soltanto dopo l’insuccesso di tale manovra essi «fecero ricorso alla consueta difesa passiva basata sulle città murate che però si rivelò anch’essa perdente, compromettendo così la sorte stessa del regno».
La scena politico-militare cambiò radicalmente nell’arco di tre anni, dal 768 al 771, quelli che intercorsero tra la decisione di Carlo Magno di sposare Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e la scelta di ripudiarla. Per la storia ufficiale Desiderio provocò la fine del suo regno con la decisione del 772 di attaccare la Roma di Papa Adriano I, il quale si rivolse ai Franchi per essere difeso. E la difesa di Carlo Magno fu a tal punto energica che si concluse con la conquista di Pavia (774), l’imprigionamento di Desiderio e della moglie e la loro deportazione in Gallia, l’ingiunzione a colui che avrebbe dovuto essere l’erede alla guida del regno, Adelchi, di andarsene in esilio a Costantinopoli. Quella débâcle finale non può essere spiegata né con la minore ricchezza dell’aristocrazia longobarda né tanto meno con la «pretesa inferiorità tecnica del suo armamento».
Nel frattempo agli Arabi «che ormai da decenni agivano da conquistatori nel sud della Penisola e insidiavano i suoi mari, si veniva ad aggiungere un nuovo temibile nemico esterno rappresentato dagli scorridori magiari, che fecero la loro prima comparsa in Italia nell’agosto dell’899. La risposta di Berengario I, in quel momento solo sul trono, fu «pienamente conforme alle tradizioni belliche dell’età carolingia»: mediante il consueto invio di messi egli «riuscì a reclutare un cospicuo esercito e mosse con risolutezza contro l’avversario sicuramente inferiore di numero, gli Ungari, respingendo ogni offerta di trattativa, sicuro di poter ottenere una vittoria che gli restituisse un prestigio mortificato da dieci anni di sconfitte e di patteggiamenti con i suoi avversari».
Anche se poi, sulle rive del fiume Brenta, in quello stesso 899 la fortuna gli voltò le spalle. Gli Italici, superiori di numero consideravano gli avversari già battuti, ma vuoi perché divisi da rivalità politiche, vuoi per aver dovuto affrontare inconsuete tecniche di combattimento, furono invece soccombenti. Perché? Gli Ungari — riferisce Liutprando di Cremona — «pongono imboscate in tre punti e attraversando il fiume per la via più breve piombano in mezzo ai nemici, sottraggono loro i cavalli per impedirne la fuga e li sorprendono nel momento critico del pasto colpendoli con tale velocità da inchiodar loro il cibo in gola». Sono le stesse modalità usate proprio dagli Ungari contro i Bavari: la velocità degli aggressori sorprende i nemici nel sonno e quegli stessi nemici vengono trafitti «con dardi ben diretti» nei loro giacigli. Poi gli Ungari fissate le «imboscate in tre punti», «astutamente simulano la fuga». I Bavari ingenuamente li inseguono sinché «quelli che sembravano vinti, schiacciano i vincitori». Capita la lezione, Berengario cercherà un’alleanza con gli Ungari. E la otterrà. «Una solida alleanza», la definisce Liutprando. In questo modo, concludono Settia e Grillo, «come era già successo nel Sud della Penisola con gli scorridori saraceni, anche gli Ungari poterono aggiungere ai proventi delle proprie razzie la pratica del mercenariato al soldo di prìncipi cristiani che disponevano di eserciti inadeguati alle loro ambizioni di potere».
È questo l’affascinante quadro che si ritrova in Guerre ed eserciti nel Medioevo. Un libro che può vantare i propri più illustri precedenti in ciò che hanno scritto, nel Settecento, Ludovico Antonio Muratori, poi nell’Ottocento Ercole Ricotti e infine, nel Novecento, Piero Pieri. Il quale Pieri, nel 1934, denunciava ancora come il «problema militare» fosse stato per secoli «trascurato del tutto in Italia», sia dal punto di vista tecnico, sia «da un punto di vista più ampio e comprensivo», così che per trovare un lavoro che si proponesse di trattare organicamente tale tema era necessario a suo avviso risalire alla Storia delle compagnie di ventura in Italia scritta da Ricotti novant’anni prima (nel 1844). Erano poi venuti importanti saggi di Franco Cardini, Mario Del Treppo. E un rilevante contributo di Simone Collavini, Guerra e potere, nel volume Storia d’Europa e del Mediterraneo, curato da Alessandro Barbero per la Salerno. Ma il numero di studiosi di tali questioni non si era mai ampliato come sarebbe stato opportuno.
Se si guarda allo stato attuale della storiografia militare italiana il quadro, secondo Settia e Grillo, è «ambivalente». Da un lato le iniziative organiche di ricerca sono ancora molto saltuarie e lo stesso si può dire delle «occasioni di riflessione metodologica». Dall’altro lato, però, si riscontra un’attenzione sempre crescente al tema da parte di giovani studiosi, interessati anche ad approfondire nuovi approcci e a confrontarsi con problemi specifici del campo. Qualche nome? Fabio Bargigia, Fabio Romanoni, Laura Bertoni, Antonio Musarra i cui contributi, peraltro compaiono, anzi costituiscono l’ossatura di questo volume.
Alle più tradizionali ricerche sulla cavalleria come espressione di una «superiorità di gruppo», in Italia fortemente influenzate dalla storiografia francese, scrivono i due autori, «si sono più recentemente aggiunti nuovi lavori sulla guerra come fattore di ascesa o di impoverimento per singoli e famiglie e come luogo per la costruzione di nuovi legami politici o clientelari». Tutto ciò «anche a sfidare il consolidato luogo comune che il Medioevo sia stato un periodo di lunga stasi tecnica e culturale, durante il quale l’irrazionalità e la pura spinta delle emozioni dominavano la conduzione della guerra e l’atteggiamento durante gli scontri». Un leggenda che deve essere sfatata.