l’espresso 30.9.18
Le parole del presente/5 IDENTITÀ
Dissento dunque sono
colloquio con Ágnes Heller
di Wlodek Goldkorn
La
libertà di giudizio costa molto cara. Persino accuse di tradimento. Ma è
l’unica forza in grado di opporsi al Male. Così dice la grande filosofa
Quando,
nel corso di un pubblico dibattito, sentì l’affermazione per cui non
bisognava parlare dell’identità ma di appartenenze, perché l’identità
era una parola che richiamava le ideologie degli anni Trenta, Ágnes
Heller reagì con una certa brutalità e disse: «Le identità esistono
invece, noi non siamo esseri astratti, siamo il nostro passato, la
nostra memoria». Per proseguire quel dialogo e per capire qual è la
natura e le caratteristiche della parola identità appunto, sempre più
spesso pronunciata da politici e intellettuali in questo nostro
Occidente dove si innalzano i muri e costruiscono campagne di odio,
proprio in nome dell’identità, siamo andati a Budapest a trovare la
89enne filosofa, una volta icona della sinistra ribelle, oggi saggia
liberale. Heller vive in un piccolo appartamento in un edificio nuovo
sulla riva del Danubio. La prima cosa che si nota, entrando, sono le
grandi finestre che danno la luce, e l’apertura verso un balcone che dà
sul fiume e da cui, lei orgogliosa, mostra all’ospite il panorama della
città. Coincidenze? Forse, ma fatto sta che una grande filosofa devota
dei Lumi e della Ragione, ecco, una persona così ha scelto di vivere in
un appartamento che rispecchia il suo pensiero e approccio al mondo. Ci
sediamo a un tavolo e Heller comincia:
«Se lei è venuto per
chiedermi qual è la mia identità, le rispondo: ne ho diverse, sono
ungherese, ebrea, donna, filosofa e potrei continuare. Ma se mi
chiedesse quale tra queste identità sia la più importante, risponderei:
dipende dalla circostanza, da quello che sto facendo e da qual è il
compito che mi sono data. Oggi, per me è di primaria importanza la mia
identità ungherese; e questo a causa del primo ministro Viktor Orbán.
Sono convinta che il suo regime sia estremamente pericoloso per
l’Ungheria e per l’Europa».
Sta dicendo che l’importanza
dell’identità è determinata dal grado di insofferenza nei confronti
degli avversari. Ma quali sono le ragioni per le quali il discorso
sull’identità è diventato cruciale in politica, in Europa?
«Per
via del nazionalismo etnico, un fenomeno che è causa e al contempo
conseguenza del peccato originale del nostro continente: ossia la Prima
guerra mondiale. La Grande guerra a sua volta ha generato i regimi
totalitari; figli del nazionalismo etnico. Ecco perché si tratta del
fenomeno identitario più pericoloso in assoluto».
Tuttavia fino a
pochi anni fa, forse fino alla crisi scatenata dal fallimento di Lehman
Bros, non molte persone consideravano il loro essere italiano o
francese la dimensione più importante della loro identità.
«Non è
vero. Guardi i giochi olimpici. La gente tifa per la propria nazione.
Forse la questione dell’identità nazionale non era interessante per gli
intellettuali, ma in tal caso hanno sbagliato. E sa perché? Perché un
intellettuale è legato all’idioma in cui crea e comunica. La lingua
nazionale è l’identità del poeta e dello scrittore. E allora la
questione è come definisci la tua identità nazionale e non se questa
identità esiste».
Dal dopo Auschwitz abbiamo però vissuto
nell’idea che il nazionalismo, e quindi il considerare l’identità
nazionale come la più importante delle nostre identità, fosse la via
maestra verso il razzismo e gli orrori. Può esserci un’identità
nazionale non pericolosa?
«I francesi l’hanno creata; è l’idea che la Nazione coincide con la Repubblica, non con l’etnia». Comunque il populismo avanza.
«Cosa
vuol dire populismo? È una parola che viene usata perché abbiamo
l’illusione di vivere ancora in una società divisa in classi. E invece
la nostra è una società di massa. La gente non vota a seconda
dell’interesse di classe, ma per convinzione ideologica. Tutti i partiti
politici sono oggi populisti, perché tutti si rivolgono a tutto il
popolo, costruendo narrazioni. E queste narrazioni sono ideologie,
benevole o malevole. Ci sono narrazioni fondate su verità e narrazioni
il cui fondamento è la menzogna. Ma comunque nessuno è in grado di
vincere le elezioni sulla base del programma economico come accadeva
invece una cinquantina di anni fa. Per parafrasare Spinoza: così come
una passione può essere vinta da un’altra passione, la narrazione può
essere vinta da un’altra narrazione. E io, francamente, non so per quale
motivo il nazionalismo etnico venga chiamato populismo».
Una
volta lei disse che la nostra identità è la nostra memoria. Ma si
potrebbe obiettare che la memoria è la storia che raccontiamo a noi
stessi e ad altri; quindi in parte immaginazione e invenzione. Noi ci
ricordiamo quello che vogliamo a seconda del momento e della situazione e
di come vogliamo rappresentarci.
«Il modo in cui lei rappresenta
la sua memoria ad altri non è il suo passato; ma è invece la narrazione
del suo passato. Lei prende tracce di memoria, scampoli di ricordi e li
mette insieme creando dei nessi. Ma quella storia non è precisamente la
memoria; è appunto solo una storia».
Però un politico può
raccontare come vuole la memoria ungherese, italiana, polacca, senza
mentire né inventare, ma dando una sua versione, funzionale alla sua
ideologia, al suo discorso del potere e quindi manipolata, non condivisa
da tutta la nazione.
«In tal caso parliamo di memoria culturale o
collettiva, non più individuale. La memoria culturale è testo. Un testo
può essere composto in una maniera differente, a seconda delle
circostanze. Ovviamente, la natura della memoria nazionale dipende dal
testo che si sceglie. Ed è questo che fanno i politici. Del resto sono
stati i politici a inventare le feste nazionali; la prima, il 14 luglio
francese. Il testo delle feste nazionali è differente da quello delle
feste religiose. Nelle feste religiose si ripetono le stesse cose da
duemila anni, scritte nei libri sacri. Nelle feste nazionali è il
politico che parla di cose successe qualche decennio fa; e quasi sempre a
sostegno della propria versione della storia. Un esempio: quello che il
governo di Budapest oggi racconta del nostro 1956 (la Rivoluzione
soppressa
«Non sbagliava. Però, una cosa la devo dire: la memoria
degli sconfitti è importante per chi tra gli sconfitti è vivo. Degli
antichi popoli, delle antiche tribù, scomparsi sappiamo poco o niente.
Nell’assenza della vita, la memoria si estingue. Resta come tradizione».
Lei come filosofa parla spesso della libertà. L’identità ha a che fare con la libertà? Noi scegliamo la nostra identità, o no?
«La
scegliamo, ma fino a un certo punto. Possiamo “ri-scegliere” quello che
siamo. Io “ri-scelgo” di essere ebrea e donna. In altre parole: io ho
deciso di essere donna ed ebrea. E questa è l’espressione della mia
volontà. Ma ci sono altre identità che non scegliamo e in cui siamo
nati». Facciamo un provvisorio riassunto. L’identità è sempre stata
importante, è plurale, parzialmente la possiamo scegliere, se diventa un
discorso etnico è estremamente pericolosa maneggiata dai politici. E
tuttavia, nella letteratura, nell’ambito della moda (un linguaggio
universale che parla del futuro), tra i giovani va forte una figura che
in tedesco si chiama “Doppelgänger”, il doppio; l’ambivalente. Facciamo
due esempi: se guarda come sono vestiti i ragazzi nelle nostre
metropoli, ha l’impressione che siano androgini, abbiano una doppia
identità sessuale. E poi, il successo di un romanzo come “Giuda” di Amos
Oz, dove il tradimento è presentato come una necessità e un’ipotesi di
azione da persone oneste e perbene.
«Quella del tradimento è una
storia vecchia. Già nella Bibbia Geremia è accusato di essere un
traditore (a causa della sua visione geopolitica, ndr). E se parliamo
del libro di Oz, è pur sempre fiction».
Sarà fiction, ma c’è un personaggio che ricorda un intellettuale israeliano vero, contrario alla nascita dello Stato.
«Se nel 1947 eri contro la nascita dello Stato ebraico, eri un traditore».
E
allora, la stessa domanda riformulata: nel mondo in cui i nazionalisti
ci dicono che si può avere una sola identità e che quella identità
esclude l’Altro, dobbiamo avere il coraggio di essere traditori?
«Dipende. Dobbiamo averlo, quando è giusto passare per traditori».
Willy Brandt e Marlene Dietrich tradirono, si schierarono con gli alleati contro la loro patria, la Germania.
«Avevano
ragione. Come avevano ragione i deputati ungheresi a Strasburgo che
hanno votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria di Orbán. La vera
domanda però è un’altra: un giudice per farsi accreditare come buon
ungherese deve tradire la propria professione?».
Professoressa
Heller, quando diventiamo anziani, spesso proviamo bisogno di tornare ai
nostri luoghi d’infanzia, per esempio a Budapest; di indagare sui
nostri nonni, specie quando non li abbiamo conosciuti (condizione comune
per gli ebrei della generazione nata subito dopo la Catastrofe). Perché
questo bisogno di tornare alle radici?
«Io non ne ho bisogno e
non sono tornata a Budapest per cercare le mie radici. Ma posso parlare
dei miei amici e conoscenti. È moda. Specie si si fa parte di un
ambiente cosmopolita. Le racconto una storia: tanti anni fa a Roma a
Campo de’ Fiori ho chiesto al proprietario del ristorante come andare da
un’altra parte della città. Mi rispose: “Non so, non ho mai lasciato
questo quartiere”. Poi, sull’aereo per l’Australia una donna mi
raccontava di avere un appartamento a Sydney, uno a Hong Kong, un altro a
New York. Le ho chiesto dove stava di casa. Mi ha risposto: “La casa è
dove sta il gatto”».
Può un immigrato sentirsi a casa in Italia,
senza saper l’italiano, senza saper leggere Dante e quindi senza avere
una certa conoscenza della tradizione e della cultura cristiana?
«Sinceramente
non lo so. Negli Stati nazione l’integrazione significa assimilazione. È
quanto è stato chiesto agli ebrei negli Stati etnici, ad esempio in
Ungheria. Ma a New York integrazione non significa assimilazione; sei
cittadino e basta. Questa è la regola in tutto il mondo nuovo. Ho
vissuto in Australia. Dopo tre anni sono diventata cittadina e
considerata filosofa australiana. Punto». Proviamo a parlare di
capitalismo e identità e memoria. Il capitale ha memoria?
«Non
esiste il capitale, come entità fisica. Marx ha definito il capitale
come un rapporto sociale. Un rapporto sociale non può avere memoria».
Ma allora perché con la globalizzazione l’identità nazionale si è rafforzata? In apparenza è un paradosso.
«Farei
alcuni distinguo. Intanto, ci sono fenomeni che non possono essere
globalizzati. Quello che invece sicuramente si può globalizzare è la
cultura. Se lei va alla Biennale di Venezia, vedrà opere di vari Paesi
che non si differenziano l’una dall’altra; se va in Cina, la lirica è la
Traviata o il Ring wagneriano. Ma se prendiamo in considerazione
personaggi come Orbán, Erdogan, Putin, allora parliamo del proitto,
della redistribuzione degli utili, in un modo opposto a quello
socialdemocratico. Chi serve il tiranno può avere successo e soldi, chi
non lo serve è escluso».
Sta dicendo che l’ideologia identitaria è solo una maschera del potere?
«No.
Ma perché una simile ideologia vinca occorre che ci sia bisogno di
identità e nostalgia per un capo che indichi la strada, dica cosa fare:
la sindrome della paura della libertà».
Resta inevasa la domanda sul perché abbiamo bisogno di identità.
«Perché
è molto difficile essere umani. Il mondo in cui gli umani crescono è
pericoloso, strano, o nel migliore dei casi, difficile. Per combattere
la solitudine l’essere umano deve definire se stesso». Era più più
facile essere umani in una società di classi, dove era chiaro chi era il
subalterno?
«Era più facile finché esistevano le comunità. Si
nasceva, si viveva, si moriva nello stesso luogo. E tutti sapevano a
quale luogo e quale classe appartenevano».
Sarebbe di rito una
domanda sul futuro della sinistra. Ma invece cito Zygmunt Bauman, che un
giorno mi disse: dal momento che non ci sono più modi di vita e quindi
identità di classe operaia, è difficile definire la sinistra.
«La
divisione tra destra e sinistra appartiene al passato. Esisteva dalla
metà dell’Ottocento e fino alla fine del Novecento. Oggi in Europa la
linea di divisione passa tra i federalisti e il nazionalismo etnico. La
vittoria dei nazionalismi etnici signiicherebbe la fine dell’Europa. Non
è retorica. Non abbiamo più la forza economica né la nostra cultura è
particolarmente interessante. Ci resta solo la democrazia liberale. Se
rinunciamo a questa, abbiamo chiuso».
Domanda supplementare. Cos’è il Male?
«Sono
in totale disaccordo con Hannah Arendt: il Male non è banale né è la
mancanza di riflessione. E del resto neanche lei lo poteva pensare
seriamente, lo ha detto perché era incapace di tradire il pensiero di
Heidegger. Io ho la mia concezione del Male e del Male radicale. In
breve, e per citare Thomas Mann, tutti noi violiamo i dieci
comandamenti, desideriamo la donna altrui, a volte rubiamo,
nell’immaginazione uccidiamo. Ma il Male radicale si ha quando qualcuno
dice: devi rubare, devi uccidere, devi far soffrire l’altro. E perché
quel Male si manifesti, occorrono certe condizioni sociali e politiche».
E la cosa più importante nella sua vita?
«Dipende dal
momento. Ma il momento più bello fu quando vidi il carro armato
sovietico entrare nel ghetto dove ero rinchiusa. Quel carro armato
significava vita».
Gli stessi carri nel 1956 portarono morte e oppressione.
«La liberazione non sempre significa libertà. Le ho detto che è difficile essere umani».
Con
“Identità”, la quinta delle “parole del presente” scelte da Wlodek
Goldkorn per mettere a fuoco i cambiamenti epocali in corso, si conclude
una serie di incontri con figure di primo piano del mondo della
cultura. Il ciclo di interviste è iniziato a maggio con il termine
“libertà”, definito insieme con il grande intellettuale polacco Adam
Michnik. A seguire è stata la volta dello scrittore spagnolo Javier
Cercas, alla ricerca del senso dell’“onestà”. Donatella Di Cesare ha
riflettuto sull’idea di “straniero”. Il sociologo Ilvo Diamanti ha
ragionato intorno alla parola “populismo”. A chiusura, Ágnes Heller,
molto amata dai lettori italiani. I suoi saggi più recenti sono editi da
Castelvecchi (“Una teoria della storia”, “Il potere della vergogna”,
Foto: M. Toniolo - Agf “Il lungo cammino delle donne”) e Mimesis
(“Un’etica della personalità”). dall’invasione sovietica, ndr) non ha
niente a che fare con l’esperienza del 1956 come me la ricordo io».
Resta il fatto che le memorie e le identità degli sconfitti (come i
rivoluzionari ungheresi o, un esempio più radicale, il mondo yiddish
scomparso durante la Shoah) sono tuttora importanti. Perché lo sono? Per
quale motivo ne siamo devoti? O sbagliava Walter Benjamin, quando
diceva che nella memoria degli sconfitti si possono leggere elementi del
futuro?