il manifesto 2.10.18
Il potere politico delle armi
L'arte
della guerra. Si discute della finanziaria in deficit, ma si tace sul
fatto che l’Italia spende ogni anno miliardi a scopo militare
di Manlio Dinucci
Mercati
e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del
presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata
manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27
miliardi di euro. Silenzio assoluto invece, sia nel governo che
nell’opposizione, sul fatto che l’Italia spende in un anno una somma
analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di
euro, cui si aggiungono altre voci di carattere miitare portandola a
oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento
poiché l’Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni
al giorno.
Perché nessuno mette in discussione il crescente
esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari?
Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l’«alleato
privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento
della spesa militare.
Quella statunitense per l’anno fiscale 2019
(iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si
aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi
per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati
uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un
quarto della spesa federale. Un crescente investimento nella guerra, che
permette agli Stati uniti (secondo la motivazione ufficiale del
Pentagono) di «rimanere la preminente potenza militare nel mondo,
assicurare che i rapporti di potenza restino a nostro favore e far
avanzare un ordine internazionale che favorisca al massimo la nostra
prosperità».
La spesa militare provocherà però nel budget
federale, nell’anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi.
Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa,
salito a circa 21.500 miliardi di dollari. Esso viene scaricato
all’interno con tagli alle spese sociali e, all’estero, stampando
dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e
delle quotazioni delle materie prime.
C’è però chi guadagna dalla
crescente spesa militare. Sono i colossi dell’industria bellica. Tra le
dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono
statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop
Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica Bae
Systems, la franco-olandese Airbus, l’italiana Leonardo (già
Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.
Non sono
solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il
complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e
partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un
vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri
aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.
La
Leonardo, che ricava l’85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è
integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce
prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del
Pentagono, ma anche alle agenzie d’intelligence, mentre in Italia
gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin. In
settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima
contrattista, per fornire alla Us Air Force l’elicottero da attacco
Aw139. In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del
Ministero dell’Economia e delle Finanze) ha consegnato alla Us Navy,
con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.
Tutto
questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi
parlamentari e istituzionali italiani, c’è uno schiacciante consenso
multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.